Hybris
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L'arroganza del potere e la guerra del novecento

  1. 400 pagine
  2. Italian
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L'arroganza del potere e la guerra del novecento

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Per gli antichi greci la hybris era il peccato peggiore che un capo potesse commettere. Era l'atteggiamento di somma tracotanza con cui i mortali, nella loro follia, si opponevaxno agli dèi. Chi peccava cadeva in disgrazia, precipitava da grandi altezze a profondità inimmaginabili.Dopo aver scritto numerosi libri sulla guerra nelle sue varie forme, Alistair Horne riflette su quali sono i tratti comuni che contraddistinguono i conflitti armati nel corso della storia. Tra quelli che emergono con maggiore evidenza c'è proprio la hybris, nel Novecento in particolare. Perché i generali vittoriosi non sanno quando è il momento di fermarsi? Nel corso del 1941, la hybris avrebbe indotto Hitler a commettere, uno dopo l'altro, i tre enormi errori della sua carriera, errori di proporzioni storiche e fatali: l'operazione Barbarossa, la decisione di invadere la sterminata terra di Russia; la tardiva decisione di attaccare Mosca, costi quel che costi – come aveva fatto Napoleone un secolo e mezzo prima; la dichiarazione di guerra agli Stati Uniti l'11 dicembre, soltanto una settimana dopo che la sua offensiva su Mosca si era alla fine bloccata. È quella la data in cui Hi-tler perde definitivamente la fiducia nei suoi generali per confidare solo nella propria stella – con rovinose conseguenze ben note alla storia. Se la hybris è parte della condizione umana, profondamente radicata, persistente, pervasiva e potenzialmente letale, cosa possiamo fare oggi per evitarne le conseguenze? "Con il mondo di fronte a pericoli sempre più minacciosi provenienti da leader ambiziosi, da bande di signori della guerra e terroristi, dobbiamo tenere conto, come fecero gli antichi greci, delle terribili sciagure che si abbattono su coloro che liberano dal vaso di Pandora il bacillo dormiente dell'arroganza."

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2017
ISBN
9788858689011
Argomento
History
Categoria
World History

PRIMA PARTE

Tsushima, 1905

1

Il nuovo secolo

Come per ogni nuovo secolo che si rispetti, anche i primi anni del XX si annunciavano pieni di promesse: il proseguimento di un’epoca vittoriana di pace, prosperità e progresso. Di certo non c’era alcun indizio che potesse indurre anche la più pessimista delle Cassandre a prevedere i futuri orrori che ne avrebbero fatto il secolo più atroce nella storia dell’umanità. Anni prima, in un’altra tranquilla estate, quella del 1870, il ministro degli Esteri britannico lord Granville, alzando lo sguardo mentre percorreva la Whitehall (strada di Londra dove hanno sede alcuni importanti dicasteri) non aveva scorto «nemmeno una nube in cielo». Eppure, un mese dopo l’Europa sarebbe stata dilaniata da un conflitto, la guerra franco-prussiana, che avrebbe segnato la fine di un secolo di Pax britannica e di tutti i suoi ottimistici presupposti. Ma questo era soltanto uno di quei tiri mancini giocati dalla storia per confondere gli storici – e gli architetti della grande politica.
Il secolo si era aperto anche con una nota di malinconia e incertezza, oltre che di ottimismo. La Gran Bretagna, mentre l’età vittoriana si avvicinava al termine, subì pesanti umiliazioni a Ladysmith e Spion durante la Seconda guerra boera, esplosa nell’ottobre precedente. In Estremo Oriente, tra gli europei si diffusero la paura e la confusione con lo scoppio della rivolta dei Boxer, mentre nel Pacifico centrale il nuovo imperialismo americano mise le cose in chiaro con l’annessione delle Hawaii.
In Inghilterra, il 22 gennaio 1901 morì la regina Vittoria, che aveva impresso il suo nome su gran parte del secolo trascorso. Un dubbio attraversò la mente di ogni suddito di Sua Maestà: senza di lei, le cose avrebbero continuato a seguire lo stesso corso tranquillo? In modo rassicurante, una vasta area del globo abitabile era tinta di un rosa amichevole; quanto a dimensioni, l’unica area che potesse competere, generalmente di un freddo colore verde, era il colosso russo, che si estendeva in maniera incontrollabile dalle frontiere orientali della Germania a Vladivostok. Tuttavia, a parte le pressoché invisibili scaramucce del «Grande gioco» che si verificavano in modo regolare nelle aride zone di confine dell’Asia centrale, dove rosa e verde si incontravano, l’arretrata Russia non costituiva una reale minaccia per l’Inghilterra. Era di conforto il fatto che, mentre la vita dell’anziana regina si andava spegnendo, anche la sgradevole guerra boera stava per finire. Ciò nonostante, la Gran Bretagna, il cui esercito regolare aveva patito una serie di scioccanti sconfitte da parte di un gruppo di coloni armati, ne uscì senza onore, dal punto di vista morale e militare. Questi mortificanti rovesci erano stati inflitti con la stessa facilità che più di un secolo prima aveva contraddistinto lo scontro di Concord, Massachusetts, nel 1775, all’inizio della guerra d’Indipendenza americana. Nazioni invidiose incluse da Kipling tra le «razze inferiori», come la Germania del Kaiser Guglielmo II, non poterono far altro che drizzare le antenne. E altrettanto fece, all’altro capo del mondo, ai margini della Cina e del Pacifico, un Paese emergente come il Giappone.
Nel giugno del 1900 le potenze europee, comodamente insediate nelle enclavi ottenute in concessione e ritagliate nel corpo disfatto della Cina, vennero scosse dallo scoppio della rivolta dei Boxer. L’improvvisa sollevazione del proletariato cinese oppresso, guidata dalla cosiddetta Società dei pugni giusti e armoniosi, indignata per gli iniqui trattati imposti dai «diavoli stranieri», portò al massacro di centinaia di europei a Pechino, tra cui l’ambasciatore tedesco. Già messa a dura prova in Africa, la Gran Bretagna si vide costretta a ricorrere all’aiuto di un nuovo alleato, il Giappone imperiale. Quest’ultimo rappresentava un’incognita, uscito solo di recente da secoli di letargo trascorsi dietro un autoimposto paravento. La rivolta dei Boxer venne domata nel giro di qualche mese, e i suoi capi giustiziati a Pechino. La firma del protocollo di Pechino (o dei Boxer) permise alle «potenze» di tornare alle loro vecchie, cattive e avide abitudini. Ma adesso c’era un nuovo attore sulla scena mondiale: il Giappone. Il vaso di Pandora era stato scoperchiato, come avevano capito coloro dotati di predizione.
Nel secolo che seguì l’epica lotta contro Napoleone, con cui si era aperto l’Ottocento, non mancarono certo, sebbene ignorate all’epoca, le indicazioni nel campo della tecnologia bellica. La guerra di Secessione americana, così come altri conflitti minori, aveva mostrato che cosa poteva fare l’arte militare moderna su un campo di battaglia terrestre. Tuttavia, dai tempi di Trafalgar, nel 1805, non c’era stata nessuna importante battaglia navale che suggerisse come anche la guerra sui mari avrebbe potuto progredire. Dall’invenzione del cannone e dalla sua collocazione a bordo delle navi, risalente a prima dell’Invincibile armata spagnola del 1588, i principi basilari erano rimasti più o meno gli stessi. I grandi vascelli di legno, armati con poderosi cannoni e sospinti da enormi vele, si sparavano contro quasi ad alzo zero, da una distanza massima inferiore ai 300 metri, finché l’uno o l’altro non veniva ridotto a una carcassa disalberata, o non saltava in aria. Era tutta una questione di peso delle palle della bordata. Anche le tattiche non erano cambiate molto; ogni guardiamarina sognava un giorno di «tagliare il T» di una linea di fila, o formazione in colonna, nemica come aveva fatto Nelson a Trafalgar, manovrando in modo da incrociare di fronte alla flotta franco-spagnola e consentendo così ai propri vascelli di sparare bordate mentre il nemico poteva impiegare soltanto i pezzi di prora.
Tuttavia c’era stato uno scontro, per quanto trascurabile e inconcludente, che aveva rivelato come fosse in corso un cambiamento fondamentale nella guerra navale. Anche questo ebbe luogo nell’emisfero occidentale, all’inizio della guerra di Secessione americana. Il 9 marzo 1862, a Hampton Roads, in Virginia, si affrontarono due strane imbarcazioni basse sul pelo dell’acqua; una si chiamava Virginia, l’altra Monitor. Si trattava delle prime corazzate nella storia della guerra navale. Si scambiarono colpi per circa tre ore, senza riuscire a infliggere danni significativi, dopodiché si ritirarono. Fu l’ultimo combattimento delle due corazzate americane, ma ormai la strada era tracciata. Le «fiancate di quercia» avevano i giorni contati. Quasi dalla sera alla mattina, scomparvero i maestosi vascelli come la Victory di Nelson, o le fregate agili come levrieri che avevano impegnato a fondo la Royal Navy durante la guerra del 1812. Le marine militari di tutto il mondo si affrettarono a rinnovare le loro flotte, con costi altissimi. Le due maggiori potenze navali, Francia e Gran Bretagna, avevano già sospeso la costruzione di imbarcazioni con scafo in legno, subito imitate da altri Paesi. Nel 1859, i francesi vararono una nuova super-nave in ferro, battezzata La Gloire, la prima corazzata a solcare gli oceani, un bestione con propulsione a vapore di 5630 tonnellate, con un equipaggio di 570 uomini. L’anno seguente, gli inglesi risposero con una mastodontica nave grande il doppio, la Warrior.*
Era cominciata la prima corsa agli armamenti nella storia del mondo. Per fortuna, all’orizzonte non si profilava nessun conflitto che richiedesse una particolare urgenza, e né la Warrior né la sua rivale francese entrarono mai in azione. Da quel momento in poi, le marine militari avrebbero protetto le parti vitali delle loro unità con grandi lastre di ferro, in seguito di acciaio o leghe, di spessore sempre maggiore. Ancor più impegnativo fu lo sviluppo dei cannoni a retrocarica, ad anima rigata e a lunga gittata, dai calibri mostruosi, capaci di colpire e distruggere una nave nemica sparando enormi proiettili con esplosivo ad alto potenziale da 7000, persino 10.000 metri di distanza. Queste bocche da fuoco adesso erano a loro volta protette da torri blindate rotanti. I micidiali arrembaggi e scontri corpo a corpo dei tempi di Nelson erano ormai un ricordo. Nell’ottobre del 1901, la Royal Navy varò il suo primo sommergibile, un’arma che si sarebbe rivelata molto svantaggiosa per la nazione che l’aveva ideata.
Se la nuova corsa navale agli armamenti spinse tutte le marine militari delle potenze mondiali a entrare in competizione, offrì anche ai nuovi arrivati un’opportunità fino ad allora preclusa alle «razze inferiori» di Kipling. Tra questi, c’erano la Germania del Kaiser Guglielmo II e il Giappone dell’imperatore Meiji.
Tuttavia, con gran stupore di buona parte del mondo, questo pacifico scenario venne sconquassato l’8 febbraio 1904, allorché il piccolo Giappone sferrò un attacco a sorpresa contro la base russa di Port Arthur (o Lüshunkou, come veniva chiamato dai precedenti, e forse legittimi, proprietari, i cinesi), sulla punta estrema di un promontorio mancese nel Mar Giallo. Tre settimane più tardi, giunse voce che le truppe zariste si stavano ritirando dalla Corea in Manciuria, inseguite da un esercito di 100.000 soldati nipponici.
All’inizio, non accadde nulla che potesse rompere le uova nel paniere al resto del mondo. Poi, all’improvviso, il 22 ottobre, la Gran Bretagna fu scossa dalla notizia che la Flotta del Baltico, al largo, aveva attaccato una flottiglia di pescherecci inglesi, affondandone uno e causando la morte di alcuni membri degli equipaggi. I russi si giustificarono sostenendo che avevano scambiato i pescherecci per alcune torpediniere giapponesi che stavano cercando di localizzare. Torpediniere giapponesi nel Mare del Nord? Vi furono sdegno e costernazione nei club di St James’s, prestigioso quartiere londinese. Si levarono voci a favore di un’immediata dichiarazione di guerra alla Russia, o almeno di una richiesta di ingenti riparazioni per il danno subito.
Ma che cos’era questa guerra, in fondo? E comunque, chi erano questi giapponesi? Che cosa pensavano di poter ottenere sfidando la potente Russia imperiale, tutto quel verde sulle cartine che andava dal Pacifico alla Vistola? Da dov’erano sbucati fuori? In Occidente non si sapeva altro di loro che l’abilità nelle arti decorative. Per esempio, La grande onda di Kanagawa, una celebre xilografia di Hokusai, influenzò gli impressionisti francesi, da Manet a Renoir, e l’Art Nouveau tedesca. C’erano anche i netsuke, ma la conoscenza di questi minuscoli tesori era circoscritta ai più raffinati collezionisti occidentali. Nel 1885 andò in scena per la prima volta Il Mikado di Gilbert e Sullivan, una parodia piuttosto feroce del Giappone prima della restaurazione. Benché fosse da intendere come una satira sull’Inghilterra contemporanea, parte della critica del Sol Levante ne giudicò l’ambientazione in un Giappone medievale come irrispettosa nei riguardi del venerato, e molto moderno, imperatore Meiji. Ciò nonostante, rimase in cartellone al Savoy Theatre di Londra per seicentosettantadue repliche, il che la pose al secondo posto tra le operette maggiormente rappresentate. Fu poi la volta della Madama Butterfly di Puccini, niente affatto tenera verso le rigide convenzioni sociali del Giappone, e altrettanto offensiva per la sua sensibilità moderna. (La prima alla Scala della Butterfly ebbe luogo pochi giorni dopo lo scoppio della guerra russo-giapponese e fu un fiasco clamoroso.)
Al volgere del secolo, i giudizi degli occidentali sul Giappone erano intrisi di ignoranza e aria di sufficienza, quando non sprezzanti. Lo zar liquidò i giapponesi come «piccoletti gialli da cui gli europei non hanno nulla da temere», o anche come «scimmie». Suo cugino, il Kaiser Guglielmo II, provocatore come suo solito, condivideva il suo punto di vista sul «pericolo giallo»: la missione divina della Russia era di «difendere l’Europa dalle invasioni della Grande Razza Gialla». Le opinioni espresse in privato nei circoli di St James’s probabilmente non erano diverse.
Tuttavia, si trattava di una piccola nazione, imbevuta di bellicismo e straordinaria disciplina, che era emersa solo di recente da un’oscurità autoimposta. Nascosto nell’isolamento delle sue isole-baluardo, il popolo nipponico aveva sviluppato da tempo immemorabile i propri miti e credenze, estranei e perlopiù incomprensibili al resto del mondo. Tanto per cominciare, se i sovrani dell’Europa medievale o rinascimentale potevano rivendicare di essere gli «unti del Signore», l’imperatore del Giappone era per sua natura divino.
Quindi, i provvedimenti emessi dai ministri in nome dell’imperatore dovevano essere considerati come provenienti direttamente da Dio. Questo spiegava in una certa misura il fanatico coraggio mostrato dai combattenti nipponici nel corso dei secoli. Secondo la leggenda, i primi imperatori discendevano dal fratello della dea del Sole, una figura litigiosa e violenta di nome Susanoo-no-Mikoto. Suo discendente in linea diretta era anche il primo imperatore, Jimmu Tenno, il quale, dopo svariati combattimenti e massacri, stabilì la sua corte nella provincia centrale di Yamato. La data in cui ascese al trono, fissata di norma nell’anno 660 a.C., viene celebrata ancora oggi, assegnando così all’attuale dinastia imperiale una linea di discendenza più lunga di quella di qualsiasi altra famiglia reale della storia.
Nel corso dei secoli, il Giappone mostrò la tendenza a guardare ai suoi vicini con un misto di paura e cupidigia. L’enorme, caotica massa della Cina, proprio al di là del Mar Cinese orientale, fu sempre la sua principale preoccupazione – reale o immaginaria. Nel XIII secolo, in due occasioni il Giappone rischiò di essere invaso dalle temibili orde mongole di Kubilay Khan, che agivano fuori dalla nazione vassalla della Cina. La seconda volta, nel 1281, i mongoli avevano ammassato un esercito stimato in 150.000 uomini. Riuscirono a stabilire una testa di ponte sull’isola di Kyūshū. Poi, all’improvviso, la flotta mongola fu colpita e in pratica distrutta da un tifone. Negli annali di storia giapponese quest’ultimo venne registrato come «vento divino», o kamikaze, un termine che avrebbe assunto un significato fatidico negli ultimi, disperati giorni della Seconda guerra mondiale, poiché così furono denominati i piloti suicidi che si scagliavano contro le navi della flotta americana. Dal punto di vista storico, tuttavia, il tifone rafforzò la leggenda dell’origine divina della nazione, qualcosa che l’avrebbe sempre protetta di fronte a una catastrofe.
Per fronteggiare minacce esterne come quella rappresentata dai mongoli, in modo analogo all’altro regno insulare, la Gran Bretagna, il Giappone potenziò la sua marina militare, una tradizione che sarebbe sopravvissuta nei secoli. Nel 1592 utilizzò le sue navi per invadere la Corea, forse come preludio a un attacco contro la stessa Cina. Seguì una spietata campagna militare durata sei anni e l’istituzione di un regime duro e crudele, che lasciò un’indelebile impronta d’odio nei coreani, i quali non avrebbero mai dimenticato il nome del daimyō, o signore della guerra feudale, Hideyoshi.
Con l’avvento del Rinascimento in Europa, l’Occidente entrò in contatto con il Giappone, dapprima con i mercanti portoghesi e i padri gesuiti. Poco dopo il suo arrivo in Giappone, nel XVI secolo, il missionario spagnolo Francesco Saverio scrisse senza riserve: «Le gente incontrata finora è la migliore che sia mai stata scoperta, e mi pare che tra i pagani non si troverà mai una razza che possa eguagliare i giapponesi. È gente molto beneducata, generalmente buona e non malevola; gente straordinariamente onesta, che stima l’onore più di ogni altra cosa […]».
Forse il padre gesuita fu fortunato nei suoi incontri. Comunque sia, la luna di miele durò una cinquantina d’anni, e a un certo punto sembrò che i gesuiti avessero buone prospettive di convertire l’intero Giappone al cristianesimo. Ma poi, verso la fine del XVI secolo, cominciò una reazione: 26 cristiani vennero martirizzati dal tiranno daimyō Hideyoshi – che agiva, inutile dirlo, in nome dell’imperatore. I mercanti inglesi e olandesi che avevano avviato rapporti commerciali con il Sol Levante diventarono altrettanto impopolari tra i nipponici. Negli anni Trenta del Seicento i governanti decisero che ne avevano abbastanza degli stranieri e della loro ingerenza negli affari interni. Di punto in bianco, venne troncata ogni relazione con il mondo esterno. Nel 1647 un editto draconiano stabilì che qualunque nipponico avesse lasciato la nazione era passibile di pena di morte, e la stessa sorte gli sarebbe toccata nel caso fosse tornato. Gli stranieri che avessero tentato di entrare nel Paese avrebbero corso un rischio analogo. L’isolazionismo si protrasse per due secoli, con conseguenze che si sarebbero avvertite fino alla metà del XX secolo. D’altro canto, come ha osservato lo storico Richard Storry, «i giapponesi vissero in pace […] con se stessi e con gli altri, per due secoli e mezzo – un primato che la maggior parte delle nazioni, riesaminando la propria storia in un simile arco di tempo, dovrebbe senz’altro invidiare».
Al tempo stesso, una dottrina nota come Bushidō iniziò a radicarsi tra i samurai. Diventata una sorta di religione, venne ben descritta come «una devozione spartana da parte di una classe di guerrieri verso l’arte della guerra, una disponibilità al sacrificio di sé». La sua influenza si sarebbe manifestata appieno durante l’invasione della Cina e in seguito nella Seconda guerra mondiale.
L’obiettivo dello shogunato Tokugawa al potere era quello di mantenere l’antico status quo. Ma poi, a metà del XIX secolo, vi fu un brusco risveglio. L’8 luglio 1853 quattro minacciose navi da guerra nere al comando del commodoro degli Stati Uniti Matthew Perry entrarono di forza nel porto di Uraga, presso Edo (l’odierna Tokyo). Della squadra facevano parte due navi a vapore, un’assoluta novità per il Giappone, chiuso nel suo isolamento. Il commodoro respinse ogni invito ad andarsene, affermando di essere latore di una lettera del presidente Millard Fillmore, il quale probabilmente aveva solo una vaga idea di dove si trovasse il Giappone. Minacciò anche di usare la forza se i nipponici avessero opposto resistenza. Nella missiva americana si richiedeva l’apertura di rapporti commerciali – la prima manifestazione di «imperialismo yankee» della storia. Perry annunciò che sarebbe tornato l’anno seguente per avere una risposta. Si ripresentò a febbraio, questa volta con sette navi da battaglia, ma nel frattempo lo shogunato era rimasto vittima di un’importante inversione di rotta. L’antiquato Giappone era ormai più che maturo per un cambiamento, e non più tardi del 1857 comunicava agli Stati Uniti che «le relazioni sarebbero proseguite indefinitamente». Due secoli di isolamento finirono dall’oggi al domani. Una nuova oligarchia dalla mentalità moderna spinse da parte i daimyō rivali e lo shogunato Tokugawa, ripristinando il potere centralizzato e affidandolo al nuovo imperatore, il quindicenne Mutsuhito, nel 1867. Quest’ultimo prese il nome di Meiji, cioè «governo illuminato». Gli storici del Giappone avrebbero soprannominato questa straordinaria rinascita la «Restaurazione Meiji».
Nel gennaio del 1869, la seguente dichiarazione venne rilasciata dalla nuova capitale, Tokyo:
L’imperatore del Giappone annuncia ai sovrani di tutti i Paesi esteri e ai loro sudditi [di aver concesso allo shogun Tokugawa Yoshinobu di rimettere il potere di governo, come da sua richiesta]. Da questo momento in poi eserciteremo la suprema autorità in tutti gli affari interni ed esterni del Paese. Di conseguenza, il titolo di imperatore ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Hybris
  4. Prologo
  5. Prima parte. Tsushima, 1905
  6. Seconda parte. Nomonhan, 1939
  7. Terza parte. Mosca, 1941
  8. Quarta parte. Midway, 1942
  9. Quinta parte. Corea e Dien Bien Phu, 1950-1954
  10. Epilogo
  11. Ringraziamenti
  12. Bibliografia
  13. Indice