L'Italia della dolce vita
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L'Italia della dolce vita

  1. 352 pagine
  2. Italian
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L'Italia della dolce vita

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Tra i tavolini di via Veneto o nei teatri di posa di Cinecittà, in piazzetta a Capri o al Lido di Venezia, uno sguardo attento e ironico illumina i riti dell'Italia della dolce vita. Oriana Fallaci, giovane scrittrice allora impegnata come corrispondente dell'Europeo, coglie lo spirito di quegli anni e di chi li abita: intellettuali, gente di cinema, ma anche viveur, nobili decaduti, borghesi in cerca di gloria. In un grande affresco, scanzonato e senza preconcetti, si ritrovano, con i loro tic, speranze e aspirazioni, gli attori famosi – da Sordi a Gassman, da Gina Lollobrigida a Sofia Loren –, i registi – Visconti, Rossellini, Fellini, Antonioni –, gli scrittori, i grandi produttori e le stelline in cerca di gloria che hanno fatto la fortuna del cinema italiano nel mondo e hanno saputo rappresentare, forse più che in qualsiasi altra epoca, le caratteristiche del "genio italico".Oriana Fallaci li osserva, li incontra, li intervista, qualche volta ne diventa amica, a volte si fa odiare, ma sempre ce li restituisce vividi e umani, cogliendone i punti deboli e le grandezze, le idiosincrasie e le passioni. Un "dietro le quinte" che racconta un'epoca eccezionale attraverso la penna pungente di una grande scrittrice.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2017
ISBN
9788858689080
Argomento
Storia

PARTE OTTAVA

Federico, Marcello e «La dolce vita»

Il regista che ha paura di Hollywood

La prima volta che incontrai Federico Fellini fu l’anno scorso a New York, poche ore prima che finisse in prigione come sospetto di appartenere a una banda di gangsters che voleva svaligiare Wall Street. Era un giorno di ottobre e Fellini era giunto in America con De Laurentiis per presentare Le notti di Cabiria. Abitavano insieme in un lussuoso albergo della East Side, vicino alla Quinta Avenue, dove avevano preso in affitto, al diciottesimo piano, un appartamento con la cucina onde prepararsi gli spaghetti alle vongole.
New York era ai loro piedi. Sulle colonne di Walter Winchell, Louis Sobol e Knickerbocker si parlava quotidianamente di loro, giornalisti molto autorevoli li lusingavano con interviste alla TV, avvicinarli era quasi difficile. Ma, come spesso accade quando si fa un colpo coi fiocchi, non feci nulla per sollecitare l’incontro che avvenne per caso. Un mio collega era stato chiamato da Dino De Laurentiis per tradurre un soggetto ed io ce lo accompagnai.
L’appuntamento era alle sei del pomeriggio. La stanza era quasi immersa nel buio e piena di gente. De Laurentiis spiegò che aspettava una telefonata molto importante da Rocky Marciano e pregò tutti di fare le presentazioni da soli. Stringemmo dunque moltissime mani e nessuno si curò di un’ombra grande e carnosa che sedeva accanto al telefono, beatamente dormendo. L’ombra era vestita di grigio, aveva le mani sulla pancia, la cravatta allentata e, sebbene si discutesse ad altissima voce, niente sembrava turbare il suo sonno angiolesco. Solo quando De Laurentiis si interrompeva per implorare «Attento al telefono» essa rispondeva con un grugnito. Ma non apriva gli occhi né si muoveva come se il minimo gesto bastasse a stremarla. Dormiva dunque o fingeva di dormire da quasi mezz’ora quando il telefono squillò. L’ombra si scosse. Pigramente abbatté la mano grassoccia sul ricevitore. Pigramente portò il ricevitore all’orecchio e miagolò: «Hallooo». De Laurentiis scattò in piedi, tutti tacquero. Udii con chiarezza, poiché ero vicino, che all’altro capo del filo qualcuno diceva: «Sono Rocky Marciano». «E io sono Manuel Fangio» rispose l’ombra con voce incolore. Poi tornò a sonnecchiare.
Lo svegliò un urlo. De Laurentiis aveva capito. «A matto, che hai combinato. Quello era Rocky Marciano.» L’ombra si alzò piano piano: diventando un bell’uomo. Stirò le braccia come se si alzasse in quel momento da letto, sbadigliò con piacere, posò le mani sui fianchi, poi aggrottò la fronte e all’improvviso emergendo dal suo incantato torpore osservò: «Già, ha detto proprio Rocky Marciano. Credevo scherzasse». Poi tornò ad acciambellarsi sulla poltrona e, assolutamente estraneo al dramma che si stava svolgendo, a De Laurentiis che sollecitava al centralino la comunicazione perduta, agli altri che lo guardavano con indignato stupore, mi disse: «Ciao. Come stai?». «Bene, grazie. E lei?» risposi un poco sorpresa: ignoravo chi fosse. «Ho male a un ginocchio» mi disse. «Cosa credi che sia?» Azzardai che si trattasse di artrite. «No, no. Son convinto che è la tristezza.»
«Hallo, hallo? Signorina, la prego.» supplicava De Laurentiis. L’uomo si massaggiava lento il ginocchio, senza guardare nessuno. «Oggi è il quattordicesimo anniversario del mio matrimonio ed è la prima volta che non lo passo insieme a mia moglie. Per questo mi fa male il ginocchio.» Sul faccione abbronzato, dalla gran bocca sensuale, il naso crudele, le guance cicciute, i suoi occhi luccicavano di una malinconia quasi cupa, senza dubbio sincera. «Hallo, hallo? Aaah Rocky? Caro Rocky. È stato uno sbaglio» diceva trionfante De Laurentiis. L’uomo scosse le spalle, per niente compiaciuto o sorpreso: «Ero sicuro che avrebbe richiamato. Dio, il mio ginocchio. Andiamo a comprare un regalo a mia moglie». E, senza aspettare il permesso, mi trascinò in ascensore. «Dino è troppo attivo. Conosci un negozio dove si vende la roba da donna?» Lo portai in un negozio dove si vende la roba da donna. Il suo modo di comportarsi era così stravagante che non avevo neppure il coraggio, ormai, di domandargli chi fosse. Né il suo volto mi ricordava qualcuno. Non sono fisionomista, lo ammetto, malgrado il mestiere.
«Se le comprassi un cappello?» diceva mettendomi in testa un cappello. È press’a poco come te: di corpo e statura. «È anche bionda e ha la faccia rotonda. Girati. No, le sta male. Se le comprassi un paio di babbucce?» Mi obbligò a togliermi le scarpe, a calzar le babbucce. Ma nemmeno queste andavano bene. «Capisci, lei si veste sempre severa. Io la vorrei più spiritosa, più sexy. Ecco, una camicia da notte.» E agguantò una camicia da notte, con un gran cuore disegnato davanti: «Le piacerà?». «No,» risposi «è orribile.» «Allora queste.» E prima che glielo potessi impedire, acquistò un paio di mutandine. Erano le mutandine più idiote e scandalose che avessi mai visto: di tulle giallo con le stelline di Strass sul davanti. «Le piaceranno» dichiarò agguantando felice il pacchetto e strizzando l’occhio a una commessa con tanta roba di dietro. «Torniamo da Dino.» Entrammo di nuovo in albergo, ma, al momento di salire in ascensore, ci ripensò. «Voglio farle un telegramma. Credi che le farà piacere il mio telegramma?» Mezz’ora dopo il cestino era pieno di fogli stracciati. Non riusciva a trovare la formula giusta. Qualsiasi espressione d’amore gli sembrava ridicola. Mi porse la penna: «Scrivilo tu». Allora sbottai. «Senta» gli dissi. «Io non so chi sia lei, né chi sia questa moglie. Mi ha portato via dai miei amici, mi ha trascinato a comprare un paio di mutande schifose. Ora vuole che scriva i suoi telegrammi d’amore. Mi dica almeno chi è. E mi chieda chi sono.» Non ne sembrò punto offeso. «lo mi chiamo Federico Fellini. E tu?»
Dopo un simile incontro, non avrei dovuto meravigliarmi di ciò che accadde più tardi. Accadde quindi che, ormai rabbonito dalla telefonata con Rocky Marciano, De Laurentiis cucinasse gli spaghetti: onde alleviargli il male al ginocchio che gli provocava la lontananza di Giulietta Masina; e non farlo scappare. Ma nemmeno gli spaghetti potevano strapparlo alle nuvole per riportarlo almeno sulla cima dell’Empire State Building. E, alla terza forchettata, Federico chiese le chiavi dell’automobile: gli andava di far da solo un giro in città. L’automobile, una Cadillac nera, apparteneva al segretario di De Laurentiis il quale non voleva dargliela per una ragione ben saggia: Federico era senza documenti. Il suo passaporto giaceva al consolato. Era infatti entrato in America privo del visto. Era la terza volta, nel giro di pochi mesi, che Fellini veniva in America privo del visto. La prima era stata nel marzo: quando era venuto a prendere l’Oscar per La strada. E gli era costato cinque ore di segregazione all’aeroporto mentre Giulietta piangeva pel timore che lo rimandassero in patria. La seconda era stata nel giugno: quando era venuto a riscuotere il premio come migliore regista dell’anno. E gli era costato otto ore di interrogatori a Ellis Island. La terza era stata per questo viaggio di ottobre ed aveva rasentato lo scandalo.
Per un poliziotto americano era impossibile credere alla verità: vale a dire che Fellini si fosse dimenticato, come sempre, di chiedere il visto. Esasperato, gli aveva mosso l’accusa di farsi beffe delle autorità statunitensi e solo per l’interessamento di una hostess il suo caso era giunto all’orecchio dell’ambasciatore italiano, che era intervenuto facendogli ottenere un permesso speciale di entrata. Ma il permesso era valido appena sei giorni e Fellini si era dimenticato di rinnovarlo. Era quindi indispensabile che nessuno si accorgesse di un soggiorno così irregolare e che, in attesa di un altro permesso, egli procurasse il minor numero possibile di guai. «Metti che ti capita un incidente,» diceva il segretario di De Laurentiis «metti che trovi la polizia. Che gli racconti?» Ma nessuno resiste alla voce dolcissima di Federico Fellini, alla sua forza di persuasione. Ebbe le chiavi dell’automobile e, con un «ci vediamo fra dieci minuti» sparì nella notte.
Suonavano appena le dieci. Alle undici non era ancora rientrato. A mezzanotte De Laurentiis cominciava a sentirsi nervoso. All’una era arrabbiato. Alle due aveva perso completamente la testa. «Almeno telefonasse,» si lamentava «cosa ci vuole a telefonare?» Ma Federico non pensava affatto al telefono. Aveva scoperto Wall Street e gli era balenata nel capo l’idea di un film che si svolgesse in Wall Street. Così si era messo a girare dove c’è una importantissima banca e girava ormai da due ore, nella strada deserta, quando la polizia s’era messa in allarme. Un’auto con agenti armati di molte rivoltelle aveva incominciato a seguirlo, senza che lui si accorgesse di nulla. A quella se n’era aggiunta un’altra, poi un’altra ancora. Federico procedeva, guardando i grattacieli, e quelle procedevano guardando lui. Federico fermava, e quelle fermavano. Poi Federico scese, e anche i poliziotti scesero. Federico si mise ad esaminare con esasperata attenzione l’ingresso principale della banca. E i poliziotti si misero ad esaminare con esasperata attenzione lui. Uno gli toccò il braccio. Senza voltarsi, Federico disse: «Ciao, come va?». Poi si avviò nuovamente verso la sua Cadillac: rimettendola in moto. L’aria fu lacerata da un fischio, due fischi, dieci fischi. La Cadillac fu circondata. I poliziotti dissero: «Documenti». E non ci fu bisogno di aggiungere altro. In capo a cinque minuti egli era chiuso in guardina: insieme ai lestofanti più pericolosi della metropoli.
«I am Federico Fellini, famous italian director» gridava Fellini con le mani aggrappate alle sbarre. Ma quale poliziotto con un po’ di buonsenso poteva credere che l’uomo più celebrato in quei giorni a New York se ne andasse in giro ad ispezionare le banche, privo inoltre di qualsiasi documento? «Shut up, guy. O ti denuncio anche per ubriachezza molesta» rispondevano i poliziotti giocando imperturbabili a dadi. Lo avevano acchiappato alle due e mezzo del mattino. Alle quattro Fellini era ancora in cella a gridare d’essere il famoso regista italiano e la sua voce era sempre più fioca e priva di speranza. «Dovete lasciarmi, oggi c’è la, prima di Cabiria.» «Shut up, guy. O arrestiamo anche questa Cabiria.» Fu allora che entrò un sergente d’origine abruzzese. Udì i lamenti e chiese di interrogarlo. La barba lunga, gli occhi cerchiati dal sonno, la cravatta ormai ridotta a un cencino ritorto, Fellini fu fatto uscire dalla cella. Il sergente lo prese pel bavero. «Look at me, guy. Ho visto I vitelloni sei volte e La strada otto volte. Se sei davvero Fellini cantami i ritornelli dei film. Ma se non lo sei, ti spacco il muso.»
Fellini non sa cantare ma d’un tratto si sentì diventare Sinatra. Raccolse tutto il suo fiato e, con una vocina da angelo, intonò i ritornelli. Quand’ebbe finito, il sergente piangeva. «È lui, benedetto!» ripeteva abbracciandolo. Ed ecco i poliziotti dai pugni pronti e dalla faccia durissima circondarlo come se fosse Marilyn Monroe, e chi lo spolverava, chi lo pettinava, chi gli chiedeva scusa per l’imperdonabile equivoco: finché insieme si misero a giocare coi dadi e a bere la birra. Lo vedemmo arrivare alle sei del mattino. De Laurentiis non credeva ai suoi occhi. Veniva prima la Cadillac nera di Federico, inebriato di complimenti e di birra, poi il corteo delle macchine coi poliziotti. E dinanzi all’albergo una suonò la sirena, la lunga fila fermò, i poliziotti vollero essere passati in rivista. «Ciao Bob, ciao Johnny, ciao Jimmy» gridava Federico tirando zampate sulle spalle a ciascuno. Poi diceva fra sé: «Questa è bella. La devo proprio raccontare a Giulietta» perché, se c’è uno che non si renda conto di quanto sia grande, perfino fra i poliziotti, il prestigio di Federico Fellini, questi è proprio Federico Fellini.
Capitava ad esempio che venisse a svegliarmi alle tre del mattino per lamentarsi di avere male al ginocchio. Io abitavo a Greenwich Village insieme a Thea, una studentessa di Londra. Così lo facevo salire e Thea si alzava tutta eccitata per preparagli il caffelatte col pane arrostito. Ogni volta lui domandava perché Thea fosse tanto eccitata, e, se gli spiegavo che lo era per Federico Fellini, esclamava: «Embé?» sinceramente stupito come quando dei tipi che se ne intendono, i registi di Hollywood, gli avevano consegnato un premio che vale dodici Oscar e John Ford piangeva di commozione e, dice lui: «Io non capisco. Mi applaudivano come se fossi morto». La sua inconsapevolezza e la sua poetica distrazione lo buttavano in braccio alle avventure più strane. Una volta rischiò di apparire in un programma televisivo dove «Federico Fellini, ardente uomo del Sud, avrebbe insegnato agli americani come si fa il baciamano alle signore». Un’altra volta, alla TV, volevano che spiegasse come fa, un regista italiano, a creare una diva: denudando una formosa ragazza (Ma lui rifiutò: «Mica per fare il difficile. È che mi sembrava inesatto»).
Succedeva infine che ai cocktails in suo onore si dedicasse con entusiasmo a un piccolo reporter che gli era simpatico ed ignorasse, senza rendersene conto, il famoso produttore che era venuto da Hollywood per mettere il mondo ai suoi piedi. I produttori americani lo torturavano offrendogli film e lui rifiutava perché non gli piace lavorare in una lingua che non è la sua e in un mondo che non gli appartiene. Ma quelli credevano che facesse per farsi pagare di più e raddoppiavano i soldi come alla roulette. Hal Wallis giunse addirittura a proporgli 250.000 dollari, oltre centocinquanta milioni di lire: una cifra mai guadagnata da un regista in tutta la storia di Hollywood. È a questo punto il press agent che faceva da interprete supplicò Fellini di trovare una scusa: altrimenti si sarebbe creato la fama di un pazzo e la sua reputazione avrebbe sofferto gravissimo danno.
Fellini incontrò allora Hal Wallis e con occhi spenti, il singhiozzo in gola come se fosse sul punto di piangere, spiegò d’essere disperato: non poteva accettare perché la sua morte era prossima, aveva un calcolo al rene sinistro. Hal Wallis respirò di sollievo: «Ora capisco, Federico carissimo. Non piangere. C’è il tuo amico Hal Wallis e non morirai. Conosco il chirurgo più bravo d’America. Ti faccio fare un taglietto, ti mando in convalescenza in Florida, e si firma il contratto». Corse al telefono, chiamò il chirurgo: che mettesse subito il camice sterilizzato, che facesse bollire i ferri, l’indomani stesso bisognava operare Federico Fellini. Chiamò il migliore albergo della Florida: che riservassero un appartamento coi fiori, sarebbe giunto in convalescenza Federico Fellini. E tutti quanti stanno ancora aspettando perché, mentre la cosa avveniva, Fellini fuggiva in punta di piedi e correva all’aeroporto di Idlewild per rifugiarsi in grembo a Giulietta e raccontarle che volevano togliergli il rene sinistro.
Lo rividi in piazza del Popolo, a Roma, e il ginocchio non gli faceva più male: a Roma c’era Giulietta. Sonnecchiava con la sua aria da gatto soriano davanti a Canova e, prima che potessi replicare, mi trovai accanto a lui in automobile e poi in via Archimede e poi nell’ingresso di casa sua dove una donnina dritta e compunta come una monaca, vestita di blu, la voce grave e soffocata di certe campane del Duomo, salutava incutendo soggezione. Ed era Giulietta. «Ti piace? Eh, ti piace?» ripeteva Fellini. Lei sorrise con tutti i suoi denti che sono piccoli, aguzzi, bianchissimi, e sopportò l’esame con l’indulgenza di certe professoresse che sanno rimproverare gli scolari troppo vivaci alzando appena le sopracciglia. Sembrava impossibile che fosse la medesima moglie per la quale Fellini aveva comprate quelle impossibili mutandine di tulle a New York, o l’incredibile attrice che hanno paragonato a un Charlie Chaplin in gonnella. Poi: «Le faccio vedere la casa» annunciò col tono delle signore che mostrano il salotto buono alle amiche. Veniva dalla cucina un gradevole odore di arrosto. L’uscio della cucina era aperto. Giulietta lo chiuse un po’ imbarazzata. Fra i mobili all’americana c’erano le pentole di rame che vengono da Giorgio di Piano, il paesino in Romagna dove è nata. Giulietta spiegò che molti oggetti li ereditò dalla zia. Anche la zia aveva la casa ai Parioli.
«Questi invece appartenevano a mamma e a papà» disse mostrando la stanza da letto. Il letto e il cassettone erano di mogano lucido, passati di moda, come se ne vedono spesso nelle case borghesi in provincia.
«Questa era del nonno» disse indicando una cassaforte. «Federico ci tiene i contratti.» Sulla cassaforte c’era un uovo di plastica e latta dorata che racchiudeva una Gelsomina di cencio. «Me l’ha regalato un ammiratore in America.» Poi, quasi solenne, mi guidò nella stanza dove tengono i premi che continuano a ricevere da ogni parte del mondo: medaglie, diplomi incorniciati, statue di bronzo, coppe d’oro, nastri d’argento. Dopo I vitelloni, ne hanno avuti più di duecento: record mai battuto da una attrice o un regista in tutta la storia del cinema. «Mi piace guardarli,» disse Giulietta «sono molto ambiziosa: per me e Federico. Non ho mai dubitato che un giorno il successo sarebbe venuto.» Lo disse con voce sicura e senza sorriso; gli occhi fermi e decisi. E improvvisamente capii perché, lontano da lei, Fellini aveva sempre male al ginocchio e perché, voltandosi a guardare le bionde a Times Square, confessava: «È facile spiegare perché amo Giulietta. Ho bisogno di lei. È per quella sua aria dignitosa e perbene. E perché è fatta di acciaio. Ottiene sempre quello che vuole. Io, vedi, sono proprio il contrario».
La cena fu tranquilla, priva d’aneddoti. Accanto alla moglie, Fellini diventava severo come un capostazione. Giulietta sostenne con disinvoltura i discorsi spiegando che il prossimo film del marito sarebbe stato senza di lei: «Nel mio personaggio Federico si sente esaurito. Bisogna aspettare». Dopo il film di Castellani, Nella città l’inferno, lei avrebbe girato L’Opera da tre soldi e i Dialoghi delle carmelitane. Il suo sogno però restava quello di interpretare un ruolo maschile: magari di un ragazzo o un folletto. Ci pensava anche ai tempi dell’università. Sì, certo, era laureata: in lettere e filosofia. Dette la tesi di archeologia religiosa, per far contenta la zia. Giulietta lo raccontò come se non fosse importante. Dopo cena suggerì una siesta in terrazza. Gettandosi sopra una branda, chiese il permesso di levarsi le scarpe e solo allora mi accorsi che ha le gambe bellissime. Tutti le guardano quella faccia rotonda, un po’ misteriosa, e nessuno si accorge che ha le gambe bellissime. Poi si congedò per andare a dormire: «Comincio il lavoro alle sei e sono molto disciplinata». Da buona padrona di casa, ci lasciò sigarette e cognac: «Vi serviranno per l’intervista».
Non avevo mai fatto una intervista a Federico Fellini e tutto a un tratto sentimmo un buffo imbarazzo. «Dove la facciamo, in terrazza?» chiedeva Fellini. «O ci sediamo alla scrivania? Anzi ho un’idea. Andiamo in cucina. Vien più naturale.» Decise alla fine che l’importante avvenimento sarebbe avvenuto mentre guidava la sua Mercedes, anche il suo maestro Rossellini ama concedere interviste guidando: gli dà un certo coraggio. E così, fra lunghi silenzi, colpettini di tosse, e raschiare di gole, ci trovammo sulla strada di Ostia. Fellini aveva la fronte aggrottata, le labbra strette, io mi sentivo ridicola. Cosa si chiede in certi casi a un grande regista? Cominciai a farfugliare le domande che piacciono a Rossellini: sul neorealismo, il neoromanticismo, l’individualismo anarchico e l’estetismo. E a ciascuno di quei paroloni che mandano in delizie i professori di Cinecittà, Fellini sembrava curvarsi come sotto uno schiaffo e le risposte uscivano dalla sua bocca sempre più faticose e imbrogliate finché, frenando di colpo, gridò: «Quando la pianti di dire sciocchezze?».
I fari di un’altra automobile illuminavano una faccia da leone arrabbiato: «Sia chiaro una volta per sempre: io quei discorsi non li capisco e li trovo privi di senso. Il neorealismo non so cosa sia. L’individualismo anarchico non ho fatto in tempo a studiarlo: lasciai il liceo prima di andare all’università. Quando ho in testa una storia, faccio un film. E quel che vien fuori, vien fuori». Ed era, come seppi più tardi, la stessa risposta che aveva affascinato il giornalista del «New York Times» quando nel 1947 questi era venuto ad intervistare i due sceneggiatori di Roma, città aperta: Sergio Amidei e Federico Fellini. La camicia candida, la cravatta nuovissima, un’espressione ispirata sull’ascetico volto incorniciato di capelli già grigi, Amidei aveva risposto accarezzando il copione: «Quella storia era dentro di noi fin dai tempi tristi e drammatici della occupazione nazista quando l’anelito di libertà germogliava nei cuori degli italiani». Le mani in tasca dei pantaloni un po’ logori, la cravatta a sghimbescio, una espressione sincera sul volto allora magrissimo, Fellini s’era stretto nelle spalle e aveva risposto: «Bah! Io non lo so davvero. Una signora ci dette dei soldi per fare un documentario sulla morte di don Morosini. Il documentario diventò troppo lungo e allora si disse di farci un film. Ma pensavamo che fosse una grossa sciocchezza. Fummo i primi a sorprenderci quando gli altri parlarono di capolavoro».
Poi mi guardò rabbonito: mise in moto la macchina come se si fosse tolto un peso dal cuore. La sua storia, disse, non aveva nulla di profondo o di eroico. A nove anni scappò di casa per fare il pagliaccio in un circo. A quindici era un vitellone di Rimini e suo padre, rappresentante di commercio, gli diceva che non avrebbe mai combinato nulla di buono. A sedici disegnava l’Avventuroso per l’editore Nerbini a Firenze ed era amico di «una cicciona con tanta roba di dietro». A diciassette faceva il poeta disoccupato e dormiva nei vagoni-letto della Stazione Termini a Roma. «Ma una notte dimentico di chiudere il finestrino e le donne che puliscono i vetri mi inondano con un getto d’acqua bollente. Così mi impiego in una compagnia di avanspettacolo che si chiama “Scintille d’Amore”. Ma sogno di fare il giornalista: il rumore delle rotative mi eccita, la tipografia mi mette addosso la contentezza e scrivo benino. Entro nella cronaca del «Popolo» a Roma con la raccomandazione di un cardinale. Ma c’è la censura su tutto e se una donna si ammazza con l’acido muriatico mi fanno scrivere che l’ha bevuto per distrazione. Mi tagliano i titoli, mi tagliano le notizie. Un giorno incontro, il direttore, un damerino profumato che va a spasso coi fascisti, le soubrettes e la caramella all’occhio sinistro, mi agguanta i capelli che porto lunghini e mi dice: “Tagliare, tagliare”. Allora mi arrabbio. Quelli no, dico. E vo al “Marc’Aurelio” dove non mi taglia nulla nessuno.»
Disse Fellini: «Capisci, io non ho mai avuto la vocazione di lavorare nel cinema. Non sono mai stato al Centro Sperimentale e non ho mai capito quel che succede in teatro. Le attrici mi hanno sempre intimidito. Ignoro come sia fatta la macchina da presa. Un giorno ci ho guardato dentro e quelle rotelline mi hanno fatto paura. Ignoro come funzioni la moviola. Vuoi sapere come nasce un regista in Italia? Per combinazione, come me. Un giorno mi misi a scrivere gags per i film di Macario, poi le sceneggiature e i soggetti. C’era un soggetto intitolato Lo sceicco bianco. Il produttore mi disse: “Perché non lo giri da te?”. Accettai perché sono incosciente: il primo giorno di lavorazione non a...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’Italia della dolce vita
  4. Nota dell’editore
  5. PARTE PRIMA. Da via Veneto a Cinecittà
  6. PARTE SECONDA. Sono tutte figlie di mamma
  7. PARTE TERZA. Divi accessibili e bravi borghesi
  8. PARTE QUARTA. Uomini alla regia
  9. PARTE QUINTA. Produttori all’italiana
  10. PARTE SESTA. Vacanze da Vip
  11. PARTE SETTIMA. A Venezia! A Venezia!
  12. PARTE OTTAVA. Federico, Marcello e «La dolce vita»
  13. Fonti
  14. Indice