La macchina era una bellezza: torri di ingranaggi che, coi loro denti numerati, facevano presa su una serie di barre fatte ruotare per mezzo di una manovella. Mentre la faceva girare, la diciassettenne Ada Byron guardava rapita lo strumento di Charles Babbage che continuava a macinare numeri, calcolando quadrati, cubi e persino radici quadrate. La Byron era sempre stata affascinata dalle macchine, una passione incoraggiata dai tutori che sua madre era stata felice di metterle accanto.
Qualche anno dopo, mentre studiava i progetti di Babbage per la macchina analitica, Ada – ora sposata con il conte di Lovelace – intuì che non si trattava di un mero strumento per macinare numeri e iniziò a prender nota di tutto ciò che avrebbe potuto fare: «La macchina analitica non si colloca sullo stesso piano dei semplici “calcolatori”, ma è qualcosa di totalmente nuovo che apre la porta a delle considerazioni di natura più interessante».
Gli appunti di Ada Lovelace vengono oggi considerati come i primi passi nel campo della creazione dei codici informatici. Il seme della sua intuizione si è sviluppato nella rivoluzione dell’intelligenza artificiale (IA) che sta trasformando il mondo contemporaneo, alimentata dal lavoro di pionieri come Alan Turing, Marvin Minsky e Donald Michie. Tuttavia, la Lovelace si manteneva cauta sulle reali possibilità di qualunque macchina: «È meglio guardarsi dal coltivare delle idee esagerate riguardo alle potenzialità della macchina analitica. Quest’ultima non ha assolutamente nessuna pretesa di originare qualcosa: può fare soltanto ciò che noi le ordiniamo di compiere». Riteneva che, in ultima analisi, tale strumento fosse segnato da una limitazione radicale: non poteva produrre nulla di più dei dati che gli venivano messi dentro.
Questa idea è stata ripetuta per molti anni come un mantra dell’informatica. In fin dei conti, rappresenta il nostro scudo contro la paura di mettere in moto qualcosa che non siamo in grado di controllare. Qualcuno ha affermato che, per programmare una macchina in modo che sia artificialmente intelligente, dovremmo innanzitutto comprendere l’intelligenza umana.
Ciò che succede all’interno delle nostre teste resta tuttora un mistero, ma negli ultimi anni è emerso un nuovo modo di pensare il codice: un passaggio dall’abitudine a programmare dall’alto, top-down, a un tentativo di lasciare che sia il computer stesso a tracciare dal basso, bottom-up, il proprio cammino. Una delle conseguenze di questa nuova impostazione è che non è più necessario risolvere innanzitutto il problema dell’intelligenza: possiamo lasciare che gli algoritmi vaghino nel paesaggio digitale e imparino come fanno i bambini. Oggi il codice creato attraverso l’apprendimento delle macchine si sta muovendo in modi sorprendentemente ricchi di intuizione, riuscendo – per esempio – a identificare degli aspetti in precedenza nascosti nelle immagini mediche o a investire con scaltrezza sul mercato azionario. Questa generazione di programmatori ritiene di essere finalmente in grado di dimostrare che Ada Lovelace aveva torto: che, cioè, possiamo ottenere da una macchina più di quello che vi abbiamo inserito.
C’è però ancora un regno dell’esperienza umana dal quale pensiamo che le macchine saranno sempre tagliate fuori: la creatività. Noi abbiamo questa straordinaria capacità di immaginare, di innovare e di creare opere d’arte che elevano, espandono e trasformano ciò che significa essere umani. Tutte queste cose sono il prodotto di quello che indicherò come il «codice umano».
Noi riteniamo che questo codice dipenda dall’essere umano in quanto è un riflesso di ciò che significa essere umani. Il requiem di Mozart ci consente di contemplare la nostra stessa mortalità. Assistendo a una rappresentazione dell’Otello, abbiamo l’occasione di esplorare il nostro paesaggio emotivo, con i suoi sentimenti di amore e di gelosia. Un ritratto di Rembrandt sembra catturare molto di più del semplice aspetto fisico del modello. Come potrebbe una macchina sperare di rimpiazzare un Mozart, uno Shakespeare o un Rembrandt, o anche solo di competere con loro?
Dovrei dichiarare fin dall’inizio che il mio campo di riferimento è dominato dalla produzione artistica occidentale: è questa l’arte che conosco, la musica con cui sono cresciuto, la letteratura che domina le mie letture. Sarebbe affascinante sapere se l’arte prodotta da altre culture potrebbe essere più facilmente catturabile dall’opera di una macchina, ma ho il sospetto che quella a cui siamo davanti sia una sfida di carattere universale, che trascende i confini tra le diverse culture. Così, pur scusandomi per come il mio punto di vista è incentrato sull’Occidente, ritengo che esso potrà comunque fornire dei parametri generali adatti a valutare la creatività dei nostri rivali digitali.
Va certo detto che la creatività umana non è limitata all’ambito delle arti: ne vediamo delle manifestazioni nella gastronomia molecolare dello chef Heston Blumenthal (tre stelle nella guida Michelin), nella maestria calcistica dell’attaccante olandese Johan Cruijff, negli edifici curvilinei di Zaha Hadid o nell’invenzione del cubo di Rubik da parte dell’ungherese Ernö Rubik, solo per fare qualche esempio. Anche la creazione del codice di un gioco come Minecraft andrebbe considerata come uno dei grandi atti della creatività umana.
E per quanto ciò possa suonare strano, la creatività riveste un ruolo importante anche nel mio mondo professionale, quello della matematica. Una delle cose che mi spingono a passare ore alla scrivania elaborando equazioni e scrivendo dimostrazioni è proprio il fascino di creare qualcosa di nuovo. Il mio momento di creatività più grande, quello a cui continuo a ripensare, è stato quando ho concepito un nuovo oggetto simmetrico. Nessuno sapeva che questo oggetto fosse possibile, ma dopo anni di duro lavoro e un improvviso lampo di ispirazione, ho potuto tracciare sul mio taccuino giallo il modello di questa nuova forma. Quel momento di euforica eccitazione è ciò che caratterizza il fascino della creatività.
Ma che cosa intendiamo, realmente, con quest’ultimo termine, dal significato così mutevole? Coloro che hanno cercato di focalizzarlo si sono in genere ritrovati a girare attorno a tre idee: la creatività è l’impulso a trovare qualcosa di nuovo, di sorprendente e di valore.
In fin dei conti, produrre qualcosa di nuovo è facile: posso chiedere al mio computer di sfornare infinite proposte di nuovi oggetti simmetrici. Quello che risulta più difficile da produrre sono invece la sorpresa e il valore. Nel caso della mia creazione simmetrica, io ero legittimamente sorpreso da ciò che avevo elaborato, così come le erano gli altri matematici: nessuno si aspettava quella strana, nuova connessione che avevo scoperto tra questo oggetto simmetrico e il campo, da esso slegato, della teoria dei numeri. Il fatto, poi, che questo oggetto suggerisse un nuovo modo di intendere un’area della matematica piena di problemi irrisolti era ciò che gli dava valore.
Ogni giorno, a tutti noi capita di essere intrappolati in qualche schema di pensiero: crediamo di sapere già come si evolverà la storia ma poi, all’improvviso, ci ritroviamo portati in una nuova direzione. Questo elemento di sorpresa è ciò che risveglia la nostra attenzione e costituisce probabilmente il motivo per cui ci sentiamo eccitati di fronte a un atto di creatività, che sia nostro oppure di qualcun altro.
Ma che cos’è che dà valore a qualcosa? È solo una questione di prezzo? Dev’essere riconosciuto anche dagli altri? Io potrei dar valore a una poesia o a un dipinto che ho creato, ma è difficile che il mio giudizio sul loro valore sia condiviso da molta gente. Un romanzo sorprendente, con tanti colpi di scena, potrebbe essere di scarso valore; dal canto opposto, un nuovo e sorprendente approccio alle tecniche di narrazione, all’architettura o alla musica che inizia a essere adottato dagli altri e che cambia il modo in cui vediamo o sperimentiamo le cose verrà in genere riconosciuto come qualcosa che vale. Questo è ciò a cui si riferiva Kant parlando di «originalità esemplare»: un atto originale che diventa d’ispirazione per gli altri. Questa forma di creatività è stata a lungo tempo ritenuta qualcosa di esclusivamente umano.
Eppure, tutte queste espressioni di creatività sono, a un qualche livello, i prodotti di un’attività neuronale e chimica. È il codice umano, scritto nel nostro cervello da milioni di anni di evoluzione. Non appena iniziamo a considerare i frutti della creatività della specie umana, vediamo che al cuore del processo creativo ci sono delle regole. Ora, è possibile che la creatività sia qualcosa di più algoritmico e strutturato di quanto vorremmo ammettere?
La sfida di questo libro è quella di spingere la nuova IA fino ai suoi limiti per vedere se sia in grado di eguagliare – o magari persino di superare – le meraviglie del nostro codice umano. Una macchina potrebbe dipingere, comporre musica o scrivere un romanzo? Magari non sarà in grado di competere con Mozart, Shakespeare o Picasso, ma potrebbe avere la stessa creatività dei nostri figli quando scrivono una storia o dipingono una scena? Interagendo con le opere d’arte che ci colpiscono e comprendendo che cos’è che le distingue dalle cose banali e insipide, potrebbe imparare a essere creativa? O, addirittura, potrebbe estendere la nostra creatività e aiutarci a vedere delle opportunità che al momento non cogliamo?
«Creatività» è un termine sfuggente che può essere inteso in molti modi diversi a seconda delle differenti circostanze. Io mi concentrerò soprattutto sulla sfida della creatività nelle arti, ma ciò non significa che questo sia l’unico tipo possibile di creatività. Le mie figlie sono creative quando costruiscono i loro castelli con i mattoncini Lego; mio figlio è applaudito come un centrocampista creativo quando conduce la sua squadra di calcio alla vittoria. Possiamo risolvere creativamente i nostri problemi quotidiani e dirigere le organizzazioni con creatività. E, come mostrerò, la matematica è una disciplina molto più creativa di quanto potremmo credere, una creatività che di fatto ha molto in comune con quella delle arti.
L’impulso creativo costituisce una parte chiave di ciò che distingue gli esseri umani dagli altri animali; ciononostante, spesso lo lasciamo intorpidire dentro di noi, intrappolati dalle nostre routine. Per essere creativi, ci serve una scossa che ci faccia uscire da quei tracciati monotoni che percorriamo ogni giorno. È qui che una macchina ci potrebbe essere d’aiuto: forse potrebbe darci proprio quella scossa di cui abbiamo bisogno, facendoci balenare davanti una nuova idea, trattenendoci dal semplice ripetere il medesimo algoritmo giorno dopo giorno. In ultima analisi, quindi, le macchine potrebbero aiutare noi umani a comportarci un po’ meno da macchine.
Forse vi starete chiedendo come mai sia proprio un matematico a offrirsi di accompagnarvi in questo viaggio. La risposta è semplice: l’IA, l’apprendimento delle macchine, gli algoritmi e il codice sono, in sostanza, tutte cose matematiche. Se volete capire come e perché gli algoritmi che controllano la vita moderna fanno ciò che fanno, dovete comprendere le regole matematiche che stanno alla loro base; in caso contrario, sarete completamente passivi di fronte alle macchine che dominano la nostra vita, come foglie trasportate qua e là dal vento.
L’IA pone una sfida fondamentale alla nostra peculiarità umana, in quanto ci mostra come molti dei compiti svolti dagli uomini possono essere fatti altrettanto bene – se non addirittura meglio – dalle macchine. Ma anziché concentrarsi su un futuro di auto senza pilota e di medicina computerizzata, questo libro si chiederà se gli algoritmi siano realmente in grado di competere con il potere del codice umano. I computer possono essere creativi? E che cosa significa essere creativi? In che misura la nostra risposta emotiva di fronte a un’opera d’arte è un prodotto del modo in cui il nostro cervello reagisce a un determinato schema e a una certa struttura? Queste sono alcune delle domande su cui ci soffermeremo.
Quella che abbiamo davanti, però, non è soltanto un’interessante sfida intellettuale. Come la produzione artistica degli esseri umani ci consente di intuire qualcosa sul complesso codice umano che dirige i nostri cervelli, così vedremo che l’arte generata dai computer ci offre un modo sorprendentemente potente di comprendere come lavora il loro codice informatico. Una delle sfide del codice che viene a emergere in questa impostazione bottom-up è che spesso i programmatori non comprendono appieno come funziona il codice finale. Perché sta prendendo quella decisione? L’arte da esso creata potrebbe offrirci una lente in grado di darci accesso ai processi decisionali subconsci del nuovo codice, e potrebbe anche rivelarci i limiti e i pericoli inerenti alla creazione di un codice che non comprendiamo del tutto.
C’è poi un’altra ragione, più personale, che mi spinge ad avventurarmi in questo viaggio. Sto attraversando una crisi di carattere esistenziale: con tutti i nuovi sviluppi nel campo dell’IA, mi sono ritrovato a chiedermi se, nei decenni a venire, il lavoro del matematico esisterà ancora. La matematica, in fin dei conti, è una disciplina incentrata sui numeri e sulla logica; e non sono queste, forse, le cose che un computer sa fare meglio?
Una parte della mia strategia di difesa mentale contro l’idea che i computer possano bussare alla porta del dipartimento pretendendo un loro posto al tavolo è che, per quanto la matematica riguardi i numeri e la logica, essa è anche una disciplina altamente creativa, che ha a che fare con la bellezza e con l’estetica. In questo libro, vorrei mostrare che la matematica che condividiamo nei nostri seminari e sulle nostre riviste non è semplicemente il risultato prodotto da esseri umani che fanno girare una manovella meccanica. L’intuizione e la sensibilità artistica sono qualità importanti di un buon matematico, e questi sono senz’altro dei tratti che non potranno mai essere programmati in una macchina. O forse sì?
È per questo motivo che, come matematico, sono attento a capire quanto successo la nuova IA sta ottenendo sul piano dell’accesso alle gallerie, alle sale concerti e alle case editrici del mondo. Il grande matematico tedesco Karl Weierstrass scrisse che «un matematico che non è un po’ poeta non sarà mai un vero matematico». Come vediamo perfettamente incarnato nella figura di Ada Lovelace, un pizzico di Byron è necessario tanto quanto una buona dose di Babbage. Pur pensando che le macchine fossero limitate, la Lovelace iniziava a comprendere che questi strumenti fatti di ingranaggi e ruote dentate avrebbero potuto avere la potenzialità di esprimere un lato più artistico del loro carattere:
Potrebbe applicarsi anche ad altre cose oltre che ai numeri […] supponendo, per esempio, che i rapporti fondamentali tra le altezze dei suoni nella scienza dell’armonia e della composizione musicale possano essere espressi e adattati in questi modi, la macchina potrebbe comporre brani musicali elaborati e scientifici di qualunque lunghezza o grado di complessità.
Tuttavia, la Lovelace credeva che ogni atto di creatività sarebbe stato proprio del programmatore, non della macchina. Ma è possibile spostare il peso della responsabilità più verso il codice? L’odierna generazione di programmatori ritiene di sì.
All’alba dell’IA, Alan Turing propose un famoso test per misurare l’intelligenza di un computer. Io oggi vorrei proporne uno nuovo: il test di Lovelace. Per passarlo, un algoritmo deve originare un’opera d’arte creativa in modo tale che il processo risulti ripetibile (vale a dire, che non sia il frutto di un semplice errore a livello di hardware) senza però che il programmatore sia in grado di spiegare in che modo l’algoritmo ha prodotto proprio tale risultato. Questo è ciò che oggi sfidiamo le macchine a fare: trovare qualcosa di nuovo, di sorprendente e di valore. Perché una macchina venga giudicata davvero creativa, è poi necessario un altro passo: il suo contributo non dovrebbe essere riducibile a un’espressione della creatività del programmatore o della persona che ha compilato il dataset. È questa la sfida che, secondo Ada Lovelace, per le macchine sarebbe stata insormontabile.