La vita quotidiana nella Roma pontificia ai tempi dei Borgia e dei Medici
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La vita quotidiana nella Roma pontificia ai tempi dei Borgia e dei Medici

  1. 304 pagine
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La vita quotidiana nella Roma pontificia ai tempi dei Borgia e dei Medici

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Rodrigo Borgia fu papa per circa nove anni, dal 1492 al 1503, con il nome di Alessandro VI. Considerato dalla Chiesa un pontefice devoto, promotore di riforme ecumeniche e persecutore degli eretici, il papa Borgia riconobbe sei figli da madre ignota, e quattro nati dall'amante ufficiale, Vannozza Cattanei. La famiglia Borgia ebbe così facile accesso alle strade del potere, laico e religioso, e i figli di Rodrigo furono protagonisti del rinascimento italiano per contraddizioni ed eccessi: dai delitti occultati al libertinaggio nella curia romana, dalle voci di amori incestuosi al più sfacciato nepotismo. Un sistema fondato su abusi e sregolatezze, che regnò su Roma fino ai primi anni del Cinquecento. Eppure, la città risorgeva dalle sue ceneri: non divenne solo centro di divertimenti lussuosi e occasioni di spettacolo, ma un nuovo polo di mecenatismo, dove a trionfare erano la vita intellettuale e l'amore del bello. Jacques Heers ci porta dietro le quinte della città papale in un secolo pieno di ombre, dai successi militari di Cesare Borgia ai matrimoni turbolenti di Lucrezia, e non manca di indicarci anche le luci: da un lato i vizi di una politica sfrenata, fondata su favoritismi e sprechi, dall'altro un'epoca di fervore e rinnovamento, che ci ha lasciato in eredità i grandi monumenti del cristianesimo, e quella bellezza sfarzosa che fa ancora brillare Roma in tutto il mondo.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2017
ISBN
9788858689936
Argomento
Storia

VI

Roma, centro di artisti

Le rovine: conservare o distruggere?

Si usa parlare di Rinascimento: è una parola carica di simboli, che significa molte cose e nessuna. Assoluto rispetto per l’antichità? Interesse per l’uomo e per il suo passato? Un processo di «rinnovamento» di questo genere si era manifestato molto tempo addietro, ben prima che lo annunciasse il Quattrocento italiano. Del resto, si era espresso con notevoli discordanze sul piano cronologico, a seconda dei vari paesi, presentando distinti caratteri peculiari, momenti di esitazione e anche di regresso. Come tutti i movimenti che improntano una civiltà, per forza di cose anche questo sfugge a una definizione semplicistica: dunque meglio guardare agli accadimenti reali che bloccarsi su parole prestigiose, ridondanti.
Interesse per l’antichità? Non ha mai cessato di stimolare gli uomini: nei tempi del Medio Evo che vengono ritenuti i più oscuri, i chierici e gli amanuensi, gli amanti del fantastico, organizzatori di feste raffinate o popolari, gli artisti, conservavano nella memoria i personaggi e le grandi vicende della mitologia, della storia dei Greci e dei Romani, le fiabe dei moralisti; le gesta degli eroi immaginari. Ma in Roma, città privilegiata, i ricordi del passato acquistavano un diverso rilievo, la loro conservazione, il rispetto di queste testimonianze tangibili e prestigiose ponevano necessariamente gravi problemi, imponevano scelte difficili.
Si può affermare che i papi e i loro famigliari, le cerchia di amatori illuminati, gli umanisti appassionati delle lettere e anche gli artisti che gravitavano attorno a loro abbiano avuto la volontà e la capacità di difendere adeguatamente queste glorie dell’antichità?
Sarebbe facile immaginarli disposti a qualunque intervento al fine di inventariare, scoprire o riscoprire e conservare tutto ciò che ricordava il passato dell’Urbe: monumenti, belle statue, vasi di bronzo, monete o medaglie. Ma, per quanto pieni di buone intenzioni, come avrebbero potuto ignorare la necessità di economizzare le pietre delle nuove cave, e la mancanza di denaro? Come resistere alla tentazione di riutilizzare i più bei blocchi di marmo, le colonne di porfido meglio conservate, qualche capitello? Di conseguenza, la Roma dei papi nel Quattrocento e in tempi anche successivi distrugge più di quanto non preservi.1
Nel 1420 la città antica appare assai mal ridotta: una distesa di rovine, spesso irriconoscibili. Naturalmente nessun edificio ha conservato la sua destinazione originaria, nessuno, fra quelli intatti, il suo aspetto di un tempo.2 Attraverso pure e semplici riconversioni, realizzate alla meno peggio, in modo spesso maldestro, anarchico e talora sconcertante, si è proceduto alla consacrazione di edifici di ogni genere, in diversi casi assai male appropriati al culto cristiano, in particolare a quello dei martiri. Se le grandi basiliche, monumenti insigni, furono costruite ex novo, principalmente sotto Costantino (spesso utilizzando le pietre di vecchie costruzioni), molte altre chiese, minori, sono il risultato dell’accaparramento e della sistemazione di edifici diventati inutili. L’elenco appare interminabile. Il Pantheon diventa Santa Maria ad Martires, che ben presto prenderà il nome di Santa Maria Rotonda; il tempio di Antonino, San Lorenzo in Miranda, e quello di Faustino, la chiesa dei Santi Cosma e Damiano. La biblioteca delle terme di Augusto, nel Foro, viene trasformata in Santa Maria Antica e la curia nella chiesa di Sant’Adriano. In ogni foro, distesa di rovine abbandonata a una permanente confusione, i muratori sono riusciti a edificare, utilizzando i frammenti meno deteriorati di templi e di porticati, una o più chiese, che appaiono sperdute in mezzo ad ammassi di rovine non sgomberate: almeno cinque nel Foro romano, fra cui le chiese di San Sergio e di San Bacco; nel Foro boario, Santa Maria del Sole e Santa Maria Egiptiana; nel Foro Olitorio, la chiesa di San Niccolò in Carcere occupa le rovine di tre templi: quelli di Giunone Sospita, di Giano e della Speranza. Sul Palatino sono state costruite Santa Maria di Pallaria e Santa Lucia in Septem Soliis. Sul mausoleo di Augusto viene innalzata una piccola chiesa, dedicata a San Michele.3
Tutti gli edifici che testimoniavano dell’antico splendore di Roma hanno subito interventi di rielaborazione, di trasformazione, di conversione, diventando fortezze dei nobili, o chiese adibite al culto nei quartieri, in taluni casi sicuramente chiese gentilizie. Una nuova città, guerriera e feudale, cristiana, si è sovrapposta a quella antica.
Le demolizioni rendevano il compito più facile. Organizzate spesso in modo sistematico, assunsero in tutta la città una dimensione ragguardevole. Agli incendi, accidentali o deliberati in occasione delle guerre civili, alle inondazioni, ai tremendi terremoti (quello del 1349 fa crollare la facciata occidentale del Colosseo) si aggiungono le imprese dei lavoratori edili che non rimangono mai inattivi e trasformano l’intera città in un grande cantiere di rifornimento, una sorta di cava, che viene considerata inestinguibile e indispensabile. I marmorarii formano una associazione, una corporazione professionale fra le più potenti. Asportano dai monumenti antichi le colonne e i capitelli, le balaustre, gli amboni e i tabernacoli dei templi, le pietre tombali, per consegnarle ai muratori della città o anche per spedirle molto lontano, in altre provincie d’Italia; se ne trovano a Orvieto, a Pisa, a Lucca, a Firenze, nel Battistero di San Giovanni. Vengono utilizzate statue antiche per consolidare i muri delle nuove costruzioni e quelli delle torri e delle fortezze, altre vengono destinate alla fusione nelle fornaci par la calce.
In effetti, è molto attiva anche la corporazione dei fornaciai, i calcarii, che ha installato le sue fornaci proprio nel cuore della città, fra i grandi monumenti, circhi, teatri e terme; se ne trovano nel Forum, in grande numero, nei palazzi imperiali del Palatino, ancor più nelle terme di Diocleziano. La parte sud del Campo Marzio, dove non risiedono le grandi famiglie, rimaste al di qua del teatro Marcello è completamente abbandonata al piccone dei demolitori e dei fornaciai, che vi lavorano senza sosta tutto l’anno; l’intera zona prende il suo nome dai cantieri e dalle fornaci che rimangono accesi giorno e notte, inondando l’aria di fumo acre, illuminando di grandi bagliori fugaci gli spezzoni di muro e i fusti delle colonne che giacciono a terra; nel parlare popolare e ben presto negli scritti dei notai e dei cronisti, è il Calcarario, la Calcararia, la grande cava della calce, la maggior fabbrica di pietre e calce di tutta la provincia e senza alcun dubbio di tutta la penisola. Si dice «andare alle Calcare» ed è un modo per orientarsi, per raccapezzarsi. Gli edifici del vicinato ancora in piedi, le case, i piccoli palazzi, le stesse chiese si trovano alle Calcare; come San Niccolò Calcararium, San Lorenzo de Calcarariis, San Salvatore de Calcarariis e ancora Santa Lucia de Calcarario.4
Contro questo genere di imprese, così utili e comode per i nuovi progetti urbanistici, i papi del «Rinascimento» non realizzano una politica innovatrice, o lo fanno in misura molto limitata. Significherebbe porsi deliberatamente contro il costume corrente e contro ciò che consiglia l’interesse. Né loro, né i loro famigliari, né gli edili municipali che talvolta intervengono timidamente hanno la possibilità o la volontà di agire seriamente. È evidente che nessun monumento romano venne mai restituito alla sua originaria destinazione o ricostruito per essere presentato all’ammirazione dei cultori della civiltà antica come un pezzo da museo. Tutt’altro!... Già nel 1363, da Avignone, Urbano V aveva concesso le terme di Diocleziano a due nobili della famiglia Orsini perché vi fondassero e vi insediassero un monastero di certosini. Altre occupazioni coincidono con nuove realizzazioni architettoniche, sono funzionali ai disegni propri del principe, o a quelli religiosi.
Il miglior esempio, e davvero spettacolare, non è forse Castel Sant’Angelo, in altri tempi mausoleo di Adriano, dove il papa perpetua e porta a compimento ciò che prima di lui avevano appena abbozzato i nobili Orsini? Da una semplice occupazione in condizioni molto scomode, che, nonostante tutto, per mancanza di denaro o d’immaginazione, rispettava le strutture del monumento antico, si passa a grandi lavori di sistemazione che sconvolgono tutta l’opera e ne modificano radicalmente l’aspetto.
Nell’intera città, questi principi del «Rinascimento» lasciano decadere ulteriormente sotto i loro occhi le vestigia che talvolta pretendono di ammirare e di difendere. Autorizzano i demolitori, quando non li sollecitano e non li incoraggiano, negoziano con loro, alla ricerca di bei blocchi di marmo ben squadrati, di colonne, di basamenti o architravi. Per non parlare dei frammenti conservati meno bene e già buttati nei forni... Lungo tutto il secolo, le devastazioni si estendono, le rovine raggiungono nuovi quartieri: soprattutto quelli dove risiedono i nobili, che dunque possono esserne cacciati. Il Colosseo subisce grosse manomissioni, viene smantellato nelle sue parti alte e nelle sue campate di accesso; le gradinate in certi punti crollano; ne vengono asportati marmi e massi di travertino, persino di tufo. I cardinali fanno prendere fusti di colonna ancora intatti per i cortili loggiati dei loro palazzi e i papi per la basilica di San Pietro o per il palazzo del Vaticano. Altri imprenditori, mal sorvegliati, depredano la basilica di Costantino. Niccolò V fa lavorare le cave di Tivoli, ma si rifornisce di marmi di buona qualità soprattutto nella villa di Adriano e Pio II fa arrivare notevoli quantità di marmi di Carrara, soprattutto allo scopo di variare l’ornamentazione, ma proprio sotto il suo pontificato un umanista piange sui monumenti antichi di Roma «per la maggior parte demoliti e ignominiosamente saccheggiati». Lo stesso Niccolò chiama un maestro di Bologna, Ridolfo di Fioravante, soprannominato Aristotele, e gli affida il compito di trasportare enormi colonne dal tempio di Minerva al Vaticano; e più tardi, nel 1471, Sisto IV non esita a distruggere il tempio di Ercole e un arco di trionfo del forum boarium per i muri della sua biblioteca Vaticana.5 Alla fine del secolo l’intero forum repubblicano non è più che un’immensa cava affittata a lotti ai maestri muratori contro un terzo dei loro profitti.
Nel 1518 Raffaello scrive a Leone X che durante i dodici anni trascorsi dal suo arrivo a Roma ha visto distruggere la porta trionfale delle terme di Diocleziano, il tempio di Cerere nel Foro, una parte del Foro di Nerva e della basilica di Costantino.6
Tutti continuano a scavare, ad abbattere, in una parola, a distruggere. Certo, da oltre un secolo alcuni dotti, eruditi, innamorati dell’antica Roma, avevano levato la loro voce. Gli umanisti dicono di dolersi amaramente di questa scomparsa, di questo lento ma drammatico processo di degrado che investe un paesaggio tanto ricco di memorie gloriose, di reminiscenze letterarie, riflesso tangibile di una cultura che essi non cessano di voler meglio scoprire e ammirare. Verso il 1350 Petrarca, nel momento del suo trionfo romano, quando venne incoronato a Roma dal «senatore» Carlo d’Angiò, aveva levato una vibrante denuncia delle depredazioni, delle usurpazioni, dell’abominevole scempio cui si consentiva; ne accusava i grandi casati nobiliari, ciecamente protesi a combattersi, a costruire sempre nuove torri e fortezze; li rendeva responsabili di una sorta di sacrilegio. Ma Petrarca, probabilmente sincero, era anche amico di Cola di Rienzo, apostolo della pace e promotore entusiasta della gloria romana, che faceva regnare sulla città una vera e propria dittatura personale e attaccava in tutti i modi i nobili e i principi. Di conseguenza, questa difesa dell’antichità e dei suoi marmi non presenta una reale purezza di intenzioni, ma si inscrive in un disegno politico e mira ad abbattere la potenza degli avversari, le grandi famiglie, con le loro fortezze. L’amore dell’antichità non basta a spiegare tutto.
È un gioco che si ripete... Nel 1363, gli statuti comunali, emanati da una municipalità quanto mai instabile, riaccendono la fiaccola, proibendo di danneggiare i monumenti antichi (De antiquis edificiis non diruendis) e cent’anni dopo Pio II promulga una bolla allo scopo di proteggere gli edifici ereditati dall’antica Roma... quanto meno, quelli che sono ancora in buono stato. Ma, anche in questo caso, l’intenzione politica di «pacificare» la città si allinea con la preoccupazione di salvaguardare ciò che è possibile, e la rafforza. Si tratta di timidi tentativi di protezione, ma di fatto derivano da manovre complesse.
D’altra parte, assumendo posizioni altrettanto politiche, i papi esaltano tutto ciò che può ricordare i fasti e le glorie del passato, della prima Roma, e subito dopo lo scisma intraprendono vere e proprie campagne, talvolta spettacolari, per il rinnovamento e la risistemazione del Campidoglio: sono senza dubbio iniziative propagandistiche che mirano a impressionare gli animi insistendo sulla continuità di un grande destino, e nello stesso tempo, con parole benevole, con lusinghe, ad accattivarsi i magistrati municipali eletti dalle corporazioni dei...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La vita quotidiana nella Roma pontificia ai tempi dei Borgia e dei Medici (1420-1520)
  4. Cronologia dei papi
  5. Introduzione
  6. I. Stato della Chiesa e Monarchia pontificia
  7. II. Alla ricerca di una dinastia
  8. III. La corte: fasto e spettacolo
  9. IV. Roma, una città nuova
  10. V. L’Umanesimo a Roma
  11. VI. Roma, centro di artisti
  12. Bibliografia
  13. Indice