Il ritorno delle tribù
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Il ritorno delle tribù

La sfida dei nuovi clan all'ordine mondiale

  1. 240 pagine
  2. Italian
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Il ritorno delle tribù

La sfida dei nuovi clan all'ordine mondiale

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Dal Medioriente all'Europa fino all'America un nuovo fenomeno si impone portando alla ribalta nuovi leader che sono il riflesso di un meccanismo antico. Il tribalismo si esprime nel mondo arabo-musulmano con la decomposizione degli Stati nazionali per effetto di rivolte di matrice etnico-religiosa. In Occidente invece ha una genesi economica, frutto dello scontento dilagante per impoverimento e diseguaglianze che ha prodotto Brexit e consentito a Donald Trump di arrivare alla Casa Bianca. A generare questa fase di disgregazione che minaccia gli Stati nazionali sono problemi a cui le leadership politiche tardano a dare risposte efficaci: in Medioriente e Maghreb la sfida è trovare un nuovo equilibrio fra politica e fede così come in Occidente si tratta di sanare le ferite socio-economiche causate da una globalizzazione a ritmi forzati. L'importante è non farsi cogliere impreparati di fronte a questa fase di accelerazione della Storia, perché investe anche il nostro Paese, come dimostrano le cronache dell'ultimo anno. La frammentazione dei partiti politici tradizionali, l'affermazione di leader portatori di identità locali, i movimenti di protesta scaturiti dalle diseguaglianze economiche e dalla complicata gestione dell'accoglienza: sono tutti segnali di un cambiamento dello scenario sociale tradizionale dagli effetti imprevedibili. Maurizio Molinari, dopo averci aiutato a comprendere la guerra all'Occidente mossa dalla Jihad, delinea in questo libro un nuovo conflitto che ruota attorno a tribù differenti. Da Londra a Erbil, da Washington a Roma, dal Cairo a Gerusalemme, da Dubai a Bratislava, descrive una mutazione verso il tribalismo, "un vento della disgregazione che non solo travolge il mondo arabo ma spazza l'Europa spingendosi oltre la Manica e l'Atlantico, mettendo in crisi anche la stabilità del sistema liberale".

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2017
ISBN
9788858689479

PRIMA PARTE

Rivolte nell’Islam

Jihadisti sunniti

Uniti da un’ideologia apocalittica, convinti di poter sottomettere prima l’Islam e poi il mondo intero, portatori delle più sanguinarie forme di violenza e capaci di resistere agli attacchi militari delle maggiori potenze del Pianeta, i jihadisti sunniti appartengono a una galassia di sigle che rispetta regole e costumi delle tribù del deserto. Sono loro i protagonisti della più estesa rivolta in atto nel mondo islamico, innescata dalle rivoluzioni arabe iniziate nel 2011, e che punta ad abbattere governi e Stati al fine di ridisegnare l’intero assetto geopolitico dell’ampia area che da Gibilterra arriva ai confini con l’India.
Tribale è la loro fede assoluta nell’ideologia del Califfato ovvero la volontà di unificare l’Islam come avvenne solo alle origini, grazie alla predicazione del Profeta Maometto. Se all’epoca fu la nuova fede a pacificare le tribù della Penisola arabica, conferendo loro una forza che le rese in grado di dominare l’intera regione che si estende dal Marocco all’Asia Centrale, ora è il credo nel Califfo a cui viene affidato un intento simile: coalizzarsi per riuscire a sottomettere le popolazioni che vivono esattamente negli stessi territori.
Tribale è il modo in cui combattono, disperdendosi nel deserto per sfuggire ai raid aerei, riprendersi dalle sconfitte di terra e riorganizzarsi per tornare a colpire appena possibile. Per i jihadisti dello Stato Islamico (Isis), di al-Qaida, di Jabhat Fateh al-Sham, ex al-Nusra, e delle numerose altre sigle a loro apparentate, la guerra è uno status permanente destinato a rimanere tale fino alla vittoria finale. Perdere una città, un porto, una rotta carovaniera o un campo di pozzi di greggio è un episodio di importanza minore rispetto a ciò che più conta: reclutare combattenti a sufficienza per continuare a colpire, altrove o negli stessi luoghi poco importa.
L’idea di un conflitto immanente, fondato su gruppi numericamente ridotti che si spostano rapidi, saccheggiando e abbandonando i centri urbani, rientra nella tradizione delle guerre tribali perché ciò che più serve a chi le combatte sono le risorse per auto-rinnovarsi: uomini giovani per imbracciare le armi, donne schiavizzate per fare figli, luoghi sicuri dove accamparsi e attività commerciali di ogni tipo per arricchirsi.
Tribale è la gestione del denaro perché viene raccolto in qualsiasi maniera – razzie, dazi, sequestri, scambi, traffici – affinché alimenti i componenti dei clan jihadisti e consenta loro di avere lo strumento migliore per corrompere le tribù nemiche, rivali o semplicemente nomadi. Se nel Sinai l’esercito egiziano non riesce a sconfiggere Isis, in Israele i jihadisti reclutano soprattutto fra le comunità beduine del Negev e in Iraq è l’Anbar la loro roccaforte è perché le tribù nomadi sono vulnerabili alla corruzione con moneta sonante, grazie alla quale i jihadisti ottengono ogni sorta di servigi.
Tribali sono i costumi che i jihadisti impongono alle popolazioni che dominano. Coprire le donne con veli che non mostrano neanche occhi e naso è un costume che non nasce dal Corano ma i musulmani delle origini adottarono come convenzione dalle tribù della Penisola arabica. Alla stessa maniera, la vendetta per rimediare al disonore, il pagamento in sangue delle offese causate, la sottomissione assoluta delle donne, l’importanza del ruolo degli anziani, la lapidazione dei gay e l’obbligo per gli «infedeli» (ebrei e cristiani) di pagare tasse per poter sopravvivere sono costumi che risalgono all’Islam delle origini e devono molto all’influenza culturale dei clan pre-esistenti.
Tribale è il metodo con cui i jihadisti controllano i territori conquistati: distribuiscono cibo e acqua per far percepire un miglioramento immediato per tutti, uccidono o schiavizzano oppositori o infedeli per attestare il potere assoluto, demoliscono le vestigia delle civiltà pre-islamiche per «portare a termine il lavoro iniziato da Maometto» come Abu Bakr al-Baghdadi afferma. L’accanimento contro monumenti greci, romani, sufi, sumeri o di altre civiltà è uno dei principali momenti identitari del jihadismo sunnita perché offre alle tribù del deserto un obiettivo che le riporta all’Islam primitivo: distruggere ogni segno di presenza del paganesimo come neanche Maometto e i Califfi suoi successori seppero o vollero fare. È una maniera per attestare una fedeltà al verbo del Profeta che supera il Profeta stesso e consente a ogni jihadista di immergersi in una missione di correzione della Storia passata in cui vede un perfezionamento dell’Islam di oggi.
Il primo avversario delle tribù jihadiste sono gli Stati arabi nati con l’intesa di Sykes-Picot, ovvero gli accordi siglati il 16 maggio 1916 fra Francia e Inghilterra e resi esecutivi al termine della Prima guerra mondiale che andò a disegnare la mappa degli Stati arabi contemporanei, e poi moltiplicatisi durante la decolonizzazione dopo la fine del Secondo conflitto mondiale.
I leader di tali Stati sono percepiti – salvo poche eccezioni – come individui corrotti, insensibili al dolore e agli interessi dei propri popoli, espressione di ideologie europee – come il comunismo, secolarismo, consumismo o militarismo – considerate estranee all’Islam. L’obiettivo è travolgerli, polverizzare i confini tracciati con il righello fra le dune del deserto e creare un unico spazio per l’intera umma, la grande comunità dei fedeli. La dissoluzione degli Stati arabo-nazionali è un obiettivo parallelo alla guerra totale agli sciiti ovunque si trovino – a cominciare dall’Iran degli ayatollah – perché colpevoli della lacerazione dell’Islam sulla guida della discendenza di Maometto. L’obiettivo dei jihadisti sunniti è eliminare fisicamente tutti i circa centoventi milioni di sciiti presenti nel mondo arabo per poi dedicarsi alla sottomissione definitiva di ebrei e cristiani, destinati a pagare tasse per l’eternità al fine di aver garantito il basilare diritto a vivere.
Se questi sono identità e obiettivi dei jihadisti sunniti, perché attaccano i civili in Occidente – Europa e Stati Uniti – dunque in un’area fuori dal loro territorio di azione?
La risposta sta proprio nel sistema di valori della gente del deserto: si esercita la violenza più spietata contro il nemico giudicato più potente per vedersi riconosciuto in patria, dalla propria gente, il potere incontrastato. Osama bin Laden lancia l’11 settembre 2001 l’attacco contro Washington e New York perché convinto che sferrare un simile colpo al cuore dell’impero più potente e odiato gli assicuri la leadership nel mondo arabo e il rispetto di chiunque desideri cacciare gli Stati Uniti da Medio Oriente, Nordafrica e Golfo Persico. Abu Bakr al-Baghdadi vuole ereditare da Bin Laden – ucciso in un raid delle truppe speciali Usa in Pakistan il 2 maggio 2011 – la palma di leader jihadista e dunque lancia una campagna di attacchi sanguinosi contro obiettivi civili in Europa e Stati Uniti che lo trasforma in un polo di attrazione per migliaia di foreign fighters polverizzando le aspirazioni di Ayman al-Zawahiri, ex vice di Bin Laden, rintanato in un rifugio probabilmente ai confini fra Pakistan e Afghanistan.
A ben vedere è un metodo che ha un precedente illustre. Saddam Hussein, il dittatore iracheno simbolo del nazionalismo arabo avversario del jihadismo, credeva nella tattica di colpire l’Occidente per acquisire autorevolezza agli occhi di tutto l’umma; fu anche per questo che nel 1991 durante la Prima guerra del Golfo lanciò una pioggia di missili Scud contro le città di Israele, che non aveva partecipato all’operazione internazionale per la liberazione del Kuwait, così come tentò, il 13 aprile 1993, di organizzare un attentato contro il presidente americano George H. W. Bush al fine di eliminarlo.
L’idea di battersi contro l’avversario considerato più potente, al fine di legittimare il proprio potere, si richiama in ultima istanza al sultano Maometto II che conquistando nel 1453 Costantinopoli, capitale dell’Impero bizantino, polverizzò la super-potenza dell’epoca riuscendo ad assegnare all’Islam un’egemonia pressoché incontrastata.

La tattica del deserto

Se queste sono le caratteristiche che distinguono la galassia dei jihadisti sunniti, Abu Bakr al-Baghdadi, il Califfo dello Stato Islamico, può vantare una maggiore capacità militare ricorrendo a una tattica che trae origine dai conflitti del deserto. In particolare sono tre i tipi di armi che maneggia con grande efficacia.
Ne sono triste testimonianza la raffica di attentati e azioni militari che ha messo a segno in tre Continenti in appena ventuno giorni guadagnandosi il titolo di più spietato protagonista del passaggio dal 2016 al 2017. È un prepotente ritorno che smentisce chi lo aveva frettolosamente descritto in dissoluzione, travolto dalle pesanti sconfitte subite in Iraq, Siria e Libia nel corso del 2016.
L’analisi delle azioni jihadiste suggerisce che la forza del Califfato si genera da motivi convergenti che nascono proprio dalla sua natura tribale: abilità nella conduzione della guerra del deserto, presenza di efficienti network salafiti in più Paesi e una feroce carica ideologica.
L’abilità tattica è dimostrata da quanto avviene proprio in questi giorni a Palmira, dove Isis ha costretto temporaneamente alla fuga i reparti russi e siriani grazie a un attacco progressivo ovvero messo in atto con raid dalle periferie di piccole unità in rapido aumento, e da quanto sta avvenendo a Mosul, dove i jihadisti resistono all’assedio iniziato nell’ottobre 2016 da iracheni, curdi e milizie sciite grazie all’uso massiccio di cecchini e autobombe che fa strage degli uomini della «Golden Brigate» – le unità scelte di Baghdad – obbligando il premier sciita iracheno Haider al-Abadi a cambiare approccio, inviando in prima linea la polizia. A queste ammissioni di debolezza da parte di Baghdad, il Califfo reagisce moltiplicando gli attentati: con le autobombe nel mercato sciita del quartiere Sinak nella capitale e l’assalto a una base delle forze di polizia a Samarra per un bilancio di quasi cento morti che fa apparire le roccaforti del governo più vulnerabili di quelle jihadiste.
Nelle guerre del deserto il conflitto è costante, permanente, quasi uno stile di vita, non vi sono scontri decisivi e ciò che conta è fiaccare al massimo il nemico per guadagnare tempo e spazio: è una maniera di combattere tribale nella quale i jihadisti del Califfo eccellono, guidati da ex ufficiali di Saddam Hussein addestrati alla guerriglia che possono contare sulla manovalanza delle tribù sunnite dell’Anbar, timorose della pulizia etnica condotta contro di loro dai reparti sciiti che rispondono agli ordini di Qassem Soleimani, capo dell’iraniana Forza «al-Qods», ovvero le unità speciali dei Guardiani della Rivoluzione, la cui missione è operare all’estero per addestrare, armare e spesso guidare in battaglia milizie locali, composte unicamente da sciiti.
La natura della tipologia del combattimento è tribale per due motivi: da un lato il metodo con cui si attacca, per ottenere vantaggi limitati ma tali da mettere in difficoltà crescente l’avversario; e dall’altro la forza di aggregazione esercitata verso i sunniti intimoriti dall’avanzare dei rivali sciiti.
La presenza di network salafiti dormienti ed efficienti è dimostrata dall’attacco del 18 dicembre 2016 contro il castello di Karak, nella prima azione coordinata di un commando nella vulnerabile Giordania di re Abdallah, come anche dalla capacità dei singoli jihadisti di Berlino e Istanbul di colpire, sopravvivere all’attacco e darsi alla fuga grazie a una evidente rete di sostegni che attraversa l’intera Europa, dalla Manica al Bosforo.
Per non parlare degli attacchi a ripetizione degli al-Shabaab somali – che aderiscono a Isis – contro l’aeroporto di Mogadiscio adoperato dalle forze speciali anti-terrorismo di più Paesi occidentali.
È interessante notare come tali reti dormienti di jihadisti salafiti sommino la natura tribale del clan ristretto, guidato da un leader carismatico, a un metodo operativo mutuato dall’esperienza delle organizzazioni terroristiche della fine del Novecento: dall’Organizzazione per la liberazione della Palestina alle Brigate rosse italiane fino all’Irish Republican Army nordirlandese, ovvero pianificazione su obiettivi, attacchi e fuga.
Ma è il terzo elemento – la ferocia della carica ideologica – a indicare ciò che più sostiene il Califfato jihadista a dispetto delle ingenti perdite di territorio, uomini e mezzi subite da Ramadi a Tikrit, da Mosul fino a Sirte. A suggerire di cosa si tratta è la sequenza fra l’attentato di Anis Amri sulla Breitscheidplatz di Berlino il 19 dicembre 2016 e la strage al night club Reina di Istanbul nella notte del Capodanno seguente: il bilancio complessivo di almeno cinquantuno vittime e centoventicinque feriti nasce dalla volontà del Califfo di portare la morte in coincidenza con le feste che più rappresentano la Cristianità. Il Califfato impedisce di celebrarle sui propri territori perché le considera un’offesa all’Islam, e ora dimostra di riuscire ad aggredirle anche sui territori di Stati occidentali «infedeli» e musulmani «apostati». È come se la legge della jihad riuscisse a imporsi ovunque, umiliando i cristiani in Occidente come già avviene nel mondo arabo.
Nell’ottica della guerra tribale, riuscire a imporre la propria legge lontano dalle proprie terre implica un aumento della capacità di proiezione di potenza, destinata a incutere timore a ogni tipo di avversari. In questa maniera il Califfato rafforza la sua legittimità, basata sulla violenza, agli occhi dei seguaci e moltiplica la capacità di reclutamento da cui dipende la guerra permanente.
A confermare la capacità di penetrazione ideologica del Califfato c’è l’assassinio sempre il 19 dicembre ad Ankara dell’ambasciatore russo Andrej Karlov perché il killer, un ex agente della sicurezza di Recep Tayyp Erdoğan, prima di sparargli urla «Allah hu-Akbar» richiamandosi alle vittime di Aleppo, ovvero uno dei campi di battaglia jihadisti. Che il killer fosse o meno di Isis conta assai meno del fatto che ne ha de facto espresso il credo ideologico al momento del «martirio».
La campagna d’attacchi conferma quanto tali armi del Califfo siano efficaci e la strage di italiani a Dacca del 1° luglio 2016 è parte di questa offensiva che fa emergere Abu Muhammad al-Adnani nel ruolo di sanguinario leader di uno Stato Islamico in trasformazione.
Nato nella provincia siriana di Idlib fra il 1977 e il 1978, e cresciuto in quella irachena di Haditha, al-Adnani è considerato il capo delle operazioni militari di Isis in Siria nonché il portavoce e l’ideologo del Califfato proclamato da Abu Bakr al-Baghdadi il 29 giugno 2014. Fino alla sua eliminazione il 30 agosto 2016. È lui a pronunciare il discorso che delinea il cambiamento di strategia del Califfato: invoca attacchi «contro gli infedeli» nel mese di Ramadan e, rivolto ai nemici, afferma: «Potete anche prendere Sirte, Mosul e Raqqa ma noi torneremo alle origini della nostra jihad». Ciò significa che l’indebolimento territoriale di Isis, a causa delle sconfitte subite in Libia, Siria e Iraq, porta i jihadisti a tornare a preferire l’arma degli attentati ovunque possibile.
Arrivato alle soglie del quarto anno di vita, il Califfato si trasforma: sbiadiscono le fattezze di Stato totalitario e tornano a prevalere le caratteristiche di gruppo terroristico. A prendere sul serio il discorso di al-Adnani è John Brennan, direttore della Cia sotto il presidente Barack Obama, intervenendo davanti alla Commissione intelligence del Senato di Washington per affermare che «i successi ottenuti contro Isis sul fronte terrestre e finanziario non ne hanno fiaccato la capacità di colpire a livello globale» e l’«aumento della pressione militare» contro le rimanenti roccaforti in Medio Oriente e Nordafrica «porterà a un’intensificazione degli attacchi terroristici».
Questo è esattamente quanto avviene dall’inizio dell’ultimo mese di Ramadan, considerato il più sacro dai musulmani perché coincide con la rivelazione del Corano e spesso usato in passato da organizzazioni e gruppi jihadisti – come al-Qaida in Iraq di Abu Musab al-Zarqawi – per mettere a segno sanguinosi attacchi.
Si tratta di azioni di tipo diverso benché tutte portano al Califfato: nella notte tra l’11 e il 12 luglio a Orlando, in Florida, Omar Mateen massacra quarantanove persone in un night club frequentato da omosessuali proclamandosi «soldato di Isis»; il 14 giugno a Les Mureaux, Francia, Larossi Abdallah uccide il vicecapo della polizia; ai confini fra Siria e Giordania i jihadisti lanciano le prime autobombe contro truppe hashemite; a fine giugno in Libano attaccano villaggi cristiani lungo la frontiera; il 29 giugno all’aeroporto Atatürk di Istanbul un commando di origine centroasiatica uccide quarantacinque persone.
Se in Giordania, Libano e Bangladesh Isis rivendica gli attacchi, in Turchia la pista porta nella stessa direzione mentre nel caso di Orlando e Les Mureaux è l’emittente Al-Bayan, voce del Califfato, a vantarsi della paternità delle azioni messe a segno da «lupi solitari». D’altra parte lo stesso capo dell’Fbi, James Comey, afferma che «Mateen ha subito l’influenza di informazioni digitali» ovvero la propaganda di Isis sul web, a cominciare proprio dal discorso di al-Adnani.
Ecco perché il filo che unisce l’offensiva di tutti questi attacchi è quanto affermato dal leader jihadista siriano sul «mese sacro della lotta durante il quale dobbiamo portare ovunque la morte contro gli infedeli». Confermando la capacità dei jihadisti di adattarsi alle mutate situazioni tattiche al fine di continuare comunque a colpire: se al-Baghdadi dovesse morire avrebbe comunque un successore capace di continuare a combattere la jihad tribale.
Ecco perché il brutale massacro di occidentali – italiani inclusi – fra i tavoli dell’Holey Artisan Bakery di Dacca rivela l’entità di una minaccia globale: leader e miliziani jihadisti in ritirata da Ramadi, Fallujah o Sirte non svaniscono nel nulla né si considerano sconfitti, ma vogliono uccidere «infedeli e apostati» ovunque possono per per...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il ritorno delle tribù
  4. Dedica
  5. INTRODUZIONE. Il vento della disgregazione
  6. PRIMA PARTE. Rivolte nell’Islam
  7. SECONDA PARTE. Diseguaglianze in Occidente
  8. TERZA PARTE. Migranti nel Mediterraneo
  9. QUARTA PARTE. L’impatto sull’Italia
  10. CONCLUSIONE. La doppia sfida delle democrazie
  11. Note
  12. Atlante del ritorno delle tribù
  13. Indice