Di fronte al Papa
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Di fronte al Papa

La mia vita nella Chiesa da Pio XII a Francesco

  1. 200 pagine
  2. Italian
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Di fronte al Papa

La mia vita nella Chiesa da Pio XII a Francesco

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Informazioni sul libro

Dei sette papi di questo libro – da Pio XII a Francesco, passando per Giovanni XXIII, Paolo VI, papa Luciani, Wojtyla e Ratzinger – Hans Küng, il "grande vecchio" della teologia dissidente, ha avuto un'esperienza diretta. Ha avuto modo di osservare e vivere da vicino le loro scelte e le loro azioni: per ciascuno di loro Küng ha un ricordo, un aneddoto, un giudizio, e in queste pagine parte proprio dal suo rapporto con i pontefici e dal ruolo spartiacque del Concilio Vaticano II per valutare il loro contributo – positivo e negativo – al percorso compiuto dalla Chiesa in questi decenni. Ne nasce una testimonianza d'eccezione, un confronto aperto e schietto in cui il teologo di Tubinga difende con coerenza la sua visione di una Chiesa non arroccata su posizioni dottrinali, ma aperta al mondo e ai suoi problemi, fedele al messaggio cristiano originario: una Chiesa "serva e povera" e soprattutto misericordiosa. Una Chiesa che con papa Francesco ha visto riaccendersi una nuova luce di speranza.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2017
ISBN
9788858687734

Paolo VI Montini
(1963-1978)

26-9-1897
nasce a Concesio (Brescia). Studia teologia presso il seminario di Brescia
1920
ordinazione sacerdotale. Studia diritto civile e canonico alla Pontificia Università Gregoriana e presso la Pontificia accademia ecclesiastica
1922-54
lavora nella Segreteria di Stato pontificia; dal 1937 è sostituto sotto il cardinale segretario di Stato Eugenio Pacelli
1954
arcivescovo di Milano
1958
cardinale
21-6-1963
diventa papa con il nome di Paolo VI
1963
prosecuzione del Concilio
1964
incontra il patriarca Atenagora a Gerusalemme
1965
si conclude il Concilio Vaticano II
1968
emana l’enciclica Humanae vitae, contro la contraccezione
6-8-1978
muore a Castel Gandolfo

3

Paolo VI – Giovanni Battista Montini

Nel bel mezzo dello scontro sui preti operai – di cui ho dato un ampio resoconto nel primo capitolo – mi recai dal padre gesuita Gustav Gundlach alla Gregoriana con il quale, come studente di teologia e presidente del circolo sociale del Germanicum, avevo buoni rapporti. Gundlach, consigliere di Pio XII per le questioni sociali, era senza dubbio informato sull’azione intrapresa contro i preti operai. È il 1953. Con enfasi gli dichiaro che condivido il rifiuto del comunismo stalinista suo e del papa, ma non riesco a capire l’operazione punitiva contro i preti operai. Il grande scienziato sociale, peraltro un antinazista convinto, già nel 1934 divenuto sgradito in Germania, ribatte indispettito tutte le mie argomentazioni. Il dialogo procede a fatica. «Si sarebbe potuto aspettare» sostengo. «Al contrario» è la sua risposta «abbiamo aspettato anche troppo, dovevamo intervenire molto prima!» Alla fine gioco la mia ultima carta: «Anche in Vaticano non tutti la pensano come Lei, padre Gundlach». Al che lui, punto sul vivo, esclama: «E chi non la pensa come me?». «Monsignore Giovanni Battista Montini della Segretaria di Stato, per esempio!» Come morso da una tarantola il corpulento professore si agita bruscamente sulla sedia davanti alla sua scrivania, poi mi volta la schiena di scatto e mi urla, al di sopra delle spalle, con voce di testa, come fa quando è sovreccitato: «Se potessi eliminarne uno in Vaticano, questo sarebbe proprio Montini!».

«Se potessi eliminarne uno»

In effetti, lo elimineranno già l’anno successivo, il 1954, i cardinali Ottaviani, Pizzardo, Micara, Cicognani e i loro accoliti, d’intesa con i gesuiti tedeschi che circondano Pio XII. Montini, che per origine e letture prova simpatia per il cattolicesimo sociale francese, propende per la sinistra della Democrazia cristiana, mantiene alcune riserve nei confronti dell’anticomunismo dogmatico e grazie al suo contatto quotidiano con il papa gode di non poca influenza, turba le loro trame. Per esempio, su sollecitazione di Roncalli, nunzio a Parigi, fa pubblicare dall’«Osservatore Romano» un articolo elogiativo sul card. Suhard e la Mission de Paris. Così, alla fine, viene «promosso» arcivescovo di Milano, con un sacco di complimenti, ma in tutti gli anni di Pio XII non viene fatto cardinale: promoveatur ut amoveatur! Una cosa è certa: in nessun caso dovrà diventare papa! Da arcivescovo di Milano avrò in seguito occasione di conoscerlo personalmente. Solo Giovanni XXIII, nel 1958, lo eleverà alla porpora cardinalizia.
Per me però la repressione romana dei preti operai, il cui apostolato costituiva una parte importante del grande apostolato volto alla riconquista delle masse cristiane, rappresenta un’ulteriore e profonda demistificazione del papa. Naturalmente, come mi aveva detto già all’inizio dello scontro il nostro assistente spirituale del Germanicum, padre Klein, sarebbe stato meglio far diventare – a determinate condizioni – gli operai di fabbrica preti che non, viceversa, i preti operai di fabbrica; il sacerdozio non è un «ceto». Ma Pio XII non ci pensava nemmeno.
Qualche anno più tardi, tra le molte lettere di ringraziamento per l’invio della mia dissertazione (pubblicata nel 1957) una ha per me particolare importanza. Il «bel libro sulla giustificazione» mi si dice in italiano, si presenta «come una grande novità per il dibattito teologico sulla tesi fondamentale della teologia protestante: anche se una lettura del tedesco non mi riesce tanto agevole, sarà comunque per me cosa gradita poter prendere visione di questo lavoro molto significativo e interessante.» La lettera proviene da Engelberg, un paesino svizzero nei pressi di Sursee, la mia città natale. A scriverla è un ospite abituale di Alselm Fellmann, un padre benedettino mio compaesano che conosco fin dagli anni giovanili: si tratta di Giovanni Battista Montini, ora arcivescovo di Milano, che appena cinque anni più tardi sarà papa con il nome di Paolo VI. Non molto tempo dopo lo conoscerò di persona e anche in quella occasione si congratulerà con me per il mio libro. La sua simpatia per me è evidente e dovremo riparlarne. Questa lettera salta fuori per caso dal mio archivio nel 2001, proprio nel giorno in cui vengono creati cardinali tre notissimi ex teologi di università tedesche: come mi sarebbe stato facile intraprendere, come questi colleghi, la strada che porta ai vertici della gerarchia ecclesiastica, e quanto sono lieto di essere invece rimasto fedele alla teologia e di aver proseguito in autonomia il mio cammino.

Il cardinale Montini prima del Concilio

A maggior ragione dunque, in relazione al Concilio prossimo venturo mi interessano le opinioni dell’arcivescovo di Milano, il card. Giovanni Battista Montini. Lo incontro nel 1959, durante una sua visita a Roma, alla Domus Mariae, sulla via Aurelia. Nei miei sette anni romani Montini l’ho visto assai raramente, poiché il sostituto del segretario di Stato, un lavoratore instancabile, sottoscriveva sì a nome del papa innumerevoli lettere e telegrammi, ma non si mostrava quasi mai in pubblico. Già una volta, avvistandolo durante un ingresso solenne del pontefice in San Pietro, mi aveva colpito come egli non scrutasse il pubblico, come i cardinali della curia, per fare un cenno gioviale a eventuali conoscenti, ma procedesse assorto, con le mani giunte in preghiera e la testa piegata in atteggiamento devoto.
Il sessantatreenne, che viene considerato papabile in caso di morte di Angelo Roncalli, entra nell’ampia stanza, a rapidi passi (come faceva volentieri Pio XII in San Pietro obbligando i prelati a correre dietro di lui), il corpo leggermente piegato di lato: è magro, slanciato, gentile, con grandi orecchie e occhi svegli che mi fissano con benevolenza. Per lui non sono uno sconosciuto. A differenza della maggior parte dei curiali, Giovanni Battista Montini è una sorta di intellettuale: come ho già detto, conosce molto bene l’importanza di Karl Barth e della mia dissertazione sulla dottrina della giustificazione. Lo incontrerò nuovamente nel quadro della settima conferenza per le questioni ecumeniche, sul tema della «unità nella diversità» e sui problemi del Concilio, che si svolgerà dal 19 al 23 settembre 1960 nella residenza estiva dei vescovi dell’Italia settentrionale, a Gazzada, non lontano da Milano.
Adesso, a Roma, il cardinale siede davanti a me con dignità tenendo una mano appoggiata sull’altra: non è un uomo incline a intrattenere cordialmente un ospite, ma ha una parlata assai distinta segnata da una voce un po’ più rauca di quanto ci si attenda. Gli espongo varie istanze controverse di riforma. Egli risponde con ponderatezza e circospezione. Vede i problemi e riconosce la necessità di riforme, ma con un linguaggio e una mimica misurati ha sempre un suo «però».
L’introduzione della lingua corrente nella liturgia latina? In linea di principio sì. Però solo nella liturgia della Parola; la Missa sacrificalis con il Canone, la parte sacrificale, è meglio invece lasciarla in latino.
E la necessità del decentramento e del trasferimento di competenze della curia ai vescovi? In linea di principio sì. Però oggi «i servizi della curia sono molto svelti», così si potrebbe chiedere un permesso o una dispensa a Roma anche con una semplice telefonata.
La riforma o l’abolizione dell’Indice? Bisogna sapere che Montini, figlio di un direttore di giornale che fu anche deputato, era stato cofondatore, nel 1925, della Editrice Morcelliana, che a causa della pubblicazione dell’Essenza del cattolicesimo di Karl Adam era finita sotto il tiro del Sant’Uffizio (tutte le traduzioni di Karl Adam erano state rimosse dalle librerie romane). Nel 1942, sotto Pio XII, era riuscito a ottenere, contro il parere di Ottaviani, una ristampa dello scritto dell’aristocratica trevisana Antonietta Giacomelli, che si batteva per un rinnovamento liturgico, messo all’Indice nel 1912. Conosce dunque la problematica dell’Indice fin dagli anni giovanili («Posso leggere Renan? Questa la domanda che ogni giorno si impone» così comincia un suo articolo scritto a 23 anni). Però, da cardinale, sostiene ora l’opinione che i divieti dei libri dovrebbero restare, dovrebbero essere eliminate solo le pene ecclesiastiche e semplificati i permessi di lettura.
Lo osservo: in fondo è imperscrutabile, tiene il suo segreto per sé. Montini è un autentico riformatore o lo è solo a metà? Cerco di leggere nel suo cuore: è pur sempre notevolmente più aperto della maggior parte dei cardinali italiani. Per i conservatori della curia, in virtù del suo atteggiamento politico-sociale, passa senz’altro per un pericoloso «progressista» e ho ancora nelle orecchie la sbottata di padre Gundlach («eliminarlo!»).
Tra noi si sta creando una corrispondenza interiore, ed è questo che considero importante. Quest’intima concordia troverà espressione durante la quaresima del 1962 nella lettera pastorale sul prossimo Concilio, nella quale l’arcivescovo scrive che il Concilio dovrà concentrarsi interamente sulla questione della Chiesa e dell’episcopato. Montini muove dal presupposto che «il secondo Concilio Vaticano avrà fra i suoi argomenti anche quello sull’Episcopato, per illustrarne le origini evangeliche, i doni sacramentali di grazia, i poteri di magistero, di ministero e di giurisdizione, sia nella persona del singolo Vescovo, sia nelle sue espressioni collegiali…». A tal fine deve essere rafforzato il «sacerdozio regale del semplice laico» e va presa sul serio anche la portata ecumenica del Concilio. Non entra molto nel concreto. Ma che potevo volere di più?

Anziché Giovanni un Paolo

È un conclave senza sorprese: venerdì 21 giugno 1963 – alla sesta votazione – viene eletto papa il sessantasettenne Giovanni Battista Montini. Era stato lo stesso Giovanni XXIII a dare segnali chiari. Egli aveva subito elevato al soglio cardinalizio il suo amico lombardo, caduto in disgrazia nel 1958 sotto Pio XII, e lo aveva fatto persino alloggiare come ospite d’onore in Vaticano, lui che proprio del Vaticano era profugo. La curia in ogni caso non ama Montini, l’imperscrutabile simpatizzante della sinistra. Avrebbe preferito votare il cardinale della curia Antoniutti, già nunzio in Spagna con la benedizione di Franco. Nel peggiore dei casi addirittura il card. Lercaro di Bologna, i cui sostenitori erano stati però convinti dal card. Suenens ad appoggiare Montini. Alla fine, alla sesta votazione, si è giunti a un compromesso tra la maggioranza orientata in senso conciliare radunata attorno a Bea e Suenens, e la minoranza curiale radunata attorno a Ottaviani e Cicognani, che sarebbe stata in grado di impedire di poco la necessaria maggioranza dei due terzi. Montini ottiene cinquantasette voti, solo due in più di quanto richiesto. Non hanno dunque votato per lui da ventidue a venticinque cardinali: lo zoccolo duro di una futura opposizione conservatrice? L’elezione di Montini, auspicata dalla maggioranza conciliare e progressista, è salutata con grande favore. Quest’uomo – omnibus bene perpensis, ponderando bene ogni cosa – è il candidato che mi auguravo anch’io. Ma ora che è sul soglio pontificio corrisponderà anche al mio candidato ideale, e soprattutto a quello che sperava il Concilio, o si allineerà alla curia?
Suscita sorpresa – perché è sempre la prima dichiarazione di intenti di un papa – la scelta del nome Paolo, senza spiegarne i motivi. Da Paolo V Borghese (1605-21), il cui nome «orna» a caratteri cubitali la facciata della basilica di San Pietro, nessun papa aveva più assunto questo nome. Avendo già Giovanni come nome proprio, Montini non poteva, secondo una tradizione recente, scegliere anche da pontefice il nome Giovanni. Ed evidentemente, avendo preso sempre più le distanze da Pacelli, non ha voluto scegliere il nome Pio. Dunque, «Paolo». Ma Paolo sicuramente non collegandosi a quel Paolo V che, contro la Repubblica di Venezia, e ancora una volta con bandi e interdetti, volle affermare il paradigma della Chiesa medievale con la pretesa papale della sovranità, e sotto il cui pontificato ebbe luogo il primo processo a Galileo. Bensì, come il card. König fa subito correttamente sapere, collegandosi all’apostolo Paolo e alla sua azione diffusa per tutto il mondo al servizio del Vangelo di Gesù Cristo. A ciò corrisponde anche il nuovo motto del papa: In nomine Domini, nel nome del Signore.
Io stesso, teologicamente molto influenzato da Paolo, già da studente mi ero augurato un papa con quel nome. Sennonché il mio professore di storia della Chiesa alla Gregoriana, il nobile Ludwig von Hertling S.I. (parente di Georg von Hertling, filosofo conservatore e poi cancelliere dal 1917 al 1918) aveva come sua specialità una numerologia (con relative domande d’esame) sui nomi dei papi. E uno dei risultati della sua «ricerca» era questo: omnes papae cum numero sexto erant papae infelices, tutti i papi con il numero 6 sono stati papi infelici. In quel momento mi balenò subito un pensiero: un nuovo papa dal nome Paolo sarebbe stato già dalla numerazione un papa infelix, un papa infelice.
Ma la mattina di quel 21 giugno 1963, da uomo che pensa usando la testa, mi dico: Perché mai dovrebbe valere questa regola che non ha nessun fondamento razionale? Perché una buona volta non dovrebbe esserci un papa felice al sesto numero della lista? Padre von Hertling aveva comunque scritto, su desiderio del Vaticano, un articolo per l’edizione speciale dell’«Osservatore Romano» sull’elezione del futuro pontefice, dove aveva esposto la sua tesi. Al momento dell’elezione, queste pagine erano già stampate. E così, le copie vendute in piazza San Pietro dopo la scelta del nome contenevano anche l’articolo, finché ci si è accorti della situazione imbarazzante e si è ristampato il tutto senza il pezzo di Hertling. Con sua grande soddisfazione, Hertling ha rimediato un numero con il suo articolo, ma non è mai riuscito a sapere se Paolo VI avesse avuto modo di leggerlo. In ogni caso, il nome non l’avrebbe cambiato.
Quanto questo papa sarebbe stato effettivamente infelice, all’epoca nessuno poteva immaginarlo. Comunque, con riferimento all’origine, alla carriera e alla mentalità si potevano già nutrire alcuni dubbi sull’impronta che avrebbe dato al suo pontificato. Pur con tutta la simpatia personale per Giovanni Battista Montini, non posso totalmente reprimere le mie perplessità. Ma per padre Gundlach, che l’avrebbe molto volentieri «eliminato», la sua elezione dev’essere stata uno choc. Morirà infatti due giorni più tardi, il 23 giugno 1963, e ancora oggi, in circoli bene informati, si cerca di indovinare se sia stata una morte post hoc o propter hoc… Montini comunque viene «incoronato» papa (di fatto, sarà l’ultimo!) con una tiara, ossia la triplice corona simbolo della sovranità sul mondo, modernizzata e ristrutturata secondo le sue indicazioni, che gli viene porta dal card. Ottaviani, capo del Sant’Uffizio. Come va interpretato per il nuovo pontificato questo gesto ambiguo?

«Il nostro Amleto di Milano»

Avevo sempre visto con favore il fatto che Montini provenisse da una famiglia democratica (e non monarchica) della buona borghesia di Brescia, senza la fissazione aristocratica di Pacelli, anche lui di buona estrazione borghese, che aveva fatto diventare principi e magnati della finanza i suoi tre nipoti (Giulio Pacelli, per esempio, era presidente del Consiglio di amministrazione del Banco di Roma). Il padre di Montini, avvocato, era stato redattore del giornale cattolico e parlamentare del Partito popolare fino al suo scioglimento ordinato da Mussolini; sua madre presidentessa dell’associazione cattolica delle donne bresciane; uno dei suoi due fratelli, ancora negli anni Sessanta, era parlamentare della Democrazia cristiana. La famiglia Montini era ovviamente fedele alla Chiesa e al papato, ma non aveva preso parte alla campagna antimodernista, tenendosi anzi in contatto con autori italiani sospettati di modernismo.
Alcuni miei amici di Brescia mi racconteranno in seguito che il giovane Giovanni Montini, di salute cagionevole, aveva dovuto lasciare il collegio dei gesuiti e terminare privatamente il liceo portando avanti da esterno anche lo studio della teologia in seminario; un «ragazzino di buona famiglia» che arrivava solo per seguire le lezioni, salutava gentilmente tutti e si congedava appena finita la lezione. Il nuovo papa era dunque di carattere un tipo molto serio, ma forse non troppo comunicativo?
Alla Gregoriana si è orgogliosi dell’ex allievo Montini che in verità ha cominciato la sua carriera-lampo non a Roma, ma a Milano, dove è ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. Pio XII Pacelli (1939-1958)
  5. Giovanni XXIII Roncalli (1958-1963)
  6. Paolo VI Montini (1963-1978)
  7. Giovanni Paolo I Luciani (1978)
  8. Giovanni Paolo II Wojtyła (1978–2005)
  9. Benedetto XVI Ratzinger (2005-2013)
  10. Francesco Bergoglio (dal 2013)
  11. Epilogo: quale papato ha un futuro?
  12. Ringraziamenti
  13. Indice