Il Grande Crollo
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Il Grande Crollo

Che cosa ci ha insegnato sul capitalismo la Grande depressione

  1. 240 pagine
  2. Italian
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Il Grande Crollo

Che cosa ci ha insegnato sul capitalismo la Grande depressione

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In un discorso pronunciato nel dicembre del 1928, il presidente degli Stati Uniti Coolidge affermò che il Paese poteva "considerare il presente con soddisfazione e il futuro con ottimismo": la Borsa andava a gonfie vele, le azioni crescevano e il denaro correva a fiumi. Eppure pochi mesi dopo una crisi economica senza precedenti travolse e gettò sul lastrico milioni di persone. In un'opera diventata un classico, il grande economista John Kenneth Galbraith ricostruisce le cause che portarono al più grande crollo finanziario del Novecento: dalle disuguaglianze nella distribuzione del reddito alle falle del sistema bancario, fino alla chimera della crescita infinita che illuse investitori e comuni cittadini, l'analisi di Galbraith rivela inquietanti analogie con la realtà attuale e ci permette di comprendere in prospettiva perché le bolle speculative che ancora distorcono la nostra economia scoppiano spesso senza allarmi, con conseguenze devastanti per tutti noi.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2017
ISBN
9788858688205
Argomento
Economia

Capitolo 1

“Visione, speranza e ottimismo sconfinati”

1.

Il 4 dicembre 1928 il presidente Coolidge inviò al Congresso riconvocato il suo ultimo messaggio sullo stato dell’Unione. Anche il più malinconico dei parlamentari doveva sentirsi rassicurato dalle sue parole. “Mai un Congresso degli Stati Uniti, riunendosi per esaminare lo stato dell’Unione, si è trovato di fronte a una prospettiva più gradita di quella che si presenta nel momento attuale. All’interno ci sono tranquillità e soddisfazione... e le cifre primato degli anni di prosperità. All’estero c’è pace, la buona volontà che deriva dalla comprensione reciproca...” Egli diceva ai legislatori che essi e il paese potevano “considerare il presente con soddisfazione e prevedere il futuro con ottimismo”. E, venendo decisamente meno alle più antiche delle nostre usanze politiche, egli evitava di attribuire il benessere all’eccellenza dell’amministrazione da lui capeggiata. “La causa principale di queste fortune senza precedenti risiede nell’integrità e nel carattere del popolo americano.”
Un’intera generazione di storici ha attaccato Coolidge per il superficiale ottimismo che gli impedì di vedere che una tremenda tempesta stava preparandosi all’interno e anche più lontano all’estero. Ciò è enormemente ingiusto. Non occorrono né coraggio né prescienza per predire il disastro. Il coraggio è necessario per affermare che le cose vanno bene, proprio nel momento in cui stanno andando bene. Gli storici si divertono a crocifiggere il falso profeta del millennio. Non insistono mai sull’errore dell’uomo che a torto predisse l’Armagheddon.
C’era molto di buono nel mondo di cui parlava Coolidge. Certo, come hanno ripetuto i misantropi liberali, i ricchi si arricchivano molto più rapidamente di quanto diminuisse la miseria dei poveri. Gli agricoltori eranso scontenti, com’erano stati sempre dopo che la depressione del 1920-21 aveva ridotto bruscamente i prezzi agricoli pur mantenendo elevati i costi. I negri nel sud e i bianchi negli Appalachi meridionali continuavano a vivere in disperata povertà. Belle case vecchio stile inglese con alti frontoni, finestre con vetri colorati e rivestimento esterno in legno sorgevano nelle zone più raffinate della campagna, mentre nel cuore delle città si incontravano i più disgustosi tuguri del mondo occidentale.
Malgrado tutto ciò, gli anni Venti in America furono un periodo veramente buono. La produzione e l’occupazione erano elevate e in aumento. I salari non salivano molto, ma i prezzi erano stabili. Benché molti fossero ancora poverissimi, un maggior numero di persone erano dotate di discreti mezzi, benestanti o ricche. Infine il capitalismo americano si trovava indubbiamente in una fase d’animazione. Fra il 1925 e il 1929 il numero delle aziende manifatturiere aumentò da 183.900 a 206.700; il valore della loro produzione salì da sessanta miliardi a sessantotto miliardi di dollari.1 L’indice della Riserva federale per la produzione industriale, che era sessantasette nel 1921 (1923-25 = 100), salì a 110 nel luglio del 1928, e raggiunse centoventisei nel giugno del 1929.2 Nel 1926 vennero prodotte 4.301.000 automobili. Tre anni dopo, nel 1929, la produzione aumentò di oltre un milione raggiungendo 5.358.000 unità,3 una cifra che regge perfettamente il confronto con quella (5.700.000) delle nuove auto registrate nell’opulento 1953. Gli utili delle aziende crescevano rapidamente, ed era un periodo propizio al commercio. In effetti, anche le storie dell’epoca più prevenute ammettono, tacitamente, che i tempi erano buoni, dato che quasi tutte sono concordi nel biasimare Coolidge per la sua incapacità di vedere che andava troppo bene per durare.
Sull’idea dell’esistenza di una ferrea legge di compensazione, secondo cui i grassi anni Venti dovevano essere pagati con i magri anni Trenta, bisognerà ritornare.

2.

Una cosa negli anni Venti sarebbe dovuta balzare anche all’occhio di Coolidge. Riguardava il popolo americano del cui carattere egli aveva parlato così bene. Accanto alle genuine qualità da lui elogiate, esso andava manifestando anche un desiderio smodato di arricchirsi alla svelta col minimo di fatica fisica. La prima sorprendente manifestazione di questo lato della sua personalità aveva avuto luogo in Florida, dove a metà degli anni Venti Miami, Miami Beach, Coral Gables, la costa orientale verso nord fino a Palm Beach e le città sul Golfo erano state colpite dal grande boom immobiliare. Il boom della Florida conteneva tutti gli elementi della classica chimera speculativa. C’era l’indispensabile elemento di sostanza. La Florida aveva un clima invernale migliore di New York, Chicago e Minneapolis. I redditi più elevati e le migliori comunicazioni stavano rendendola sempre più facilmente raggiungibile dal gelido Nord. Stava in effetti per giungere il tempo in cui la fuga annuale verso il Sud sarebbe stata regolare e impressionante come le migrazioni dell’oca del Canadà.
Su quell’indispensabile dato di fatto la gente aveva provveduto a costruire un mondo di finzione speculativa. Era un mondo abitato non da persone che dovevano essere persuase, ma da persone che volevano un pretesto per credere. Nel caso della Florida esse volevano credere che l’intera penisola sarebbe stata ben presto popolata dai villeggianti e dagli adoratori del sole di una nuova era estremamente pigra. Tale sarebbe stato l’affollamento che spiagge, acquitrini, paludi e macchia avrebbero tutti avuto un valore. Il clima della Florida naturalmente non garantiva che ciò sarebbe avvenuto. Ma bastava a far sì che la gente che voleva crederlo ci credesse.
Comunque, la speculazione non dipende interamente dalla capacità d’illusione. In Florida la terra venne divisa in aree fabbricabili e venduta contro pagamento in contanti del dieci per cento. Evidentemente, gran parte del brutto terreno che aveva così cambiato proprietario era ripugnante tanto per chi l’aveva comprato quanto per il passante. Gli acquirenti non pensavano di viverci; era arduo presumere che avrebbe voluto viverci qualche altro. Ma queste erano considerazioni accademiche. La realtà era che questa proprietà di dubbio pregio continuava ad acquistare valore giorno per giorno e poteva essere venduta con un buon margine dopo un paio di settimane. Un’altra caratteristica dell’inclinazione speculativa è che, col passare del tempo, diminuisce enormemente la tendenza a cercare oltre il semplice fatto dell’incremento di valore le ragioni sui cui esso è basato. E uno non ha motivo di farlo finché l’afflusso della gente che compra con la prospettiva di rivendere subito con un profitto continua ad aumentare a un ritmo così rapido da mantenere i prezzi in ascesa.
Nel corso del 1925 la ricerca della facile ricchezza portò in Florida un numero crescente di persone. Ogni settimana una maggiore superficie di terreno venne suddivisa. Quel che veniva con termine vago chiamato lido giunse a indicare località a cinque, dieci, quindici miglia dalla più vicina acqua di mare. Sobborghi diventarono anche zone a incredibile distanza dalle città. Col diffondersi della speculazione verso nord, un intraprendente bostoniano, Charles Ponzi, creò un frazionamento “vicino a Jacksonville”. Esso si trovava a circa sessantacinque miglia a ovest della città. (Per altro verso, Ponzi credeva nello stretto buon vicinato: e ricavò ventitré lotti per ogni acro [circa quattromila metri quadri].) In certi casi in cui il frazionamento era vicinissimo alla città, come ad esempio in quello dei Manhattan Estates, che si trovavano a “non più di tre quarti di miglio dalla prospera città di Nettie in rapido sviluppo”, la città, che sarebbe stata Nettie, non esisteva. La congestione del traffico nello stato diventò così grave che nell’autunno del 1925 le ferrovie furono costrette a introdurre un divieto per le merci meno essenziali, fra cui i materiali da costruzione per la sistemazione dei frazionamenti. I valori salirono in modo stupefacente. Nelle quaranta miglia di zona “interna” di Miami i lotti venivano venduti a cifre comprese fra ottomila e ventimila dollari; i lotti in riva al mare fruttavano da quindicimila a venticinquemila dollari, e le località più o meno genuinamente litoranee da ventimila a settantacinquemila.4
Tuttavia, nella primavera del 1926, cominciò a venir meno l’afflusso di nuovi compratori, così essenziale alla realtà dei prezzi crescenti. Come avrebbero dimostrato il 1928 e il 1929, lo slancio suscitato da un grosso boom non si dissolve in un attimo. Per un po’ nel 1926 la crescente eloquenza dei promotori servì a compensare la diminuzione nell’offerta di prospettive. (Persino la voce episcopale di William Jennings Bryan,5 che un tempo aveva tuonato contro la croce d’oro, fu per un certo periodo messa al servizio della meschina impresa di vendere terreno paludoso.) Ma il boom non ebbe il tempo di crollare da solo sotto il suo peso. Nell’autunno del 1926, due uragani mostrarono, come ha scritto Frederick Lewis Allen, “cosa poteva fare un carezzevole vento tropicale quando partiva di scatto dalle Indie Occidentali”.6 Il peggiore di questi venti, il 18 settembre 1926, uccise quattrocento persone, strappò i tetti da migliaia di case e ammucchiò tonnellate d’acqua ed eleganti yachts sulle strade di Miami. Si riconobbe concordemente che l’uragano aveva provocato un salutare attimo di tregua nel boom, benché si predicesse quotidianamente la sua ripresa. Nel “Wall Street Journal” dell’8 ottobre 1926 un certo Peter O. Knight, funzionario della Seaboard Air Line sinceramente convinto del futuro della Florida, ammetteva che diciassette o diciottomila persone avevano bisogno di assistenza. Ma aggiungeva: “La Florida è ancora lì con le sue splendide risorse, il suo meraviglioso clima e la sua posizione geografica. È la Riviera d’America”. Ed esprimeva la sua preoccupazione perché, secondo lui, la richiesta di fondi alla Croce Rossa per i soccorsi resi necessari dall’uragano avrebbe “causato alla Florida un danno permanente maggiore di quello compensato dai fondi ricevuti”.7
Questa riluttanza ad ammettere che ormai è giunta la fine è pure conforme al modello classico. La fine era giunta in Florida. Nel 1925 le operazioni bancarie a Miami avevano ammontato a 1.066.528.000 dollari; nel 1928 scesero a 143.364.000.8 Gli agricoltori che avevano venduto la loro terra a un discreto prezzo, e si erano poi maledetti vedendola rivendere per due, tre, quattro volte il prezzo originario, in certe occasioni se la ripresero grazie a tutta una catena di successive inadempienze. In più di un caso essa era fornita di vie dai nomi magniloquenti, di marciapiedi, d’illuminazione, e d’imposte e accertamenti per parecchie volte il suo valore corrente.
Il boom della Florida fu il primo segno dello stato d’animo degli anni Venti e della convinzione che fosse nel disegno di Dio l’arricchimento della classe media americana. Era però ancora più degno di nota il fatto che lo stato d’animo sopravvivesse al tracollo della Florida. Ci si rendeva largamente conto che le cose erano andate a rotoli in Florida. Se il numero degli speculatori era stato quasi certamente esiguo rispetto alla successiva partecipazione al mercato azionario, pressoché ogni comunità contava una persona nota per aver preso “una buona suonata” in Florida. Per tutto un secolo dopo il tracollo della Bolla del Mare del Sud, gli inglesi guardarono con un certo sospetto anche le società per azioni più rispettabili. Malgrado lo sgonfiamento del boom della Florida, invece, la fiducia degli americani in un rapido, facile arricchimento in borsa diventava ogni giorno più evidente.

3.

È difficile dire quando ebbe inizio il boom azionario degli anni Venti. Esistevano valide ragioni perché, durante quegli anni, i prezzi delle azioni ordinarie salissero. Gli utili societari erano buoni e per di più in aumento. Le prospettive sembravano favorevoli. All’inizio del decennio le quotazioni dei titoli erano basse e i redditi vantaggiosi.
Negli ultimi sei mesi del 1924, i prezzi dei titoli cominciarono a salire, e il rialzo continuò e si estese nel corso del 1925. Così alla fine di maggio del 1924, la media del “New York Times” per i prezzi di venticinque titoli industriali era di 106; alla fine dell’anno era di 134.9 Da allora al 31 dicembre 1925 essa guadagnò quasi altri 50 punti raggiungendo quota 181. Il progresso nel corso del 1925 era stato notevolmente costante; soltanto in un paio di mesi non si era verificato un incremento netto nei valori.
Durante il 1926 ci fu un certo regresso. Il commercio fu un po’ fiacco nella prima parte dell’anno; molti pensarono che i valori fossero saliti in modo irragionevole l’anno prima. Febbraio portò un brusco ribasso sul mercato, e marzo poi una caduta piuttosto precipitosa. I titoli industriali dell’indice “New York Times” scesero da 181 dell’inizio dell’anno a 172 di fine febbraio, e poi a fine marzo persero quasi 30 punti cadendo a 143. Tuttavia, in aprile il mercato si stabilizzò e riprese la sua marcia in avanti. Un altro lieve regresso si verificò in ottobre, immediatamente dopo che l’uragano aveva spazzato via le ultime tracce del boom della Florida, ma anche questa volta si ebbe una pronta ripresa. Alla fine dell’anno i valori erano suppergiù sulle stesse posizioni occupate all’inizio.
Nel 1927 cominciò sul serio l’aumento. I prezzi delle azioni salirono di giorno in giorno e di mese in mese. Gli incrementi non erano forti secondo i criteri successivi, ma avevano un aspetto di notevole attendibilità. Anche quell’anno soltanto in due mesi le medie non presentarono un aumento. Il 20 maggio, quando Lindbergh decollò da Roosevelt Field puntando su Parigi, un discreto numero di cittadini ignorò l’avvenimento. Il mercato, che quel giorno registrò un altro dei suoi aumenti, piccoli ma solidi, si era ormai conquistato una fedele schiera di devoti che non prestavano alcuna attenzione alle cose celesti.
Nell’estate del 1927 Henry Ford fece calare il sipario sull’immortale modello T e chiuse i suoi impianti per preparare il modello A. L’indice della Riserva federale per la produzione industriale diminuì, presumibilmente in seguito alla chiusura della Ford, e si parlò dappertutto di depressione. L’effetto sul mercato fu impercettibile. Alla fine dell’anno, quando ormai anche la produzione aveva ripreso a salire, i titoli industriali del “New York Times” raggiunsero quota 245, con un incremento di 69 punti in un anno.
Il 1927 è un anno storico da un altro punto di vista nella tradizione del mercato azionario. Stando a un’opinione a lungo accettata, fu in quell’anno che vennero seminati i germi del memorabile disastro. La colpa sarebbe stata di un atto di generoso, ma sconsiderato internazionalismo. Alcuni, fra cui Hoover, lo giudicarono quasi in termini di slealtà, benché a quei tempi le accuse di tradimento venissero formulate ancora con un certa cautela.
Nel 1925, sotto l’egida dell’allora cancelliere dello scacchiere Winston Churchill, la Gran Bretagna era ritornata alla parità aurea del vecchio rapporto, precedente alla prima guerra mondiale, fra oro, dollaro e sterlina. Senza dubbio Churchill era stato più impressionato dalla posizione maestosa della sterlina tradizionale, della sterlina da 4,86 dollari, che dalle più sottili conseguenze della sopravvalutazione che, come si ritiene largamente, egli non avrebbe afferrato. Le conseguenze, comunque, furono reali e gravi. I clienti della Gran Bretagna dovettero ora usare queste sterline più care per l’acquisto di merci a prezzi che ancora riflettevano l’inflazione del tempo di guerra. La Gran Bretagna diventò, quindi, un mercato poco attraente per gli acquisti degli stranieri. Per lo stesso motivo diventò invece un posto favorevole alla vendita. Nel 1925 ebbe inizio la lunga serie di crisi valutarie che, come i leoni di Trafalgar Square e le passeggiatrici di Piccadilly, formano ormai parte integrante della scena inglese. Ci furono per di più spiacevoli conseguenze all’interno; la situazione critica del carbone e il tentativo di ridurre costi e prezzi per far fronte alla concorrenza mondiale portarono allo sciopero generale del 1926.
Allora, come poi in seguito, l’oro fuggito dalla Gran Bretagna e dall’Europa affluì negli Stati Uniti. Si...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione: Uno sguardo dagli anni Novanta
  4. Capitolo 1: “Visione, speranza e ottimismo sconfinati”
  5. Capitolo 2: Bisogna fare qualcosa?
  6. Capitolo 3: Abbiamo fede nella Goldman Sachs
  7. Capitolo 4: Il crepuscolo dell’illusione
  8. Capitolo 5: Il crollo
  9. Capitolo 6: La situazione si aggrava
  10. Capitolo 7: Ulteriori effetti. I
  11. Capitolo 8: Ulteriori effetti. II
  12. Capitolo 9: Cause e conseguenze
  13. SOMMARIO