Santuario nuragico di Santa Vittoria, Serri
Eva e Mara si chinarono per passare sotto il nastro che delimitava la scena del crimine e lo tennero alzato per Moreno Barrali. Il poliziotto aveva lasciato il bastone in macchina, dicendo che non ne aveva bisogno; Eva si disse che probabilmente si vergognava di farsi vedere in quella condizione dagli ex colleghi della Mobile, così non gli porse una mano quando notò che era in difficoltà, per non metterlo in imbarazzo.
I tre firmarono il registro delle presenze e indossarono guanti e soprascarpe per non contaminare nulla. Il crepitio delle radio della polizia e il vociare delle persone accalcate vicino al cadavere facevano da sfondo sonoro ai loro pensieri.
Eva si guardò intorno: il santuario sorgeva su un alto promontorio immerso in un’oasi naturalistica; gli occhi potevano spaziare per chilometri e chilometri senza incontrare ostacoli. La vastità del territorio avrebbe reso un inferno la vita dei tecnici della Scientifica, dilatando i tempi dell’indagine.
I tre poliziotti si avviarono in silenzio verso il capannello di colleghi, in divisa e no, che attorniavano il tempio a pozzo. Era già stata montata una grossa tenda bianca, affollata di personale in tuta Tyvek che stava repertando il materiale trovato nei primi rilievi. I periti riprendevano tutte le procedure con videocamere di ultima generazione mentre i fotorilevatori sciamavano intorno a un dirigente tecnico, immortalando ogni dettaglio segnalato dal superiore.
Un poliziotto in divisa li fece attendere per qualche minuto. Barrali ne approfittò per chinarsi a osservare meglio una sorta di fantoccio d’erba secca dall’aspetto antropomorfo isolato dagli uomini del Gabinetto della Scientifica di Cagliari. Lo fotografò col suo smartphone, mormorando qualcosa tra sé.
«Tutto ok, Moreno?» chiese Mara al collega.
L’uomo annuì. Il viso smagrito era pietrificato dall’angoscia. Da quando erano andate a prenderlo, a seguito della telefonata di Farci, Barrali non aveva praticamente aperto bocca, martoriato dai sensi di colpa per non essere riuscito a scongiurare quell’omicidio.
Eva vide il commissario capo a qualche decina di metri da loro, impegnato in una chiamata ad alto tasso di tensione, a giudicare dalle smorfie e dal modo nervoso con cui gesticolava.
“Prefetto o questore” pensò Croce. “Se non addirittura qualcuno più in alto.”
L’agente li fece finalmente passare e i tre investigatori raggiunsero il pozzo sacro.
Croce si pentì di non aver accettato l’antiemetico che Mara le aveva offerto quand’erano ancora in macchina: aveva sospettato che quello della collega fosse un modo subdolo per mettere alla prova la sua freddezza da sbirra – pratica verso cui nutriva particolare predilezione, dato che lo faceva di continuo – così aveva rifiutato. In realtà, Rais era stata semplicemente perspicace, perché una cosa era vedere le foto di una persona uccisa in quella maniera, per quanto raccapriccianti; ben altra era trovarsela a pochi metri dai piedi, circondata da un nugolo di mosche e con l’odore del sangue che ti frugava dentro le narici.
Il patologo era chino sulla ragazza, indaffarato nell’ispezione preliminare: attraverso una mascherina dettava le prime considerazioni a un assistente che registrava le sue parole, appuntando alcuni dettagli su un blocco.
Qualsiasi constatazione sulla morte sarebbe stata scontata: la scena cultuale parlava da sé.
Moreno si guardò intorno. «La cornice rituale è la stessa degli altri omicidi… Mi sembra di essere tornato indietro nel tempo, a quei giorni» mormorò come tra sé.
Eva colse le sue parole. «C’è qualche dettaglio che stona rispetto ai vecchi casi?» chiese.
Barrali osservò il perimetro con maggiore attenzione, poi riportò gli occhi sulla vittima. «Mi pare di no. Mi sembra di essere tornato a Orune o a Matzanni.»
«Mancano i resti di un fuoco o di un falò» intervenne Rais, guardandosi intorno e dando prova di un’eccellente memoria fotografica.
«È vero» constatò Barrali.
«C’è Nieddu» comunicò Eva ai due partner.
Il commissario si avvicinò insieme a Paola Erriu, il suo braccio destro. Eva notò che il dirigente sembrava invecchiato di dieci anni.
«Non le hanno ancora tolto la maschera» disse il commissario. Nelle sue parole brillava una pallida speranza, come se ci fosse ancora una labile possibilità di eludere quel sospetto che ormai aveva assunto la concretezza di un’evidenza.
Nessuno rispose. Tutti stavano pensando alla stessa cosa. O meglio, alla stessa persona.
Eva osservò la lussureggiante vegetazione che circondava l’acropoli naturale dove sorgeva il santuario: boschi secolari di querce da sughero, piante di leccio e cisto che digradavano fino a scomparire nelle dolci campagne della Sardegna centro-meridionale ai piedi del complesso cultuale. La poliziotta stava cercando di capire quale fosse stata la via più agevole per l’assassino attraverso cui accedere all’area sacra, probabilmente portandosi in spalla la vittima.
«Immagino che non ci siano né un custode né delle telecamere» disse Mara a Nieddu. Anche lei stava pensando a una possibile via di accesso.
«Già.»
«Questo la dice lunga sulla premeditazione» commentò Rais. «E sulla nostra sfiga.»
«Chi ha trovato il cadavere?» domandò Moreno, infrangendo il silenzio in cui si era rinserrato.
«Quel tipo lì che i vostri colleghi stanno interrogando. È uno degli operatori della cooperativa che gestisce il centro» disse Paola Erriu. «È sotto shock.»
«Si rifarà presto, e con gli interessi. Una volta tolti i sigilli, non appena la notizia arriverà alla stampa, questo luogo diventerà tappa di un turismo dell’orrore senza precedenti» disse Rais, disgustata. «Si faranno ricchi grazie all’omicidio.»
«La donna che è con loro è il magistrato che ha aperto il fascicolo sulla sparizione, Adele Mazzotta» disse Nieddu, indicando il gruppetto di poliziotti. «È probabile che più tardi voglia fare due chiacchiere anche con voi.»
«Ci siamo. Le stanno togliendo la maschera» disse Mara.
I poliziotti si avvicinarono.
Agostino Trombetta, il medico legale, tolse la corona di fronde posata sul capo e sfilò sa carazza ’e boe, scoprendo un viso livido, gonfio e tumido per effetto di un feroce pestaggio. «C’è qualcuno in grado di riconoscerla?» domandò. Dall’accento Eva dedusse che non era sardo. Doveva venire da qualche paese del Sud Italia.
«Noi» disse Nieddu, facendosi forza.
Si avvicinò alla vittima insieme alla sua assistente, si inginocchiarono e fissarono il viso tumefatto, rigato da macchie di sangue rappreso.
«Chiunque l’ha uccisa, si è divertito per bene prima» disse uno sbirro dell’Investigativa, accompagnato da un coro sommesso di imprecazioni in sardo da parte dei suoi colleghi.
Eva notò che la partner si faceva il segno della croce e sussurrava quella che intuì essere una sorta di preghiera in sardo: «Chi sa terra ti siat lebia».
Gli occhi di Moreno erano umidi di pianto trattenuto, e quando vide lo sguardo cupo che Nieddu si scambiava con la Erriu, due lacrime solcarono il viso del vecchio investigatore.
«È ridotta molto male, ma credo sia proprio lei» disse con un filo di voce Nieddu.
«Ne è sicuro?» domandò Adele Mazzotta, il magistrato, che si era avvicinata per assistere al riconoscimento.
«Sì, è lei…» confermò Paola Erriu, dopo qualche secondo. «È Dolores Murgia…»
Santuario nuragico di Santa Vittoria, Serri
Eva e Barrali si erano sistemati sui sedili di pietra in quello che, secondo i pannelli illustrativi, si chiamava “recinto di giustizia”, un luogo dove, si supponeva, si tenevano i responsi degli dèi nuragici una volta compiuti i sacrifici. Moreno aveva avuto una sorta di mancamento a seguito dell’identificazione di Dolores. Croce e Rais erano riuscite a sostenerlo prima che crollasse a terra.
«Sicuro che non vuoi farti dare un’occhiata?» domandò di nuovo lei, indicando l’ambulanza.
«No, grazie. È stata una cosa passeggera. Mi sono già ripreso. Ho solo bisogno di riposarmi un po’.»
Eva era combattuta: avrebbe voluto fargli decine di domande, dato che al momento Barrali era l’unico investigatore presente sulle scene di tutti e tre gli omicidi rituali. Di più, era il solo tra loro ad aver avuto rapporti diretti con Roberto Melis, il capo spirituale dei neonuragici, quello che di colpo era divenuto il principale sospettato per l’omicidio di Dolores. Ma la poliziotta aveva paura che coinvolgerlo nell’analisi del caso potesse peggiorare la sua lucidità, già pregiudicata dalla malattia; come se non bastasse, lei e Mara avevano anche promesso a Grazia, sua moglie, di tenerlo fuori dalle indagini, per il suo bene.
«So cosa stai pensando» disse Moreno, mandando all’aria la sua reticenza. «Chiedimi tutto ciò che vuoi.»
Eva osservò la partner, impegnata a parlare con Farci, Nieddu e la Mazzotta, a un centinaio di metri da loro. Doveva prendere un’iniziativa personale, cosa che probabilmente l’avrebbe messa in rotta di collisione con Rais.
“Fregatene. È troppo importante registrare le sue impressioni a caldo” rifletté.
«Che sensazioni hai, Moreno? Il modus...