Tutte le novelle (1919-1936) Vol. 6
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Tutte le novelle (1919-1936) Vol. 6

Pubertà, Spunta un giorno, Soffio e altre novelle

  1. 528 pagine
  2. Italian
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Tutte le novelle (1919-1936) Vol. 6

Pubertà, Spunta un giorno, Soffio e altre novelle

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"Bisogna attraversare il fitto delle novelle e lasciarsene impigliare e graffiare per rendersi conto fino in fondo che Uno, nessuno e centomila e i sulfurei incompiuti Giganti della montagna, e i Sei personaggi stessi, senza il travaglio elaborante della novellistica non avrebbero potuto esistere." È con queste parole che il curatore Lucio Lugnani, dopo una vita accademica dedicata allo studio di Pirandello, presenta quest'edizione completa e commentata delle novelle pirandelliane: una raccolta unica in Italia, che ripercorre e rilegge in chiave moderna la genesi, le fonti di ispirazione, il contesto culturale ed esperienziale di un corpus di una ricchezza stilistica e tematica senza pari, corredandolo di un apparato di note critiche e bibliografiche aggiornate agli studi più recenti. Il volume conclusivo della raccolta - contenente celebri novelle come Il figlio cambiato, Pubertà e Soffio -, una perfetta testimonianza della maestria raggiunta da Pirandello nella fase finale della sua produzione.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2017
ISBN
9788858688816
VI
1919-1936

Jeri e oggi1

La guerra era scoppiata da pochi giorni.
Marino Lerna, volontario del primo corso accelerato di allievi ufficiali, avuta la nomina a sottotenente di fanteria, dopo una licenza di otto giorni trascorsa in famiglia, partì per Macerata, ov’era il deposito del reggimento a cui era stato assegnato: il 12. mo, brigata Casale.
Contava di passar lì qualche mese per l’istruzione delle reclute, prima d’esser mandato al fronte. Invece tre giorni dopo, mentre si trovava nel cortile della caserma, fu improvvisamente chiamato, non seppe da chi; e su per le scale si trovò insieme con gli altri undici sottotenenti arrivati con lui a Macerata dai diversi plotoni.
– Ma dove? Perché?
Su, in sala. Dal colonnello.
Rigido sull’attenti, coi compagni, davanti una tavola massiccia, ingombra d’incartamenti, fin dalle prime parole di quel colonnello dei carabinieri, che teneva in sostituzione il comando della caserma, comprese poco dopo che doveva esser giunto un ordine di partenza per loro.2
Con gli occhi ancora abbagliati dal sole di giugno3 che splendeva giù nell’ampio cortile, non riuscì in prima a discernere, nel bujo di quella tetra sala, se non l’argento della montura4 al collo della divisa del signor colonnello, il roseo d’una lunga faccia cavallina tagliato da un grosso pajo di baffi, e il biancheggiar delle carte sulla tavola.
Per un tratto, smarrì nello scompiglio tumultuoso dei pensieri e dei sentimenti il senso delle parole proferite con voce dura e urtante. Si sforzò di prestar attenzione e, sissignori, era proprio così: l’ordine di partenza era per la sera del giorno appresso.
Già al deposito si sapeva che il 12.mo occupava al fronte una tra le più aspre e difficili posizioni, sul Podgora;5 e che i più giovani ufficiali vi erano stati mietuti in parecchi assalti infruttuosi. Bisognava, dunque, correr subito a colmare quei vuoti.
La tensione dell’animo, appena il colonnello licenziò quei dodici giovani, si sciolse in ciascuno di loro, per un istante, in un curioso stordimento, quasi di delusa ebbrezza. Subito se ne distolsero per abbandonarsi a un eccesso di disinvoltura rumorosa; da cui però, un momento dopo, tornarono a riprendersi con uno studio di mostrare l’uno all’altro che quella loro disinvoltura non era punto affettata.
Si trovarono, a ogni modo, tutti d’accordo nella decisione di correre al telegrafo per annunziare ai parenti con parole animose la partenza.6
Tutti, meno uno. Proprio quell’uno tra gli ottanta del plotone allievi ufficiali che da Roma era stato assegnato con Marino Lerna al 12.mo reggimento: un tal Sarri; proprio quel tal Sarri che a Marino Lerna era tanto dispiaciuto d’avere a compagno, quasi che la sorte avesse voluto tra gli ottanta camerati del plotone romano scegliergli quello appunto che gli era più antipatico.
Ma veramente quel Sarri non aveva nessuno a cui telegrafare la sua partenza. In quei tre giorni passati insieme a Macerata, Marino Lerna, pur non riuscendo a mutare in fondo l’opinione che n’aveva, s’era sentito tuttavia un po’ meglio disposto verso di lui, forse perché da solo a solo il Sarri aveva smesso quell’aria sprezzante che lo aveva reso a Roma inviso a tutti i compagni del plotone. Marino Lerna aveva creduto di capire che lo sprezzo del Sarri derivava da un proposito, ch’era in lui quasi bisogno istintivo, di non confonder mai il suo sentimento con quello degli altri, dimostrando in tutti i modi ch’egli sentiva non pur diversamente, ma l’opposto, senza punto curarsi dell’altrui stima. Era forse, insomma, antipatico più per professione che per natura, e aveva l’orgoglio delle antipatie che suscitava.7 Poteva permetterselo, perché molto ricco e solo al mondo.
Da Roma s’era portata a Macerata una donnina allegra, che manteneva da circa tre mesi, ben nota ai compagni del plotone. Contava anche lui di rimanere al deposito forse più d’un mese e voleva in questo tempo cavarsi del tutto – diceva – almeno il gusto più facile, quello bestiale dell’altro sesso, sicuro com’era che non sarebbe certamente mancato per lui di morire8 in guerra, tanto l’idea di seguitare a vivere, dopo la guerra, nell’enfasi d’una patria piena d’eroi, gli era intollerabile.
Marino Lerna, mentre con gli altri si dirigeva al telegrafo, vedendolo restare indietro, si trattenne.
– Tu non vieni?
Il Sarri scrollò le spalle.
– No… volevo dire… – riprese il Lerna per riparare, un po’ imbarazzato, alla sciocca domanda. – Volevo chiederti un consiglio.
– Proprio a me?
– Non so… guarda: tre giorni fa, partendo da Roma, assicurai mio padre e mia madre…
– Tu sei figlio unico?
– Sì, perché?
– Ti compiango.
– Eh, lo so, per i miei. Li assicurai che non sarei partito per il fronte se non tra qualche mese, e che prima di partire sarei andato a salutarli per…
Stava per dire «per l’ultima volta». S’interruppe. Il Sarri lo capì; sorrise.
– Ma dillo pure, per l’ultima volta.
– No, ecco, speriamo di no; faccio le corna. A salutarli, diciamo, ancora una volta, prima di partire.
– Bene. E poi?
– Aspetta. Mio padre si fece promettere, che se per caso m’avessero negato la licenza, lo avrei avvertito a tempo perché potesse venir lui con la mamma a salutarmi qui. Ora, noi partiamo domani sera alle cinque.
– Se prendono questa sera il treno delle dieci, – seguitò il Sarri, – domattina alle sette possono essere qua9 per passare con te quasi tutta la giornata.
– Dunque, me lo consigli? – domandò Marino Lerna.
– Ma no! – esclamò il Sarri, senza esitare. – Scusa, hai avuto la fortuna di partire senza pianti…
– No, per questo, la mamma ha pianto!
– E non ne sei contento? Vorresti vederla piangere ancora? Ma di’ che parti stasera e salutali di qui! Sarà meglio per te e per loro.
Poi, vedendo che il Lerna restava lì incerto e perplesso:
– Ciao, eh – gli disse. – Vado ad annunziarla a Ninì, io, la partenza. Sarà da ridere. Mi ama! Ma quella, se piange, la scazzotto.
E se n’andò.
Marino Lerna s’avviò al telegrafo ancora perplesso se seguire o no quel consiglio. Al telegrafo ritrovò i compagni che avevano tutti telegrafato gli addii, senz’altro; e fece come loro; ma poi, ripensandoci e parendogli d’aver fatto un tradimento alla povera mamma, al babbo, spedì un nuovo telegramma d’urgenza, nel quale li avvertiva che se prendevano il treno delle dieci di sera, avrebbero fatto in tempo a salutarlo prima della partenza.
La mamma di Marino Lerna era una dura donnetta all’antica, come ne conserva ancora la provincia.
Eretta sul busto armato di grosse stecche, ossuta, un po’ legnosa, pur senz’esser magra; in un’ansia continua, tra sospetti e diffidenze, voltava di qua e di là gli occhietti aguzzi di topo, irrequieti.
Adorava tanto quel suo unico figliuolo, che per lui, per non staccarsi da lui già studente d’Università, aveva lasciato gli agi della sua casa antica, le abitudini patriarcali della sua vita in un villaggio degli Abruzzi; e da due anni era andata a stabilirsi nella Capitale ove si sentiva sperduta.10
Arrivò la mattina del giorno appresso a Macerata in tale stato, che subito il figlio si pentì d’averla fatta venire. Ma lei protestava di no, appena scesa dal treno: di no, di no; senza poter più staccare le braccia dal collo del figlio, piangendogli sul petto:
– Non me lo dire, Rinuccio… non me lo dire…
Il padre le batteva intanto, serio serio, una mano sulla spalla. Perché era uomo, lui. E non piangeva, lui.
A Roma, poco prima di partire, aveva avuto un certo discorso con un signore sconosciuto, il quale aveva anch’esso un figliuolo al campo fin dal primo giorno della guerra e due altri più piccoli in casa. Un certo discorso, sì. Niente. Un discorso tra due padri, ecco.
– Senza piangere…
Però, nello sforzo di trattenere il pianto a ogni costo (sforzo che gli appariva evidentissimo dagli occhietti lustri, febbrili), la sua magra personcina molto curata aveva ora una ridicola solennità artificiosa, che faceva pena, forse più di quell’abbandonato cordoglio della madre.
Era senza dubbio esaltato; accennava a quel suo misterioso discorso con quel signore sconosciuto, come per nascondervi un proposito che aveva intanto un ben curioso effetto: quello di fargliela vedere, come da fuori, a lui stesso, la sua esaltazione mascherata di calma, e di fargliene forse provare ora rimorso, ora fastidio,11 di fronte alla nuda schiettezza, alla commozione forte e muta del figlio che soffriva del pianto della sua mamma e le faceva coraggio più con le carezze che con le parole.
Fu pur troppo, come il Sarri aveva previsto, uno strazio inutile.
Accompagnati i genitori all’albergo, Marino Lerna dovette scappar subito in caserma, dove fu trattenuto fin quasi a mezzogiorno. E appena finito lì, nella stessa camera dell’albergo, il desinare (perché la mamma con quegli occhi disfatti dal pianto non fu possibile portarla al ristorante; e poi non si reggeva più sulle gambe), appena finito il desinare, dovette di nuovo ritornare in fretta e in furia alla caserma per le ultime istruzioni. Cosicché il padre e la madre non poterono rivederlo che pochi momenti appena, prima della partenza.
Ma un bel discorso, un bel discorso lungo e ragionato si provò a fare il padre alla moglie, come rimasero soli. Cose peregrine le disse in quel discorso, provandosi spesso a ingollare e passandosi la manina tremicchiante sulle labbra: che non si doveva piangere così, perché non era mica detto che Rinuccio… Dio liberi… i casi potevano esser tanti… il reggimento, per ora, poteva anche esser mandato in seconda linea, se si trovava agli avamposti, come dicevano, fin dal primo giorno della guerra… e poi, se tutti i soldati che andavano al fronte fossero morti, addio… più facile era che fossero feriti… qualche feritina lieve… a un braccio, per esempio… Dio lo avrebbe assistito, il loro figliuolo… perché fargli così la jettatura con quel pianto? Eh… eh… a vederla piangere così, Rinuccio si sarebbe impressionato; certo che si sarebbe impressionato…
Ma la madre diceva che non era lei. Gli occhi… gli occhi… che poteva farci? Per il senso che le facevano tutte le parole, tutti gli atti del suo figliuolo: un senso strano e crudele, di ricordo.
– Ogni parola, capisci? mi fa l’effetto che non me la dica ora, ma che me la diceva… Così!12 Mi resta impressa, come se lui già non ci fosse più… Che posso farci?… Dio… Dio…
– E non è jettatura, questa?
– No! che dici!
– Dico che è jettatura! E io mi metterò a ridere, vedrai che io mi metterò a ridere, quando partirà.
Se avessero seguitato ancora un poco, avrebbero litigato. C’era già acuta, fustigante l’impazienza per il ritardo del figliuolo. Ma Dio, come non capivano i superiori che quegli ultimi momenti dovevano essere riserbati a una povera mamma, a un povero padre?
L’impazienza diventò smania insopportabile, allorché tutti i compagni di Marino cominciarono a venire alla spicciolata e in gran fretta all’albergo, con le carrozze che si fermavano lì davanti ad aspettare il bagaglio per ripartir subito verso la stazione. Ecco, l’attendente dell’uno portava già la cassetta; l’attendente dell’altro, lo zaino, il cappotto, la sciabola; e via tutti a precipizio, in carrozza, di gran trotto.
Marino, uscito per ultimo dalla caserma, era corso a ritirare un pajo di scarpe imbullettate,13 da campagna,14 ordinate il giorno avanti; e aveva fatto tardi.
Più che un distacco, fu uno strappo, una furia, un precipizio. C’era il rischio di perdere il treno. Difatti, arrivò col padre e la madre alla stazione, che già chiudevano gli sportelli delle vetture: si cacciò in una, da cui i compagni si sbracciavano a chiamarlo; e subito il treno partì fra un tumulto di gridi, di pianti, d’augurii, tra uno svolazzio di fazzoletti e cenni di mani e di cappelli.
Quando il signor Lerna, che aveva agitato il suo fino all’ultimo, ma senza nessuna convinzione, quasi stizzito che non gli avessero dato il tempo di farlo bene, si voltò, ancora mezzo intronato, a cercarsi accanto la moglie, non la trovò più: l’avevano traspor...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Premessa
  4. 1884-1936: novelle per mezzo secolo di Lucio Lugnani
  5. Nota bio-bibliografica
  6. Abbreviazioni
  7. TUTTE LE NOVELLE VI 1919-1936
  8. Note
  9. Indice cronologico delle novelle
  10. Indice