La memoria geniale
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La memoria geniale

Come ricordiamo. Perchè dimentichiamo.

  1. 200 pagine
  2. Italian
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La memoria geniale

Come ricordiamo. Perchè dimentichiamo.

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Prima o poi nella vita succede a tutti: di fronte a una decisione che ci sembra impossibile da prendere, all'improvviso, quasi miracolosamente, ogni tassello trova il suo posto. La soluzione è semplice e soprattutto è sempre stata lì, a portata di mano. Ma cos'è questa illuminazione? Come arriviamo alla scelta che con il senno di poi ci pare l'unica giusta, l'unica possibile, l'opzione che, se ignorata, tornerà a tormentarci a lungo? Per Hannah Monyer e Martin Gessmann la risposta è semplice: grazie alla memoria. Partendo da due punti di vista completa- mente diversi – quello della neurobiologia e quello della filosofia – i due autori ripensano in modo anticonvenzionale la struttura della memoria, che non esiste per nascondere il vissuto dentro i suoi "cassetti", ma per rielaborarlo costantemente. Le informazioni rilevanti possono così sovrascrivere quel- lo che c'era in principio. Questa prospettiva rivoluzionaria ci offre una nuova comprensione del "lavoro" quotidiano del ricordare e, soprattutto, del dimenticare: tracciare la strada verso il futuro. "L'uomo non ha a disposizione altre facoltà in grado di gestire un compito così complesso e delicato."

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2017
ISBN
9788858687666

1

La rivoluzione della memoria

o come la memoria, nelle vesti di programmatrice del futuro, sia sempre un passo avanti rispetto agli eventi

Provate a immaginarvi un avvenimento straordinario: riempite il frigorifero di ogni ben di Dio, prendete un libro di ricette e, quando riaprite lo sportello, scoprite che all’interno non ci sono più le cose come le avevate disposte... ora sono tutte in perfetto ordine e pronte all’uso in base al piatto che volete preparare. Facciamo un altro esempio: siete avvocato, e vi trovate alle prese con una drammatica svolta in un vostro caso. Aprendo l’archivio in cui tenete tutti i documenti e gli indizi, avete l’impressione che siano passati degli operosi folletti: tutto è ordinato in modo da adattarsi alla nuova situazione. Ciò che prima era catalogato come documento dell’accusa, ora compare come prova per la difesa. E persino mentre estraete i singoli fogli dal faldone vi accorgete che anche lì è successo qualcosa. Qualcuno ha già ragionato sulla nuova piega che hanno preso le cose e riscritto contenuti e avvenimenti alla luce della nuova situazione. Tutto torna, e potrà essere inserito alla perfezione nell’arringa.
È più o meno così che devono essersi sentiti i neurobiologi quando hanno capito per la prima volta, anche se solo in maniera approssimativa, a cosa serve realmente la memoria. Dentro di essa avvengono, nell’ombra, cose uniche, inaspettate e anche meravigliose, e ogni ricercatore che abbia indagato questo argomento deve essersi sentito come il bambino che vuole a tutti i costi sapere se la luce dentro il frigorifero si spegne veramente quando lo si chiude. E forse possiamo capire ancora meglio la passione con la quale i neurobiologi si dedicano allo studio del loro oggetto quando non ci chiediamo semplicemente se nella nostra testa ci sia ancora la luce (o meglio, dell’attività) – ad esempio, quando dormiamo o sogniamo a occhi aperti. Tutto si fa molto più interessante quando si vuole sapere chi sono gli operosi folletti e, soprattutto, cosa fanno di preciso.
Certo, la terminologia usata per descrivere fatti e procedure con cui si cerca di aprire un varco tra le attività nascoste risulta in certi casi piuttosto arida, se non addirittura criptica: neurogenesi, optogenetica, inibitori della sintesi proteica. Eppure, non appena certi termini vengono pronunciati tra gli esperti, ecco che i loro occhi iniziano a brillare, anche quelli di chi è nel giro da così tanto tempo da aver già visto tutto. Oggi i progressi avvengono troppo in fretta, in maniera fulminea, e fin dalla descrizione delle metodologie si incontrano vocaboli che altrimenti verrebbero utilizzati solo da critici d’arte: elegante è quel determinato tipo di operazione, graziosa una sezione cerebrale che mette in luce i collegamenti nervosi con l’aiuto delle fibre fluorescenti, come in un’opera d’arte moderna; fantastica o addirittura spettacolare una procedura che permette di attivare o disattivare interi gruppi di cellule del cervello attraverso la meditazione.
Vogliamo raccontare questi esperimenti già nel primo capitolo. E vogliamo tentare, con il loro aiuto, di muovere i primi passi nel campo delle peculiarità grazie alle quali la nostra memoria ci aiuta un giorno sì e l’altro pure. Per quanto finora debba esserci apparso scontato il fatto che la memoria sia in sostanza solo una sorta di frigo portatile in cui tenere al fresco quanto appreso, o un grosso archivio dal quale non esce niente (si spera), le evidenze portate alla luce dalla ricerca negli ultimi decenni ci lasciano oggi a bocca aperta e soprattutto ci spingono a cambiare punto di vista. È diventato più semplice capire che la nostra memoria conduce una sorta di vita propria – anche quando ci capita di imprecare perché ci ha abbandonato per un istante, dobbiamo comunque riconoscere che è una valida aiutante. Ed è difficile sopravvalutare il suo ruolo a questo riguardo. Probabilmente l’uomo non sarebbe ciò che è oggi se nel corso dell’evoluzione non fosse riuscito a sviluppare una forma specificamente umana di memorizzazione e ricordo degli eventi. Pare sia stata soprattutto la flessibilità a rappresentare un passo in avanti decisivo per l’evoluzione dell’umanità, abbinata a una sorta di intelligenza che ha fatto diventare la memoria il fondamento delle decisioni solide. Grazie al nuovo modo di gestire gli eventi, l’uomo è nella condizione di poter non solo affrontarli, ma addirittura prevederli. La memoria apre la vita e le dischiude una nuova dimensione. Ormai non possiamo più fare a meno di riconoscere che è diventata un grosso trasformatore capace di mutare il passato in futuro.
Da un lato la flessibilità, dunque la possibilità di cambiare di continuo il contenuto della nostra memoria, dall’altro la saggezza di vita che motiva questi cambiamenti: due aspetti che vogliamo prendere in considerazione a diversi livelli della formazione della memoria.
Ogni rievocazione di un ricordo implica un nuovo apprendimento
Cominciamo dal punto in cui la neurobiologia ha finora riscosso i suoi più grandi successi, ovvero dall’analisi dei mattoni più piccoli della nostra memoria. Il primo esperimento avrà di conseguenza inizio a partire dalle strutture molecolari, dalle singole cellule, dai loro collegamenti e dalle misure di adattamento necessarie per posare la traccia di un ricordo. Ciò che stiamo per presentare potrebbe sembrare sulle prime una specie di imbroglio: si nasconde una cosa in un contenitore e, quando la si tira fuori, bisogna riconoscere che non è più la stessa. Quando si ha a che fare con la memoria, non ci si può aspettare che dal cilindro magico escano conigli al posto di colombe, ma non per questo l’effetto sorpresa del confronto prima-dopo è meno potente. Ci si potrebbe meravigliare anche solo del fatto che le ricerche sulla rievocazione di contenuti sembrino ormai una pura formalità. C’è voluto molto tempo per comprendere come facciano le informazioni a raggiungere la nostra memoria e a lasciare dietro di sé delle tracce. Ci si è chiesti come tali tracce si consolidino e dove vengano immagazzinate. E quando si credeva di saperne abbastanza, c’è stato bisogno di scoprire cosa accade con la rievocazione.
La prima idea è stata naturalmente di ripercorrere a ritroso la strada dell’andata. Estraiamo dalle scorte di magazzino il contenuto in questione e lo riproponiamo. Lo mettiamo al centro della nostra attenzione. Tuttavia, proprio con la riattivazione della traccia mnemonica, si è scoperto che le cose non erano così semplici. Prima di tutto il pacchetto stipato nella memoria viene aperto di nuovo. Da una traccia mnemonica consolidata si passa a una traccia labile, ovvero di nuovo aperta al cambiamento, almeno in linea di principio. La possibilità esiste, ma non è detto che si verifichino delle modifiche di contenuto. In ogni caso, a prescindere da cosa accada nel corso della rievocazione, alla fine salviamo la versione modificata, non più quella originale, che viene per così dire «sovrascritta». E ogni volta che ci ricordiamo della stessa (presunta) scena o di fatti (apparentemente) identici, in realtà abbiamo a che fare solo con delle copie – copie che, a suon di sovrascritture attraverso il riconsolidamento, potrebbero allontanarsi sempre più dall’originale. Ogni ritorno porta con sé la possibilità di nuove modifiche, e l’ultima versione è sempre e solo l’ultima di una serie di alterazioni passate.
Alcuni scrittori ricorrono, per descrivere questi processi, alla metafora della moneta: a furia di essere maneggiati, anche i ricordi diventano sempre meno precisi, e l’impressione originaria scompare con il tempo. Altri non considerano il processo come un’operazione in perdita: vedono i ricordi come dei dipinti che, a ogni seduta, possono arricchirsi di nuove linee e nuovi colori. Inoltre non è detto che i due punti di vista debbano per forza escludersi a vicenda: meno resta dell’impressione originale, maggiore diventa il raggio d’azione disponibile per inserire elementi nuovi, dettagli creativi. Come vogliamo dimostrare nel prossimo capitolo, tutto è possibile: da un progressivo oblio, che trova la sua espressione più estrema nelle malattie e nella perdita di memoria, fino alla manipolazione della memoria stessa, che può portare addirittura al tentativo deliberato e intenzionale di falsificazione di documenti – come quando, ad esempio, ci sembra che la dichiarazione di un testimone in tribunale sia frutto di un’incomprensibile illusione.
Da cellula a cellula – come nasce una connessione
Veniamo ora alla neurobiologia e agli esperimenti. Prima di tutto bisogna avere ben chiaro come attività tanto complesse quali l’apprendimento e il ricordo si basino in realtà sulla combinazione di processi molto più semplici. Alla base di qualsiasi attività di pensiero c’è la connessione tra singole cellule, le quali sono dotate di appendici, di canali in entrata e in uscita che possono essere molto ramificati. Ogni cellula è collegata fino a diecimila altre. Responsabili dei segnali sono gli assoni, fibre il cui nome deriva dal greco axon, asse. Gli assoni possono essere molto corti, ma in alcuni tipi di cellule cerebrali arrivano a misurare anche centimetri. I canali in entrata si chiamano dendriti, dal greco dendron, albero. I dendriti hanno infatti la forma di un albero e si ramificano in un modo che ne giustifica il nome. Ma lasciamo da parte per un attimo i dettagli descrittivi.
Il collegamento tra due cellule avviene attraverso le sinapsi, delle quali oggi tutti hanno già sentito parlare. Anche questo nome deriva da una parola greca, synapto, che significa appunto collegare. Volendo descriverla in maniera più accurata, una sinapsi è una fessura che si trova tra la parte terminale dell’assone, ovvero il canale in uscita di una determinata cellula, e i recettori dei dendriti, ovvero i canali della cellula ricevente. È larga solo 20 nanometri circa, quindi 20 milionesimi di millimetro. A un microscopio ottico le sinapsi non sono visibili, ma è possibile individuarle con i microscopi elettronici.
Ora passiamo alla trasmissione del segnale. Il punto di partenza e quello di arrivo sono sempre di natura elettrica: ciò che si genera in una cellula e arriva in un’altra ha sempre a che fare con delle differenze di tensione. Anzi, per la precisione bisognerebbe parlare di caduta di tensione, che in gergo tecnico viene chiamata depolarizzazione. Da una carica negativa (circa – 70 millivolt) si passa prima a una meno negativa (– 50 millivolt circa). Quando la carica negativa si avvicina a questo valore soglia, si producono uno o più potenziali d’azione (scarica neuronale). Per la trasmissione di un impulso elettrico di questo genere ci sono però due sole possibilità: o l’impulso di una cellula viene trasmesso in maniera puramente elettrica, oppure la trasmissione avviene tramite processi chimici. Ne consegue che esistono due tipi di sinapsi.
Iniziamo con le sinapsi elettriche: nel cervello non sono così frequenti. Per capire come si collegano le fibre nervose in uscita e in entrata, bisogna più o meno immaginarsi una flangia che raccorda due tubi. In inglese tecnico si parlerebbe di gap junction, il che significa semplicemente che i canali che inoltrano l’impulso elettrico si chiudono senza soluzione di continuità. Il motivo dell’importanza di questo dettaglio sarà spiegato più avanti nel corso del capitolo, quando si parlerà di interneuroni, che possono infatti comunicare anche attraverso le sinapsi elettriche.
Con le sinapsi chimiche le procedure sono un po’ più complesse. Il segnale elettrico porta in questo caso al rilascio di un mediatore chimico che, all’altro capo della fessura sinaptica, scatena a sua volta una reazione elettrica. Come avvenga la trasformazione del segnale elettrico in reazione chimica e viceversa non può essere spiegato in poche righe, purtroppo. Accontentiamoci di sapere che il segnale elettrico di una cellula fa sì che sul suo terminale sinaptico si aprano dei canali, e che attraverso questi canali affluiscano particelle cariche. La conseguenza è un’emissione dei mediatori chimici (neurotrasmettitori) immagazzinati nelle vescicole sinaptiche. Questi vanno a riempire la fessura sinaptica e si agganciano a loro volta a recettori creati apposta per loro della cellula collegata in serie. In questo modo si aprono di nuovo canali attraverso i quali le particelle cariche possono affluire alla cellula successiva. Gran parte delle cellule libera il mediatore chimico glutammato, che stimola le cellule nervose collegate (funzione eccitatoria); dal dieci fino al venti per cento di esse usa invece il mediatore acido gamma-aminobutirrico (GABA) e funge da inibitore sui neuroni collegati. Accanto a questi due neurotrasmettitori c’è tutta una serie di cosiddetti neuromodulatori, dei quali si sente molto parlare sui media: serotonina, dopamina, acetilcolina, per citarne alcuni. Essi sono responsabili di altri effetti oltre all’attivazione/inibizione. Possono ad esempio servire per farci sentire rilassati e soddisfatti, o iperattivi ed euforici, oppure per aumentare l’attenzione.
Ancora una parola sulla velocità a cui si svolge questa trasmissione chimica attraverso la fessura sinaptica. Probabilmente ci si immagina processi molto lenti, se si pensa a cosa esce ed entra e in quale rigoroso ordine. Affatto: l’ordine di grandezza è di millesimi di secondo per l’intero processo.
Ciò che si attiva insieme è collegato insieme
Ora abbiamo raccolto tutti gli elementi che ci servono per spiegare l’operazione alla base di qualsiasi processo di apprendimento. Verso la metà del ventesimo secolo, lo psicologo canadese Donald O. Hebb elaborò a tale proposito una regola così formulata: «Cells that fire together wire together»,1 ovvero le cellule che scaricano insieme si legano insieme. L’apprendimento, dunque, avverrebbe tramite una forma di associazione. Se più cellule nervose vengono eccitate allo stesso tempo e sono collegate l’una all’altra, allora l’attivazione contemporanea dei neuroni rafforza il legame.
Sulle prime può sembrare una regola semplice e facile da capire. Riguarda il fatto che, imparando, associamo sempre cose diverse tra loro e colleghiamo ciò che compare allo stesso momento: caratteristiche a un oggetto, ad esempio nelle figure geometriche (gli angoli retti nei quadrati), o anche pioggia a strade bagnate, vocaboli a una determinata pronuncia, quadri alla firma di un particolare pittore e così via; si può pensare di tutto. Ora è possibile seguire la creazione di queste associazioni a livello molecolare: si rafforzano le sinapsi che collegano le nostre cellule nervose nella misura in cui scaricano insieme. E tale rafforzamento prevede diversi meccanismi.2 Ad esempio è possibile che si migliori la capacità di conduzione di canali già esistenti, cosa che può accadere tramite la loro fosforilazione.3 Inoltre, nel giro di minuti, nelle sinapsi da rafforzare vengono inseriti nuovi recettori, facendo in prima battuta ricorso a una riserva di recettori già esistenti.4 Se necessario, i recettori possono essere costruiti da zero, oppure, come si dice nel linguaggio tecnico, de novo. In alcune sinapsi è possibile rilasciare anche una maggiore quantità di neurotrasmettitori.5 C’è molto in gioco, spesso anche interazioni che possono diventare complesse. Il legame tra le cellule preposte all’apprendimento può però portare non solo al rafforzamento di sinapsi esistenti, ma anche alla creazione di nuove sinapsi.6 C’è persino la possibilità di creare nuove cellule – per lo meno in quella regione tanto importante per la nostra memoria che è l’ippocampo. Torneremo sull’argomento nel capitolo dedicato all’età.
Finora le cose sono ancora relativamente semplici da comprendere. L’apprendimento, per dirla in parole povere, c’entra con l’idea per cui le cose fatte per stare insieme vengono anche percepite come tali. A questo punto non è più così facile rispondere alla domanda su come sia possibile iniziare ad apprendere, ovvero a compiere il primo passo verso la formazione della memoria. Ogni giorno, dalla mattina alla sera, veniamo in contatto con una grande quantità di cose che si presentano alla nostra percezione come contemporanee o complementari, ma nonostante ciò siamo ben lontani dal notare tutto e conservarlo poi nella memoria. Operiamo senza dubbio una selezione, e l’apprendimento si innesca solo dopo aver superato determinati ostacoli. Questo accade ad esempio quando caratteristiche e oggetti continuano a ripresentarsi nella stessa maniera. Impariamo poesie a memoria perché le ripetiamo costantemente. Più leggiamo una determinata sequenza di parole, maggiore è la possibilità che, a un certo punto, saremo in grado di recitarla senza errori. Ciò accade perché a livello cellulare esistono meccanismi adatti allo scopo: dopo una certa quantità di ripetizioni, si supera un valore soglia che avvia l’effettivo meccanismo di apprendimento secondo Donald Hebb.
La ripetizione costante dello stesso procedimento è tuttavia solo una delle tante possibilità che possono innescare l’apprendimento. Può accadere infatti che entrino in gioco aspetti emotivi, come paura o ricompensa; anche la sorpresa o una nuova esperienza possono contribuire. Ciò con cui in quegli istanti entriamo in contatto si imprime meglio e più facilmente nella nostra memoria. Ecco perché ci ricordiamo con più facilità delle giornate particolarmente fortunate o disgraziate rispetto a quelle in cui non è successo nulla di eccezionale. A livello cellulare, questo significa che ora, per superare l’ostacolo decisivo all’apprendimento, sono attive diverse cellule di diverse reti e regioni cerebrali.
I due esempi appena scelti si adattano bene a uno schema evolutivo – anche l’apprendimento animale comincia con un procedimento di selezione simile. Sembra che ciò che si incontra spesso e regolarmente diventi prima o poi significativo, come tutto quello che ha a che fare con la paura, la fuga, la ricompensa e il fatto di semplificare la vita. In quanto esseri senzienti, tuttavia, per noi esistono anche altri stimoli che ci incoraggiano ad apprendere. A questo proposito, anche la storia personale di ciascuno di noi può giocare un ruolo fondamentale, così come possono farlo questioni di pensiero, di estetica e, in generale, tutto ciò che la storia della cultura ha reso accessibile alla nostra mente sotto forma di nuovi banchi di prova.
Dall’apprendimento passiamo ora al ricordo. Prima che si arrivi a una vera e propria rievocazione, entrano in gioco processi complessi che riguardano questioni gestionali. Ciò che viene appreso non può restare a lungo nel punto in cui è stato registrato la prima volta – o per lo meno non può restarci gran parte di esso –, e questo, tra l’altro, anche per questioni di spazio. Il nostro cervello, all’interno della corteccia cerebrale, dispone di una memoria di massa della capacità pari a circa due petabyte: uno spazio duemila volte più grande di quello disponibile sul computer con il quale viene ora scritto questo libro. In questa memoria deve essere trasferita o sovrascritta la maggior parte di quanto appreso. Come tutto ciò accada, e soprattutto quando, verrà approfondito nel prossimo capitolo, dove ci occuperemo dei sogni e del lavoro notturno della memoria. Ora è meglio limitarsi a uno schema di massima.
Particolarmente importante in questo contesto è la regione dell’ippocampo, di cui tratteremo ampiamente nel libro. Nell’essere umano l’ippocampo è composto da due strutture ricurve, lunghe diversi ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Premessa
  4. Introduzione
  5. La memoria geniale
  6. 1. La rivoluzione della memoria
  7. 2. Sognare e imparare nel sonno
  8. 3. Il sogno ad alte prestazioni
  9. 4. Illusioni e falsi ricordi
  10. 5. La memoria dei sentimenti
  11. 6. Memoria e invecchiamento
  12. 7. La memoria collettiva
  13. 8. Lo Human Brain Project
  14. Per concludere. Come la mente geniale ci accompagna nel futuro
  15. Note
  16. Indice