Le regole della cura
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Le regole della cura

La medicina è un racconto

  1. 160 pagine
  2. Italian
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Le regole della cura

La medicina è un racconto

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Nonostante l'enorme sforzo di analisi e classificazione della malattia portato avanti nell'ultimo secolo, la medicina - "la più giovane di tutte le scienze', come la definisce l'autore di questo libro - ha caratteristiche peculiari che la differenziano dalle sorelle più anziane come l'astronomia, la fisica o la biologia. Prima di tutte la costante presenza dell'imperfezione.Il medico, infatti, si trova spesso di fronte alla difficoltà di conciliare il suo sapere, che è certo, fisso e concreto, con la propria intelligenza clinica, che invece è incerta, imperfetta e si nutre di dubbi. Per questo nessuna cura può essere definita tale, ed essere efficace, senza l'interazione tra il paziente e il medico che ne ascolta la storia, la interpreta e valuta la situazione alla luce delle proprie esperienze personali.Ricco di notizie storiche, esempi clinici e preziose informazioni sulla medicina moderna, Le regole della cura è un viaggio affascinante tra le battaglie e i momenti di illuminazione vissuti dai medici, che chi è al di fuori della professione ha raramente la possibilità di conoscere. Dobbiamo trovare un modo nuovo di concepire la medicina, ci spiega l'autore, stimolante e più umano.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2016
ISBN
9788858687284

LEGGE NUMERO TRE

Per ogni perfetto esperimento medico c’è una perfetta parzialità umana

Nell’estate del 2003 terminai i tre anni da interno di medicina e cominciai la specializzazione in oncologia. Il momento era eccitante. Il Progetto genoma umano aveva gettato le fondamenta della nuova branca della genomica, lo studio dell’intera informazione genetica di un essere vivente. Anche se critiche al progetto sono spesso apparse nei mezzi di informazione (compresa quella di non essere stato all’altezza delle attese) per la biologia oncologica esso fu una vera manna. Il cancro è una malattia genetica, una patologia causata dalla mutazione dei geni. Fino a quel momento la maggior parte degli scienziati aveva studiato le cellule neoplastiche un gene per volta. Con l’avvento delle nuove tecnologie per esaminare migliaia di geni in parallelo, la vera complessità del cancro cominciò a diventare evidente. Il genoma umano è composto da circa 24.000 geni. In alcuni tumori maligni, fino a 120 geni risultano alterati, cioè circa uno ogni 200, ma ci sono tumori maligni in cui i geni mutati sono solo due o tre. (Perché certi tumori sono così complessi e altri sono geneticamente elementari? Non solo le risposte, ma gli stessi interrogativi sollevati dal Progetto genoma sono in grado di sorprenderci.)
Perfino più importante è il fatto che la capacità di analizzare migliaia di geni in parallelo senza avanzare ipotesi preventive su eventuali mutazioni ha permesso ai ricercatori di scoprire nuove, del tutto inattese, correlazioni genetiche col cancro. Alcune mutazioni notate molto di recente sono risultate prive di collegamenti con le teorie in auge, riguardando geni che non controllano direttamente la riproduzione cellulare, ma influiscono sul metabolismo delle sostanze nutritive o i cambiamenti chimici del DNA. Il passo avanti rappresentato dalla genomica è stato paragonato alla differenza tra l’osservare solo un punto del paesaggio o l’intero panorama, ma forse è anche più radicale. Studiare il cancro prima di poter ricostruire la sequenza del genoma era indagare l’ignoto noto; potendo ricostruire quella sequenza, è indagare l’ignoto ignoto.
Molta dell’eccitazione intorno alla scoperta dei geni delle neoplasie proveniva dalla speranza che essi avrebbero aperto nuove prospettive allo sviluppo dei farmaci antitumorali. Se le cellule maligne ricorrevano ai geni mutati per la loro sopravvivenza e crescita (se «erano dipendenti» da quei geni, per usare una delle locuzioni preferite dai biologi), allora inibire i geni in questione con molecole ad hoc avrebbe permesso di eliminare o indebolire le cellule maligne, e di chiudere finalmente il capitolo dell’uso dell’arma rozza e indiscriminata dei veleni della riproduzione cellulare. L’esempio più spettacolare di un simile farmaco ad hoc, il Glivec, efficace contro alcuni tipi di leucemia, aveva galvanizzato il mondo dell’oncologia. Ricordo ancora il primo paziente che ho curato con il Glivec, un uomo di cinquantasei anni il cui midollo osseo era stato cancellato dalla neoplasia in tal misura che egli non aveva praticamente più piastrine, e sanguinava abbondantemente a ogni biopsia che gli era praticata. Uno specializzando doveva recarsi dal signor K. nel locale della biopsia con un’intera confezione di rotoli di garza, e premergli la ferita per una mezz’ora per arginare e fermare l’emorragia. Circa quattro settimane dopo l’inizio della terapia con Glivec fu il mio turno di effettuare la biopsia. Raggiunsi il signor K. col solito pacco di garze rassegnato a trenta minuti di calvario, ma come tolsi l’ago la ferita smise di sanguinare. Quella che avevo intravisto attraverso una lesione cutanea prontamente chiusa da un normale coagulo era una riga di una nuova pagina della cura delle neoplasie.
Intorno alla prima settimana del corso di specializzazione venni a sapere che un’altra sostanza dello stesso tipo, un cugino molecolare del Glivec, era sperimentata nel nostro ospedale contro una diversa forma di cancro. La sostanza aveva mostrato effetti incoraggianti in modelli animali e nelle prime somministrazioni ai malati, e una prova clinica su un gruppo di pazienti procedeva in modo molto promettente.
Avevo ereditato alcuni malati da uno specializzando che si era diplomato da poco. Un semplice sguardo ai risultati dei pazienti della mia lista suggeriva che il numero di risposte positive alla terapia fosse impressionante. Una donna con un voluminoso tumore addominale aveva visto scomparire la neoformazione in poche settimane. Un altro paziente aveva riferito di una drastica riduzione dei dolori da metastasi. Anche gli altri specializzandi avevano osservato analoghe, straordinarie risposte alla terapia tra i loro assistiti. Si discusse con timore reverenziale della nuova sostanza, della sua fantastica incidenza di risposte positive e di come poteva rivoluzionare il panorama della cura dei tumori maligni.
Eppure, a soli sei mesi di distanza, i risultati finali della ricerca furono stranamente deludenti. Ben lontana dal 70, 80 per cento di risposte positive che ci aspettavamo in base alle osservazioni precedenti, la reale percentuale di successi si attestò su un modesto 15 per cento. L’inattesa discrepanza appariva inspiegabile, ma il meccanismo celato dietro ai numeri diventò evidente nelle settimane successive, man mano che i dati vennero esaminati con attenzione. La specializzazione in oncologia durava tre anni, e ogni gruppo di specializzandi che si diplomava passava alcuni pazienti delle liste del proprio gruppo agli specializzandi del gruppo successivo, gli altri malati essendo lasciati alle cure più esperte dei medici curanti dell’ospedale. Un paziente passava a uno specializzando più giovane oppure a un medico curante a discrezione dello specializzando. La sola raccomandazione era che i pazienti assegnati agli specializzandi più giovani fossero casi con un elevato «valore didattico».
In sostanza, era accaduto questo: preoccupati che i nuovi specializzandi non fossero in grado di gestire le più complesse necessità cliniche degli uomini e donne che non rispondevano alle terapie, ovvero dei pazienti con le varianti più aggressive e refrattarie della malattia, gli specializzandi che si diplomavano lasciavano in eredità ai nuovi un numero molto alto di pazienti che rispondevano. Questa forma di parzialità, involontaria e in buona fede essendo solo il frutto del desiderio di assicurare cure adeguate a tutti i malati, aveva gravemente nuociuto alla bontà statistica della ricerca.
Ogni scienza paga un dazio all’inevitabile parzialità dell’essere umano. Perfino quando programmiamo complessi dispositivi atti a raccogliere e vagliare i dati al nostro posto, tanto la programmazione quanto la valutazione del risultato finale restano appannaggio dei ricercatori in carne e ossa con la loro inevitabile quota di parzialità. In medicina, il problema della parzialità è ancora più acuto per almeno due ragioni. La prima è la speranza: chi intraprende la strada della cura delle malattie desidera fortemente che le terapie siano efficaci. La speranza è un’ottima cosa nella medicina, in un certo senso è il suo cuore e il suo motore. Ma è anche una delle sue maggiori insidie. Pochi capitoli della medicina legati a una miscela di speranza e illusione sono stati più tragici, e più difficili da concludere, di quello della mastectomia radicale.
All’inizio del XX secolo, in un periodo di vivace rigoglio della moderna chirurgia, furono escogitati meticolosi interventi di rimozione dei tumori maligni del seno. Molte malate erano curate con simili «estirpazioni», eppure, nonostante la rimozione della neoplasia principale, finivano per soccombere alle metastasi nel loro organismo. Le ricadute dopo l’intervento diventarono la principale preoccupazione dei luminari della chirurgia oncologica. A Baltimora, il furiosamente produttivo William Halsted si convinse che frammenti di neoplasia involontariamente risparmiati durante la rimozione del cancro mammario fossero la causa ultima delle ricadute. Per Halsted, la chirurgia dei tumori mammari era «sporca» (unclean), nel senso che a suo avviso era molto facile che il chirurgo tralasciasse porzioni anche minime di tessuto neoplastico capaci di originare nuovi tumori.
L’ipotesi d Halsted era plausibile e in buon accordo con i fatti, ma, purtroppo, era sbagliata. Nella maggior parte delle donne con cancro mammario, la vera ragione della ricaduta dopo l’intervento non era la difficoltà di asportare completamente il tumore principale, bensì la capacità di quest’ultimo di colonizzare altre parti dell’organismo prima ancora dell’intervento. Inoltre, diversamente da quanto ipotizzato da Halsted, le cellule maligne provenienti dal tumore principale non si spargevano intorno a quest’ultimo in curve metastatiche via via più ampie, la loro disseminazione essendo capricciosa e non riconducibile a semplici schemi geometrici. Halsted, in ogni caso, continuò a essere ossessionato dal timore che l’asportazione del cancro mammario non fosse sufficientemente drastica. Per provare la sua tesi della diffusione locale del cancro, teorizzò e attuò l’amputazione non solo del seno ma di generose porzioni dei tessuti circostanti, compresi i muscoli che muovono le spalle e i linfonodi profondi del torace, in modo da «pulire» completamente la sede dell’operazione.
Halsted chiamò il suo procedimento «mastectomia radicale», dove «radicale» era da intendere alla lettera, ovvero come un riferimento all’idea di eliminare la pianta maligna della neoplasia con tutte le sue radici, comprese le più minute. Col tempo, però, il significato originario dell’espressione finì a sua volta per metastatizzare, trasformandosi in una delle più opache cause mediche di parzialità. Gli studenti di Halsted e le donne con cancro del seno interpretarono «radicale» nei sensi traslati di «coerente», «completo» e «risolutivo». E di fronte a una malattia grave e potenzialmente letale con una nota tendenza a recidivare, quale chirurgo e quale malata avrebbero optato per un intervento «contraddittorio», «incompleto» e «non risolutivo»? Non testata né contestata, la visione di Halsted diventò legge. Nessun chirurgo sentiva il bisogno di mettere alla prova una strategia che sapeva essere la più efficace. La mastectomia radicale secondo Halsted diventò un articolo di fede: asportare di più uguale guarire di più.
Eppure, le pazienti si riammalavano. Non di tanto in tanto, ma regolarmente. Al punto che negli anni Quaranta un piccolo gruppo di contestatori, il più illustre dei quali era il londinese Geoffrey Keynes, provò a scalfire il duro nucleo della mastectomia. Fu inutile, e si dovette arrivare agli anni Ottanta, otto decenni dalle prime asportazioni del seno secondo Halsted, per assistere al varo di una prova clinica randomizzata destinata a confrontare gli effetti a lungo termine della mastectomia radicale e di un’operazione più conservativa. (Bernie Fisher, il chirurgo che coordinò il test, scrisse: «Ci affidiamo a Dio. Gli altri portino dati».) Perfino quel test fu condotto a termine quasi per miracolo. Ammaliati dalla logica e dal prestigio dell’intervento radicale, i chirurghi americani furono così riluttanti a metterlo alla prova che l’arruolamento nel ramo di controllo rischiò di fallire, e...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Le regole della cura
  4. Nota dell’autore
  5. LEGGE NUMERO UNO. Un’intuizione forte è molto più potente di un esame debole
  6. LEGGE NUMERO DUE. La normalità ci insegna le regole, le anomalie ci rivelano le leggi
  7. LEGGE NUMERO TRE. Per ogni perfetto esperimento medico c’è una perfetta parzialità umana
  8. Ringraziamenti
  9. Indice
  10. TED La collana