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Perù
17 gennaio 1968 – 22 gennaio 1968
17 gennaio
Partenza da Roma per Perù e Bolivia.1
Arrivo a Lima – Gran Hotel Bolívar, tipico confort da città coloniale. Grande albergo «oasi» – tutti americani Usa. Per la strada (sono circa le 11 di sera) una fiumana di gente: prima impressione di folla peruviana, massa molto floja,* livello umano e condizione sociale tipo grossa città del Sud Italia, Bari, ma periferia, perché tutto sommato mi sembrano più vicini a Benevento che altro. Vengono tutti dalla piazza dove c’è stata una «fiesta» per la celebrazione della fondazione della città spagnola: in un angolo c’è il monumento equestre per Francisco Pizarro, fondatore della Ciudad de los Reyes. Ai piedi del monumento simili a «pidocchi» i ragazzini indios con cassettine minuscole da limpia botas,** attaccaticci per una propina*** ma dolci, pronti a scapparsene via se li tratti bruscamente. Nella grande piazza de Armas: da una parte la cattedrale (brutta, niente di particolare), dall’altra il Palazzo della municipalità, bianco, coloniale, bello, attraverso i balconi aperti lampadari enormi da favola per la massa di miserabili di fuori; da un altro lato il Palazzo governamentale con sentinelle indios, lunghi cappottoni e buoni mitra.
Nel centro della piazza, un palco e una coppia che balla un rudimentale flamenco: lui in bianco di lino, lei in moderno, lui agita un fazzoletto tra i suoi piedi e quelli di lei. La folla è miserabile. Le macchine sono enormi, bianche e lucide, Usa, macchinoni della Polizia con faro a cupoletta, rosso, soldati su camion. Immagine forse troppo retorica e ovvia del rapporto potere e sottoposti in America Latina.
L’albergo è bello, confortevole, caro, carissimo, ma senza aria condizionata: strano.
18 gennaio2
È caldo: qui è estate, dura fino a giugno-luglio. Il fresco gradevole di ieri sera evidentemente è dovuto a questa corrente di Humboldt che a leggerla nei libri uno non ci crede che riesca a dare fresco a una zona tropicale così grande. Nei negozi e negli uffici non c’è aria condizionata. Banche come monumenti. Negozi, alcuni belli: tutto è d’importazione e costa naturalmente carissimo. Quello che si è visto di peruviano sono pelli di llamas, vasi di terracotta, un po’ di stoffa, camicie, vestiti e scarpe (orrende) care lo stesso. Tutto il resto è d’importazione, al 90% Usa.
In libreria una signora (direttrice e proprietaria) mi indirizza a un giovane commesso dall’aria dello studente che subito aderisce al discorso del subdesarollo.*
L’autista del taxi: «… quello che ci vuole sono scuole, ma i ricchi non vogliono perché hanno interesse a tenere i poveri in stato di servitù: camerieri, autisti, maggiordomi». La conferma di questo discorso è quello che si vede nel quartiere residenziale di San Isidro. Molto bello: aveva ragione il consigliere di ambasciata italiana che dice che neanche negli Usa ci sono quartieri residenziali così. L’impressione è non solo di una gran ricchezza e tranquillità, ma soprattutto di una impenetrabilità a tutto ciò che non è allo stesso livello: francamente mai visto un mondo tanto chiuso. Country club, golf, prati soffici, nurses e carrozzine stupende per bambini ecc.; a poche centinaia di metri, tutto intorno alla città (e bisogna vederlo dall’alto), un cerchio di miseria e di fame che finirà per soffocare Lima come mi diceva non mi ricordo chi e dove.
L’Ermitaño, barrio di baracche ai piedi e lungo i fianchi di un cerro* alla cui sommità giganteggia una croce; un mare di baracche e di indios venuti da fuori città. Sui fianchi della montagna, in direzione della scuola di ingegneria, una scritta ricavata nel fianco di terra, inneggiante a Che Guevara e alla lotta armata. Molti venditori ambulanti indios, ma fanno colore facile. La gente nelle barriadas** è tutt’altro discorso. Bisognerebbe vederle di notte. Capire dove si ferma questa rassegnazione silenziosa e dolce e dove può cominciare con sentimenti di revanche. Diceva l’autista: «La carne oggi costa al chilo più della giornata di lavoro di un uomo: 40, 50 soles (poco più di mille lire), come protestiamo, gridando? E chi ci sente? A chi facciamo paura! Dall’altra parte ci sono i soldati…».
Io: «E non sono poveri anche loro?».
«Certo.»
«Guadagnano molto?»
«Niente.»
«E allora?»
«Stanno dall’altra parte» (forse perché hanno un letto, un’uniforme, un vitto, una investitura d’autorità, di ordine… chissà). «Il governo è una pantalla* per quelli che hanno i grossi interessi da difendere.» Diceva l’incaricato di affari dell’ambasciata: «Che si risolve sparando? Questi non sanno e non saprebbero neanche perché sparare. È stata scoperta nella foresta gente che sparava, in possesso di dollari: da dove vengono questi dollari? Russi? Castristi? Certo è che questi per continuare ad avere dollari sparano, ma non per altro e non è così che si risolve il problema. Bisognerebbe educarli! Ma come si fa? Vada a vedere fuori Lima, i paesini di neanche cinquecento anime, come ci si arriva con l’educazione, dove li porta? Fabbriche: poca roba locale, ceramica, con un po’ di tessuto fatto male, i manufatti vengono da fuori e costano carissimo».
Per la vicuña** c’è la proibizione di lavorarla perché ce n’è poca, si estingue la razza. Gli indios vengono in città attratti dalla vita di città, dal cinematografo, dai divertimenti, più che altro perché tanto lavoro non ce n’è.
Cenato in un ristorante al nono piano di un edificio moderno, «Club 91», scoperto dopo che è un ristorante italiano. Broccato rosso alle pareti, musica di violino e organo, candele ai tavoli, uomini d’affari americani Usa rimpinzati dai sudamericani che devono concludere.
C’è una signora sudamericana, un disegno di Bartoli, che si lavora una donna Usa che suda persino sotto le borse degli occhi e si asciuga con la salvietta. Dall’altra parte un tavolo di francesi e sudamericani: affari. Ristorante carissimo.
19 gennaio
Partenza alle 7.00 dall’hotel per Cuzco (due ore di aereo).
Viaggio aereo su deserto montagnoso. Arrivo a Cuzco, 3400 metri. Antica capitale. Hotel de turistas, piccola, coloniale, simpatica pensione per turismo. Signora italiana di Torino, sposata al nipote di Schliemann, quello di Troia; aveva sentito parlare di me a Hollywood: «Il film sulle città e sulle case». In giro subito con l’autista Alberto (misto arabo e indio) a vedere rovine inca: primi contatti per le vie della città e fuori, con una immagine di miseria ai limiti di quello che si può immaginare. Nel pomeriggio giro per la città. Mercato: la «grande» miseria agglomerata. Terribile. E la chiesa spagnola che sovrasta. L’immagine della chiesa indios è una indicazione più storica (politica) che altro, ma già è una indicazione: ma non basta. Ci vogliono le statistiche altrimenti il discorso è limitato, rischierebbe addirittura la pietà estetizzante. Fa più il contatto con la grande Chevrolet bianca che passa in mezzo a tanta merda.
La Chiesa è la principale fonte dei guai… «Il Vangelo in una mano e la spada nell’altra» così i primi conquistatori e i monaci della Mercede ammazzavano in nome di Dio. Cosa fanno i preti ora? Secondo Alberto peggio. I militari – i soldati indios, gli ufficialetti meticci – sono l’oppressione di potere evidente. Uniformi alla falangista. Dove vive questa gente inebetita dalla masticazione della coca? Come può svegliarsi? Onesti mai. C’è il problema dei figli, della nuova generazione. C’è qualcosa in Cuzco che mi ricorda Trujillo in Extremadura. Le stesse proporzioni possenti di muratura (forse a imitazione delle costruzioni inca: difatti i conquistadores si costruirono i palazzotti a Trujillo di ritorno dall’America).
È come se il tempo si fosse fermato, ma intanto ci sono le Chevrolet in giro e la televisione. Prima, signori di una loro civiltà (e il passo è diretto: stessi vestiti, stesse facce, stessi bisogni primari). Prima, signori di una loro civiltà, ora servi di una civiltà straniera, di tipo economico, ma neppure inseriti perché inutili e ritenuti tali o resi tali o fatti rimanere tali, a meno che non si tratti di sfruttarli come muratori ad altezze alle quali nessun altro potrebbe fare il muratore. Quindi di questo tipo di civiltà economica non godono neppure i benefici. L’origine di tanti guai risale indubbiamente al tipo di conquista degli spagnoli. Gli imperi economici, sia statali stranieri, sia privati locali, hanno fatto il resto. I ricchi locali non hanno mai fatto prosperare nessuna delle attività che avrebbero potuto dare una base di vita decente al loro Paese, non ci hanno neppure vissuto, non hanno fatto circolare là i loro soldi. Tutto è straniero: in tanto abbrutimento di miseria enormi réclame della Coca-Cola, gigantesche General Motors ecc.
Gli uomini indios si lasciano fotografare, imbottiti di coca, le donne, dolcissime madri-natura si riparano il viso o quello dei figli nello scialle dietro le spalle, con gli enormi cappelloni di paglia bianca.
(Qui si può girare con il sistema del mordi e fuggi.)
20 gennaio
Escursione a Machu Picchu.
Bellissimo. L’ordine geometrico dell’impero Inca espresso tutto riunito nelle costruzioni di una fortezza-città rifugiata a 3000 metri circa. Ci si arriva con il trenino. Tre ore. Lungo la strada ferrata misere capanne di fango e niente più che questo. Quale sarà stato il contenuto dell’articolo del Che su Machu Picchu:3 l’ordine di una antica civiltà collettivizzata, dove il lavoro era obbligatorio e la ricchezza e la produzione distribuite saggiamente? La terra era della collettività e il cittadino era obbligato a lavorarla. (C’è un gruppetto familiare di indios che vengono a visitare le rovine.)
La libertà della proprietà. O avrà scritto della fine di questi antichi padroni della loro civiltà, estranei a una nuova perché mai fattivi accedere? Alberto, l’autista di Cuzco, ci viene a prendere al ritorno, dice che quella miseria costituisce il 90%.
Mi viene l’idea della nascita e della morte, cioè l’indio dalla nascita alla morte, una rapidissima sintesi, accompagnata – come necessariamente in tutto il capitolo che riguarda l’A.L.* – da dati statistici incontrovertibili. Al ritorno passo davanti a un minuscolo cimiterino di fango tra alcuni gruppi di capanne di fango. L’idea è giusta. Parlo della morte di questa gente con Alberto: mi conferma l’idea. Qui gli indios li sotterrano persino senza bara, nel terreno comune.
21 gennaio
E vado a dare un’occhiata al cimitero di Cuzco, la domenica mattina. Il reparto abbiente è sistemato con loculi incorniciati con grosse e bellissime cornici di bronzo dorato e argentato, difesi da un cristallo dietro il quale c’è una placca dello stesso metallo con figura di madonna per lo più e fiori di plastica o veri. Molto tipico e folclorico. Il reparto poveri è una collinetta di terra seminata letteralmente di croci e tombette di gesso (quando ci sono) a forma di bara, quasi tutte dipinte di bianco e di azzurro. Le croci per la maggior parte sono due pezzi di legno inchiodati. Mi inoltro tra le croci – a un certo punto mi fermo, i miei piedi prigionieri delle assi e dei tumuli (non più tombette man ...