Esci dalla gabbia dei tuoi pensieri
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Esci dalla gabbia dei tuoi pensieri

  1. 220 pagine
  2. Italian
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Esci dalla gabbia dei tuoi pensieri

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Ansia, narcisismo, perfezionismo, desiderio, orgoglio, insofferenza, senso di colpa: tutti noi ci confrontiamo con le tante manifestazioni del nostro ego, e tutti noi ci troviamo spesso imprigionati nel continuo mormorio costruito dalla nostra mente. Eppure, con i giusti strumenti, è possibile trovare le chiavi per comprendere e dominare le nostre paure e avviarci verso un'esistenza felice.
Il dottor Serge Marquis, forte di oltre trent'anni di esperienza nel trattamento dei disturbi da stress e ansia e autore del bestseller Ferma il criceto che hai in testa!, raccoglie in questo libro brevi racconti in cui gli animali protagonisti delle diverse storie rappresentano in modo chiaro e coinvolgente i desideri, i dubbi e le inquietudini che ogni giorno popolano i nostri pensieri e ci mostra, racconto dopo racconto, come spezzare il circolo vizioso che paralizza la nostra mente e uscire dalle gabbie che da soli ci costruiamo. Perché, come ci insegna l'autore, a furia di seguire le tante voci dei nostri pensieri, tutti noi ci ritroviamo troppo spesso a rimpiangere il passato o a temere il futuro, dimenticando che "la soluzione di un problema è nel presente".

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2019
ISBN
9788858697092
Ape regina

L’ALVEARE

È un giorno normale. Diciamo un lunedì, un altro grigio lunedì. Quel che si dice un giorno davvero normale.
Eppure niente è più lo stesso: nelle ultime ore è arrivata l’ape regina. Nessuno la conosce ancora, e del resto è impossibile conoscerla: appena arrivata si è chiusa nella sua celletta e si è resa invisibile. Una sparizione d’effetto, sconcertante, inaudita quasi. Ma la regina è presente, presentissima, la si sente ovunque. Come la paura.
È la prima volta, nella storia dell’alveare, che viene accolta una regina proveniente dall’esterno. Il consiglio l’ha invitata per via della sua reputazione, delle sue capacità.
Da quando è arrivata l’alveare continua a riempirsi di profumi. Nient’altro. Nessun messaggio, nessun segno, solo profumi. Però io provo una strana sensazione, come se pian piano non riuscissi più a governare i miei gesti. E poi mi succede qualcosa anche nell’addome, nella parte bassa, come se ci fosse un profumo…
Della regina non sappiamo niente. Su di lei circolano voci. C’è un ronzio continuo di tutte le ali all’opera. Qui, quando non si sanno le cose, ci si inventa delle verità: una nuova diceria scalza le precedenti, le sostituisce, e si diffonde di favo in favo come le malattie. Un potente movimento frutto dell’ignoranza: non ci si fa più domande, si vogliono solo risposte. E perché queste non vengano poi mai rimesse in discussione, bisogna che ogni singolo occupante dell’alveare abbia la stessa identica risposta. È la legge decretata dall’angoscia.
E della nuova ape regina si dicono tante cose: che è bella o brutta, alta o bassa, forte o fragile. A seconda dei bisogni di ognuno e dei timori collettivi… Chi è? Cosa farà? Non si fa vedere, non si fa sentire, dunque nell’attesa che si manifesti tutti se la inventano.
Io però non ho aspettato, perché volevo sapere. Conosco i passaggi segreti, i corridoi, i tunnel. Li ho costruiti io! Be’, diciamo che ho umilmente contribuito alla loro costruzione.
Mi sono avvicinata a passo di mosca o di ragno, quel genere di passi che non ha nulla da invidiare al silenzio, quegli spostamenti che nessuno è capace di sentire, nemmeno se è vicinissimo. Anche le farfalle fanno così.
Ho fatto un forellino nella cera. È stato faticoso perché le pareti sono spesse, fatte di più strati. Una blindatura, una protezione rinforzata che viene costruita quando esistono delle minacce. Mi sono tornate in mente le parole di mia madre, la regina precedente: «I muri che vengono innalzati o prolungati sono un modo molto potente, per chi li fa costruire, di diffondere la paura, di esporla a mo’ di pubblicità; una sorta di schermo gigante su cui non è scritto niente, ma dove si possono leggere tutti gli orrori perpetrati in nome della sicurezza». Mia madre non blindava nulla, soprattutto non il suo amore.
Ora è stata sostituita. Ha passato quattro anni a covare duemila uova, giorno e notte, da febbraio a settembre. Un’impresa tanto banale quanto spettacolare: mettere al mondo ognuna di noi! Dopo che aveva deposto quattrocentomila uova, ci sono state molte api operaie che hanno smesso di nutrirla. Le sue prestazioni non erano più quelle di un tempo. E allora lei ha capito. Un mattino di aprile, prima che il sole potesse illuminare il suo volo, ci ha lasciate, accompagnata dalle sue più fedeli api nutrici. Ma prima mi ha confidato: «Bisogna saper andar via. Arriva un momento in cui la fertilità imbocca una nuova strada, ed è quella che si deve seguire. Ogni cosa è fertilità, anche la morte, ma tutti noi lo ignoriamo perché siamo in preda a uno strano fenomeno: l’attaccamento. Dentro di noi c’è qualcosa che non vuole scomparire: l’ego. Figlia mia adorata, dovrai diventare consapevole di cos’è l’ego, cioè quella montagna di identità che accumuliamo nel corso della vita. Ci aggrappiamo a ognuna di quelle identità proprio come fanno gli umani quando si aggrappano a una boa in mezzo al mare o si mettono l’imbracatura su una falesia, e non la molliamo più, perché abbiamo paura di smettere di esistere, di non essere più niente. Il ruolo di regina fa parte di queste identità, ma ce ne sono molte altre: l’aspetto esteriore, il nostro status sociale, le nostre occupazioni, il tipo di miele che fabbrichiamo. Lascio l’alveare, figlia mia, completamente libera dal bisogno di essere qualcuno. Mi sento più che mai feconda, vibrante di quella fecondità che nessuno può intaccare o distruggere: di quella misteriosa pulsazione che batte in ogni singola fibra. Non parlo di quella grazie alla quale avrei potuto fregiarmi di essere unica, una grandissima regina ovodepositrice – forse la migliore della storia –, e fare così in modo che nessuno si dimenticasse di me, ma di un’altra pulsazione, quella di cui tutti noi facciamo parte; io parlo di un flusso in cui la memoria non ha più alcuna importanza». Era come pervasa, attraversata, da una fremente dolcezza. Ha piegato le zampe, reclinato il capo, si è prostrata a lungo dinanzi alla covata di larve e poi è scomparsa nell’alba.
Avvicinando le antenne al favo ho sentito la nuova regina per la prima volta: erano dei ronzii secchi, freddi, pungenti come degli ordini. E poi l’ho vista attraverso un buchino. Non ce ne voleva uno più grande per vederla: lei occupa così tanto spazio da lasciarne davvero poco alle altre api.
Ho visto anche le mie sorelle e i miei fratelli, ma lo spettacolo è un po’ brutale: tutti che chinano il capo, piegano le ali, si accalcano, si arrampicano, spariscono. Insomma, una sfilata di gesti indecenti, come lo sono quelli della sottomissione. Tutti accondiscendono perché la nuova regina ha ragione, ha sempre ragione; l’unica opinione ammessa è la sua e la afferma con una convinzione tale che induce a tacere, una fermezza che ti colpisce e ti confonde facendoti immediatamente cadere preda di mille dubbi. Il suo aplomb taglia le ali e fa sentire che è pericoloso pensarla diversamente. Dunque tutti assecondano, si nascondono, si volatilizzano.
Io osservo la scena. Posso farlo perché nessuno sa che sono qui. Mi sono mossa con prudenza, non ho chiesto la complicità di nessuno, non ho fatto domande e non mi sono confidata con nessuno. L’intuizione mi è venuta dalla paura che c’è nell’aria: non bisogna contare su nessuno!
La regina è lunga, gigantesca, con gli occhi che sembrano due enormi buchi neri capaci di aspirare tutto quello che hanno intorno, di aspirare l’aria, soprattutto, e con l’aria anche l’esistenza degli altri. Lei incute soggezione, anche perché sa di farlo. È l’unica detentrice della verità, e diversamente dalle regine che l’hanno preceduta non ha tentennamenti, sembra non sapere cosa sia un dubbio.
Mentre la sto guardando, lei inizia a sfondare, mettendosi a testa in giù, la copertura del suo alveolo. La osservo e sono pietrificata, paralizzata da quell’esibizione di orgoglio e arroganza. Niente può resisterle. Sotti i colpi di ariete che squarciano la membrana, la parete alla fine si spacca. Agisce con una sicurezza davvero notevole. Dietro di sé lascia però intonse delle pareti liscissime che sono in grado di riflettere come specchi. Di sicuro ci si è rimirata a lungo. In certi punti le sue forme rimangono quasi incise; come uno stampo di se stessa scavato nella cera. Si direbbe quasi che abbia immerso tutto il suo corpo nella materia che la circonda, come se fosse stata attratta dal bisogno di abbracciare l’immagine di se stessa. Magari è rimasta anche soddisfatta delle tracce che ha lasciato lì, e comunque sia ora ha deciso di uscire. Con le sue lunghe zampe gialle inizia a vagare tra i favi. Nessuna, fra le api operaie, ha delle zampe altrettanto gialle e altrettanto lunghe. Le sue sembrano d’oro. Delle fibre d’oro, snodate, che mentre avanza si allungano.
In quello stesso momento, ecco che altre regine rompono il loro opercolo. Sono pallide, titubanti. Loro sono quelle che la comunità ha nutrito con la pappa reale, fabbricata lentamente – il latte delle api a cui non abbiamo aggiunto il polline. È questo il modo ancestrale con cui noi concepiamo le nostre madri… La nuova arrivata le attacca immediatamente, in maniera subdola, e le uccide. Deve rimanere soltanto lei, e nessun’altra. Da questi combattimenti esce indenne; sembra che niente possa colpirla. Le api operaie raccolgono i corpi agonizzanti che ha lasciato dietro di sé. Le future regine, così amate, ormai sono già cadaveri.
Un giorno normale, un grigio lunedì. Ma di normale non c’è più niente. Tutto è successo piano piano, impercettibilmente – ecco la parola giusta. È iniziato un nuovo modo di vivere, di fare le cose; come se a dirigere ogni nostro movimento ci fossero dei fili. Le nostre ali, le nostre antenne, i nostri aculei si muovono ormai seguendo ritmi indipendenti dalle nostre volontà. Non ce lo saremmo mai immaginato. Il lavoro quotidiano era molto impegnativo, richiedeva mille piccoli gesti da compiere e un alto grado di attenzione. Eravamo assorbite con tutto il nostro essere a sigillare, difendere e riscaldare, a passare in rassegna migliaia di celle, per pulirle, e poi con continui voli avanti e indietro per trovare l’acqua, raccogliere il nettare, il polline, la propoli. Vedo tre api operaie darsi ancora da fare in un favo. Ma non sanno bene come muoversi, e non fanno più come facevano un tempo. Non possono, perché ormai tutto è diverso. A partire da quel profumo…
Nel mio addome c’è qualcosa che si agita: sento come un’interruzione, un movimento che sta per finire. Non soffro, non sento male, cioè, non nell’addome. Sento solo quella specie di formicolio, un qualcosa… La vita che si raffredda.
Fuori fa un caldo torrido. Da settimane c’è un vapore denso che appesantisce i voli delle api operaie. Le più vecchie, addette al bottinaggio, rientrano coperte di piaghe. Non occorre che ci raccontino nulla, capiamo subito tutto dal loro aspetto, che è come un reportage dal vivo: le loro teste, rinsecchite come granelli di sabbia, sono sul punto di staccarsi. Mormorano: «Le verdure sono tutte raggrinzite, la terra, ormai spaccata ovunque, non ha più nulla da offrire. Dove prima trovavamo stagni e laghi, adesso sorvoliamo grandi distese di polvere e rocce. Tutto ciò che vivo manca completamente d’acqua. Si vedono alberi con la corteccia tutta crepata e le foglie accartocciate. Ai piedi dei tronchi ci sono lupi e lepri sfiancati e con la lingua di fuori, alla ricerca di un’ombra che non c’è. Il sole è nascosto da un velo denso che gli umani chiamano smog. Nei pascoli, le mucche e le pecore si leccano il pelame, forse nel tentativo di abbeverarsi con il loro stesso sudore. Da diverse lune la pioggia non cade più; i luoghi in cui facevamo rifornimento di cibo non esistono più, e ci sono solo dei crateri. Abbiamo perso i nostri punti di riferimento, e voliamo sopra campi che gli uomini cospargono di potenti pesticidi. Rimaniamo così stordite che a volte cadiamo; sbattiamo contro sassi, rami e tetti roventi. Ormai capita spesso di vedere decine di nostre simili ammonticchiate nelle grondaie, sfinite, che sbattono le zampette nell’ultimo tentativo di ritrovare la loro leggerezza. I fiori sono appassiti e non producono più il nettare necessario alla fabbricazione del miele; i loro gambi si sono afflosciati e i petali sembrano grattare la terra alla ricerca di un’energia che non ricevono più dalle radici. La siccità penetra qualunque cosa, perfino le nostre sorelle. È diventato difficile sostenerci tra noi, e si sono ormai create delle tensioni: c’è chi viene aggredita in pieno volo, a tradimento; c’è chi usa il pungiglione per colpire al ventre una sua simile. Si combatte per quel poco polline rimasto, anche se si tratta di rimasugli, di briciole. La collaborazione si è trasformata in scontro, e la comunità in un campo di battaglia. Non riusciremo a sopravvivere se privilegiamo questa nuova tendenza, questo nascondersi dietro all’“ognuno per sé”. Nessun miele potrà essere fabbricato nell’isolamento. Nessun’ape bottinatrice può pretendere di riuscirci da sola, e lo stesso vale per l’ape ricevitrice: le ali della prima sono fondamentali per la gola della seconda, e viceversa. Dobbiamo trovare il modo di tornare a essere quello che siamo realmente, dobbiamo recuperare quello che ci lega, ritrovare la nostra essenza. La nuova regina forse saprà farlo…».
Una luce, molto flebile, vibra nelle loro pupille granulose: la speranza.
Continuo a osservare la sovrana. Dopo la carneficina fatta, si liscia per bene le zampe, e con la punta delle antenne e del pungiglione si toglie di dosso i pezzi di carne rimasti attaccati ai tegumenti. Si ripulisce con estrema cura, e il modo in cui si sfrega mi fa venire il capogiro, che è poi il più grande terrore di un’ape!
Sento che fatico a rimanere in volo.
Ogni suo gesto è un avvilente mix di indifferenza e soddisfazione. Ormai ha finito, dunque modifica la postura, rotea la testa e rientra nella celletta in cui si era rifugiata prima. Ora però sembra accorgersi del forellino attraverso cui la sto osservando. Si blocca, immobile, proprio davanti a me. Io esito a togliere l’occhio: è impossibile che riesca a vedermi, il forellino è minuscolo, ho preso tutte le precauzioni. Dunque rimango lì.
La regina avanza verso di me, l’odore di profumi si intensifica e sembra quasi che lei mi fissi. Nella penombra, l’oro delle sue zampe brilla. Io entro in uno stato di trance simile a quello da cui vengono colti gli umani quando sono punti dal nostro pungiglione e hanno in circolo il nostro veleno. Ma ecco che all’improvviso lei esce dal mio campo visivo. Silenzio. Ho tutti i sensi all’erta, quando avverto un rumore che mi fa sobbalzare: qualcuno gratta sulla parete opposta. È lei, lì, vicinissima, sento la cera vibrare, sento che sta esplorando il muro che ci separa. Lo ispeziona con molta cura, sfregandosi anche con il corpo. Ho il cuore che accelera come quando sono in volo. Mi accorgo che alcune api operaie stanno raccogliendo i detriti causati dal suo ingresso dirompente. Dopodiché, più niente. L’oscurità. Capisco però che tutto quel nero che copre l’estremità opposta del piccolo tunnel in cui mi trovo è il suo occhio. Sono in preda al panico, ma non mi muovo: voglio capire, voglio sapere. Mi sento come dentro una cantina, una grotta. Inizio a scavare per trovare qualcuno, ma niente. Totale assenza di vita, solo il vuoto. Resto disarmata davanti all’insensibilità che accompagna questa mia ricerca. Eppure, per assurdo, provo quasi una sorta di gioia, quella che vediamo quando una di noi racconta le proprie imprese e denigra l’operato delle sue consorelle, quel senso di superiorità determinato dalla quantità di nettare buttinato o dal tempo passato volando ferme sopra un fiore. Insomma: l’ebbrezza del potere.
Non ce la faccio proprio più, ho voglia solo di una cosa: scappare! Ho bisogno di uno sguardo diverso per convincermi che ho torto, che sto interpretando male quello che vedo, che da qualche parte la vita è sempre presente. Invece sono inchiodata qui, dominata da questa freddezza. Non riesco più a muovermi, risucchiata da una doppia forza che neutralizza tutte le mie: l’insensibilità ve...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. ESCI DALLA GABBIA DEI TUOI PENSIERI
  4. PREMESSA, O PSICANALISI DI UNA TARTARUGA
  5. L’ALVEARE
  6. LA TROTA E IL SENZATETTO
  7. ONESIMO E LASKA
  8. LA CIVETTA E LA SPUGNA
  9. L’OSTRICA E IL VECCHIO
  10. LA LUCCIOLA E L’EFFIMERA
  11. CONCLUSIONE… E ULTIMA CHIAVE!
  12. RINGRAZIAMENTI
  13. Copyright