Resilienza
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Resilienza

La scienza di adattarsi ai cambiamenti

  1. 374 pagine
  2. Italian
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Resilienza

La scienza di adattarsi ai cambiamenti

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Per gli ingegneri è la capacità di un materia le di resistere agli urti senza spezzarsi; per gli psicologi è la risorsa che consente di superare traumi e dolori più rapidamente; in ecologia descrive la predisposizione di un sistema a ritrovare l'equilibrio dopo uno shock esterno. Oggi il concetto di "resilienza" affascina soprattutto gli economisti, ed è facile capire il perché. Gli sconvolgimenti che affrontiamo quotidianamente si verificano a un ritmo sempre più intenso e irregolare, sfuggendo così a ogni previsione. I casi più gravi - dai disastri naturali alla recente crisi finanziaria - diventano pietre di paragone, ma cresce anche il numero dei traumi non altrettanto famosi, amplificati dallo strisciante aumento delle vulnerabilità del sistema: una città è mandata in malora dalla dislocazione economica; un'azienda viene annientata dalla globalizzazione; una trasformazione ecologica rende impraticabile uno stile di vita secolare. La volatilità, in ogni settore, è oggi diventata la norma e pare destinata a rimanere tale. In tutto il mondo scienziati, politici, tecnologi, imprenditori e attivisti si stanno ponendo la medesima domanda: perché un sistema crolla mentre un altro riesce a riprendersi? "Se è vero che non siamo in grado di control lare le maree del cambiamento, possiamo però imparare a costruire imbarcazioni migliori; a progettare o ridisegnare organizza zioni, istituzioni e sistemi capaci di assorbire meglio gli sconvolgimenti, di operare sotto una più ampia varietà di condizioni e di passare con maggiore fluidità da una situazione all'altra". Si tratta di sviluppare caratteristi che come l'agilità, la cooperazione, la connettività e la diversità, che consentano di prevenire le crisi o, in condizioni di stress, di attuare rapidamente strategie adattative come, per esempio, l'atomizzazione (la capacità di suddividere un sistema in singole parti autonome) e il decoupling (per disconnettere i sistemi in modo da interrompere la diffusione di un problema). In questo saggio, che è subito diventato un punto di riferimento nel dibattito attuale sulla complessità del mondo contemporaneo, attraverso un'analisi all'avanguardia in grado di interpretare e anticipare le tendenze del futuro, gli autori ci spiegano come gestire un mondo in perpetuo squilibrio e come tra sformare la resilienza in una risorsa per tutti.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2017
ISBN
9788858688113

1

Robusto ma fragile

In questo studio vogliamo interrogarci sulla ragione per cui le cose si riprendono rimettendosi in piedi.
In determinate circostanze, è quello che accade a ogni tipo di realtà: dalle persone alle comunità, dalle aziende alle istituzioni, dalle economie agli ecosistemi. Il posto in cui viviamo, la compagnia per cui lavoriamo e, magari senza rendercene conto, anche noi stessi: ogni cosa è resiliente, oppure no, a suo modo. E ogni cosa, a suo modo, illumina un particolare angolo di un comune bacino di temi e princìpi condivisi. Comprendendo e abbracciando questi modelli di resilienza, possiamo creare un mondo più robusto e nello stesso tempo rafforzare le persone che ci vivono.
Per poter capire come le cose si rimettono insieme, però, occorre anzitutto comprendere il motivo per cui crollano. Partiamo pertanto da un esperimento mentale.
Caliamoci nei panni di un contadino che pianta alberi su un appezzamento di terra libero.1 Come tutti gli agricoltori, per sfruttare al meglio il terreno dovremo affrontare una serie di difficoltà prevedibili: maltempo, siccità, variazioni nei prezzi dei prodotti e, forse soprattutto, incendi forestali.
Per fortuna, adottando alcune misure si protegge la coltivazione dai potenziali pericoli. Per ridurre il rischio di incendi, per esempio, si possono piantare gli alberelli a intervalli ampi ma regolari, diciamo di una decina di metri: così, quando cresceranno, le loro fronde non si toccheranno e per le scintille sarà difficile saltare da un albero all’altro. Tuttavia, se da un lato questa strategia è piuttosto sicura, dall’altro è anche assai inefficiente: la coltivazione, infatti, avrà meno probabilità di finire incenerita da un incendio, ma certo non metteremo a frutto il terreno nel modo più redditizio.
Ora, con l’intento di ampliare la produttività, immaginiamo di piantare a caso degli alberelli in mezzo a questa griglia regolare di alberi. Per definizione, le aggiunte saranno molto più vicine alle piante circostanti, e le loro fronde cresceranno fino a toccarsi. In tal modo, la produttività aumenterà, ma cresceranno anche le incognite: se uno dei nuovi alberi piantati a caso (o uno di quelli adiacenti) dovesse prendere fuoco, le fiamme avrebbero molte più probabilità di diffondersi, attraverso i rami e le foglie, a tutto il gruppo di piante vicine.
Continuando a piantare a caso nuovi alberi all’interno della griglia, si arriverà al punto in cui tutte le fronde si toccano formando un unico, fitto megagruppo. (Un risultato che in genere viene raggiunto riempiendo circa il 60 per cento degli spazi disponibili.) Rispetto alla strategia iniziale, il nuovo schema è incredibilmente efficiente – considerando la messa a frutto del terreno –, ma anche molto rischioso: una sola, piccola scintilla potrebbe avere conseguenze disastrose per l’intera piantagione.
Certo, non essendo degli sprovveduti, è improbabile che adottiamo una di queste due soluzioni estreme, la griglia distanziata o il fitto megagruppo. Al contrario, opteremo per piccoli boschetti densi intervallati da strade, che non solo permettono di accedere alle zone interne della proprietà ma svolgono anche la funzione di barriere tagliafuoco, separando i gruppi di alberi l’uno dall’altro e garantendo che un eventuale incendio non finisca per propagarsi ovunque.
Anche queste strade, però, hanno un costo. Ognuna di esse, infatti, viene a ridurre l’area utilizzabile per la coltivazione: bisognerà quindi evitare di crearne troppe o troppo poche. Alla fine, comunque, dopo innumerevoli prove ed errori – e tenendo conto delle variazioni locali sul piano della geografia, della morfologia del suolo e delle condizioni meteorologiche – potremmo individuare una configurazione quasi perfetta per quel particolare terreno, un progetto che massimizzi la densità degli alberi e faccia al contempo un saggio ed efficiente uso delle strade per raggiungerli. Grazie a questo eccezionale progetto, la coltivazione potrà sopravvivere senza problemi agli occasionali incendi, riuscendo sempre a non bruciare completamente; allo stesso tempo, il legno delle piante garantirà guadagni che, pur variando a seconda delle stagioni, arriveranno con una certa costanza.
Un giorno, però, la medesima coltivazione così perfetta viene infestata da una specie esotica di coleotteri. Questi piccoli insetti, provenienti da una regione geografica remota, sono giunti con una spedizione di un fornitore d’oltreoceano; quindi, attaccandosi ai nostri stivali, si sono fatti portare fin nel cuore della piantagione arborea e, una volta lì, hanno sfruttato l’elemento chiave del progetto, ovvero le strade disposte con cura per scongiurare il rischio degli incendi.
A questo punto dell’esperimento mentale risulta evidente quanto, in termini sistemici, il progetto di coltivazione sia robusto-ma-fragile (o RYF, robust-yet-fragile), un’espressione coniata da uno scienziato del California Institute of Technology, John Doyle, per descrivere quei sistemi complessi resilienti in relazione ai pericoli previsti (in questo caso, gli incendi), ma estremamente vulnerabili alle minacce inaspettate (in questo caso, i coleotteri esotici).2
Ogni giorno, i notiziari riportano una miriade di varianti reali di questo schema. Molti dei sistemi fondamentali del mondo – dalle barriere coralline alle aziende e ai mercati finanziari – seguono dinamiche di questo tipo, robuste-ma-fragili: sono in grado di affrontare con perizia una gamma di normali sconvolgimenti, ma falliscono in modo spettacolare di fronte a quelli rari e imprevisti.
Come nel nostro esempio dell’arboricoltura, tutti i sistemi RYF sono contraddistinti da un compromesso critico tra efficienza e fragilità da una parte e inefficienza e robustezza dall’altra. Un sistema dall’efficienza perfetta, come la coltivazione con un unico megagruppo di piante, è anche il più suscettibile alle calamità; viceversa, un sistema assolutamente robusto, come la piantagione con gli alberi a grande distanza gli uni dagli altri, è troppo inefficiente per essere utile. Attraverso innumerevoli aggiustamenti (a prescindere dal fatto che il progettista sia un uomo oppure l’incessante processo della selezione naturale), i sistemi RYF trovano infine una via di mezzo fra i due estremi, un equilibrio tra efficienza e robustezza tagliato sulla particolare situazione data (come nella piantagione con i boschetti intervallati dalle strade).
La complessità del sistema compensativo che ne risulta – nel nostro esempio, la rete di strade e boschetti – è un sottoprodotto di questa ricerca di un bilanciamento. Paradossalmente, però, col passare del tempo la crescita della complessità di tale sistema diventa essa stessa fonte di fragilità, fino a un punto di svolta dove anche un minimo turbamento, se avviene nel posto giusto, può portare l’intera struttura al collasso. Pertanto, nessun progetto RYF potrà mai essere perfetto, proprio perché qualunque strategia perseguita per accrescere la robustezza crea una speculare (per quanto rara) fragilità: in un sistema del genere, la possibilità che ci siano dei «cigni neri» (ossia eventi poco probabili ma di forte impatto) è qualcosa di strutturale.
Internet è un campione ideale di questa dinamica robusta-ma-fragile. Fin dalla sua nascita come progetto finanziato dall’esercito americano negli anni Sessanta, Internet è stata concepita per risolvere soprattutto un problema specifico: garantire la continuità delle comunicazioni in caso di calamità. All’epoca, i capi militari temevano che un attacco nucleare preventivo lanciato dai sovietici contro i fulcri delle reti di telecomunicazione statunitensi avrebbe potuto interrompere la catena di comando, impedendo ai loro ordini di contrattacco di arrivare dai bunker ai silos dei missili in North Dakota. Pertanto, chiesero agli ideatori di Internet di mettere a punto un sistema in grado di percepire la situazione del traffico e reindirizzarlo automaticamente, così da aggirare gli inevitabili malfunzionamenti dovuti a un attacco a sorpresa.
Internet raggiunge questo obiettivo in un modo semplice quanto ingegnoso: scompone ogni e-mail, pagina web e video trasmessi in una serie di pacchetti di dati e li inoltra attraverso un labirinto di router (instradatori), un tipo speciale di computer in genere connessi in modo ridondante a diversi nodi della rete. Ogni router contiene una tabella di instradamento, aggiornata con regolarità, paragonabile a una sorta di orario ferroviario. Quando un pacchetto di dati arriva a un router, quest’ultimo consulta la tabella e lo inoltra nella direzione generica della sua destinazione; se il percorso migliore risulta bloccato, congestionato o danneggiato, la tabella di routing viene aggiornata e il pacchetto indirizzato su una strada alternativa, dove incontrerà il router successivo ripetendo il medesimo processo. Nel viaggio – in apparenza istantaneo – fra il vostro computer e il sito che volete visitare, un pacchetto di dati con una ricerca tipica può transitare per decine di router e collegamenti, aggirando molteplici punti di congestione e computer offline.
Grazie alla natura altamente distribuita del sistema di routing, se un hacker animato da cattive intenzioni dovesse attaccare o addirittura distruggere fisicamente un singolo computer scelto a caso su Internet, la rete forse non ne risentirebbe: le tabelle di instradamento dei router vicini, infatti, verrebbero aggiornate e reindirizzerebbero il traffico di dati facendolo passare attorno alla macchina danneggiata. Internet quindi è progettata per essere robusta di fronte alla minaccia di un guasto alle apparecchiature, un pericolo che è stato previsto.
Tuttavia, oggi Internet è diventata molto vulnerabile a una forma di attacco cui i suoi inventori non avevano pensato: un malintenzionato, cioè, potrebbe sfruttare l’architettura aperta della rete non per far passare le informazioni attorno ai nodi danneggiati, ma per congestionarla con un’enorme quantità di inutili dati extra.3 È quello che fanno gli spammer, i worm e i virus informatici, le botnet e gli attacchi DDoS (distributed denial of service, negazione del servizio distribuito): inondano la rete con una marea di pacchetti di informazione vuoti, spesso inviati contemporaneamente da numerose fonti. Questi diluvi di dati superflui sfruttano i caratteri di per sé positivi di Internet per sovraccaricare il sistema e possono bloccare un particolare computer, un nodo centrale o persino l’intera rete.
Un perfetto esempio dell’uso di queste strategie si è verificato verso la fine del 2010, quando l’organizzazione WikiLeaks ha iniziato a divulgare la propria raccolta di cablogrammi segreti del Dipartimento di Stato americano. Per proteggere l’organizzazione dalla scontata rappresaglia del governo statunitense, WikiLeaks e i suoi sostenitori avevano copiato un’enorme quantità di documenti in un archivio criptato (una sorta di «assicurazione», che conteneva informazioni forse ancora più pericolose per il governo USA), rendendo quindi disponibile questo file su migliaia di server sparsi per tutta la rete;4 in questo modo, per gli Stati Uniti sarebbe stato impossibile fermarli, anche se avessero avuto le capacità tecniche e l’autorità legale per farlo (e non le avevano). Nel frattempo, un gruppo di simpatizzanti (ma non affiliati) di WikiLeaks, i cosiddetti Anonymous, hanno iniziato a lanciare una serie di attacchi DDoS contro i siti web delle aziende che avevano tagliato i rapporti con l’organizzazione, riuscendo a mandare offline per breve tempo, con le loro cyberproteste coordinate, quelli di compagnie del calibro di PayPal e MasterCard.5
WikiLeaks e Anonymous hanno sfruttato quegli aspetti di Internet – la ridondanza e l’apertura – che un tempo proteggevano la rete dal pericolo (oggi arcaico) alla base della sua stessa invenzione: la minaccia di un lancio missilistico sovietico. Quarant’anni dopo, questi attacchi non convenzionali (così, perlomeno, vengono visti dal governo americano) si servono delle caratteristiche della rete introdotte per prevenire un pericolo più convenzionale. E, nella loro iniziativa, le due organizzazioni si sono dimostrate molto resilienti: per chiudere WikiLeaks e fermare gli assalti di Anonymous, il governo avrebbe dovuto spegnere l’intera Internet, un’impresa impossibile.
Doyle ha riscontrato una dinamica simile anche nel sistema immunitario umano: «Consideriamo le patologie che colpiscono gli uomini contemporanei: obesità, diabete, cancro e malattie autoimmuni. Questi morbi sono una conseguenza negativa dei processi di controllo fondamentali del corpo umano: si tratta di cose – come l’accumulazione del grasso, la modulazione della nostra resistenza all’insulina, la rigenerazione dei tessuti e l’infiammazione – talmente essenziali che, in genere, non ci pensiamo neppure. Tali processi di controllo si sono evoluti in base alle necessità dei nostri antenati cacciatori-raccoglitori, cui occorreva immagazzinare energia per i lunghi periodi in cui rimanevano senza cibo e dovevano mantenere alti i livelli di glucosio nel cervello alimentando al contempo i muscoli. Ma se allora questi processi biologici conferivano grande robustezza ai nostri progenitori, oggi, con le nostre diete di cibi spazzatura ipercalorici, finiscono per promuovere le malattie e l’indebolimento dell’organismo».
Per affrontare le nuove minacce alla rete, gli ingegneri di Internet aggiungono ai loro router sofisticati filtri software che analizzano i pacchetti in entrata e in uscita alla ricerca di elementi con eventuali intenzioni malevole. Aziende e privati installano firewall e antivirus a ogni livello dell’organizzazione, dalle spine dorsali centralizzate fino ai notebook dei singoli utenti. I provider, poi, utilizzano una grande quantità di risorse per assicurarsi che la rete continui a funzionare nonostante tali attacchi.
Lo sforzo collettivo mirato a riempire il sistema di intelligenza e ridondanza distribuite potrebbe, con diversi gradi di successo, tenere a bada alcune di queste minacce. Tali iniziative, però, non sono bastate per eliminare la potenziale fragilità del sistema: l’hanno semplicemente spostata, e in futuro potrà emergere dove oggi non siamo in grado di prevedere. La cosa peggiore, poi, è che, come in tutti i sistemi RYF, col tempo la complessità dei meccanismi compensativi – antivirus, firewall eccetera – monta, finché diventano essi stessi fonte di possibili fragilità (come ben sa ogni persona cui una e-mail importante sia stata bloccata per sbaglio dai filtri antispam).
Nel frattempo, paradossalmente, il fatto stesso che un sistema robusto-ma-fragile gestisca con successo i problemi comuni verrà spesso a mascherare una sua intrinseca fragilità di fondo, fino a quando raggiungeremo un punto di svolta catastrofico. Mentre corriamo verso un tale evento, tutto sembra andar bene, e il sistema si mostra in grado di assorbire come dovrebbe sconvolgimenti anche gravi e comunque previsti. Il fatto che il sistema continui a lavorare in questo modo basta a trasmetterci un senso di sicurezza. Internet, per esempio, resta in piedi nonostante gli inevitabili guasti alle apparecchiature; i nostri corpi metabolizzano un altro pasto al fast food senza avere uno shock insulinico; le aziende affrontano l’alternarsi di forti espansioni e contrazioni del mercato; l’economia globale fronteggia diversi tipi di crisi. A un certo punto, però, la soglia critica viene superata – spesso in conseguenza di uno stimolo di per sé anche piuttosto modesto – e si scatena l’inferno.
Quando accadono tali disastri, sconvolge molti la scoperta che questi sistemi così importanti non hanno alcun meccanismo di protezione che permetta, poniamo, di risolvere il problema della bancarotta di un grande istituto di credito o di sigillare una falla che sta riversando tonnellate di greggio nelle profondità oceaniche.
In seguito a queste catastrofi, spiegando il motivo per cui si sono verificate, finiamo per ricorrere a teorie semplicistiche e moraleggianti, con cattivi che paiono usciti dai cartoni animati. In realtà, però, questi disastri sono spesso il risultato del lieve accumulo di mille piccole decisioni distribuite – ognuna talmente limitata, nella sua portata, da sembrare innocua – che, pian piano, erodono le zone cuscinetto e la capacità adattiva di un sistema. Un revisore dei conti chiude un occhio su un’azienda che dovrebbe controllare; un politico fa pressioni su un’agenzia di regolamentazione perché riduca una multa comminata a un suo elettore; un manager cerca di aumentare la produttività spingendo la propria squadra a escogitare un paio di stratagemmi in più; il leader di una grande impresa rinvia i necessari investimenti in modo da presentare un bilancio trimestrale positivo.
Nessuno di questi attori è consapevole dell’impatto aggregato delle proprie scelte, ma nel frattempo i margini di errore si fanno via via impercettibilmente più stretti e il sistema in cui stanno lavorando diventa sempre più fragile. Ognuno di loro, con la propria comprensione imperfetta del tutto, sta agendo in modo razionale, rispondendo ai forti incentivi sociali che lo spingono ad aiutare un amico, un elettore o un azionista con mezzi che offrono un vantaggio individuale significativo a fronte di un rischio sistemico basso. Piano piano, però, le loro decisioni cambiano le norme culturali del sistema: l’assenza di conseguenze derivanti dalle scelte avventate fa sembrare accettabili i comportamenti e le decisioni a più alto rischio. Quella che un tempo era un’eccezione diventa la regola. Chi difende il vecchio modo di fare le cose viene visto come uno stupido, un paranoico o un guastafeste, come un individuo che ha perso il contatto con la nuova realtà o, peggio ancora, come un nemico della crescita da ridurre al silenzio. Nel suo complesso, intanto, il sistema si muove silenziosamente verso una possibile catastrofe, esibendo – nell’avvicinarsi passo passo a una soglia critica – quella che gli scienziati chiamano una «criticità auto-organizzata».
Questa dinamica, oltre ai nostri primi suggerimenti su come migliorare la resilienza di tali realtà, può essere vista all’opera in due sistemi robusti-ma-fragili molto differenti che oggi, grazie a nuovi strumenti analitici, iniziano a spiegarsi chiaramente a vicenda: l’ecologia delle barriere coralline e la finanza globale.
L’industria della pesca e la finanza
Negli anni Cinquanta, le barriere coralline della Giamaica erano una splendida scogliera caraibica da cartolina, popolate da ampie varietà di spugne dai colori brillanti e ottocoral...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Resilienza
  4. Introduzione. L’imperativo della resilienza
  5. 1. Robusto ma fragile
  6. 2. Percezione, scala, sciame
  7. 3. La forza del raggruppamento
  8. 4. La mente resiliente
  9. 5. Cooperare quando conta
  10. 6. Diversità cognitiva
  11. 7. Comunità che si riprendono
  12. 8. Il leader traslazionale
  13. 9. Creare la resilienza
  14. Ringraziamenti
  15. Organizzazioni che ammiriamo
  16. Note
  17. Indice