La musica fa crescere i pomodori
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La musica fa crescere i pomodori

Il suono, le piante e Mozart: la mia vita in ascolto dell'armonia naturale

  1. 238 pagine
  2. Italian
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La musica fa crescere i pomodori

Il suono, le piante e Mozart: la mia vita in ascolto dell'armonia naturale

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La scoperta della musica davanti alla porta (chiusa) della cameretta del fratello maggiore; i primi concerti, ai matrimoni, con il professore di latino; il cabaret con i Trettré nella Napoli fervida degli anni Settanta, quella della Smorfia di Massimo Troisi, quando ancora era uno studente di architettura (ma cos'è l'architettura se non musica congelata, diceva Goethe). E poi l'incontro con Gino Paoli, il primo Sanremo nel 1986 sotto la neve con Zucchero, il "pronti-partenza-via" con Elio e le Storie Tese dieci anni dopo, la partecipazione ad Amici di Maria De Filippi, fino all'hashtag diventato virale nei giorni del Festival 2016, #usciteVessicchio.Ma dal giorno in cui una goccia d'olio si stacca da una pizza mangiata fortunosamente in macchina e cade beffarda sui suoi pantaloni, Peppe Vessicchio ha iniziato a domandarsi se la musica fosse tutta lì. O se piuttosto non fosse giunto il momento di smontare il giocattolo per capirne il meccanismo; per realizzare fino a che punto può arrivare il suo potere benefico; per verificare se, considerato che le mucche del Wisconsin producono più latte ascoltando Mozart, tutti gli organismi viventi reagiscono positivamente quando gli armonici si combinano in modo naturale. Musica armonico-naturale, appunto. Questa è la forma che insegue Vessicchio. Questa è la base dei suoi esperimenti sulla terra, sul vino, e di quelli appena cominciati sugli uomini. La musica fa crescere i pomodori, nato dalle conversazioni con Angelo Carotenuto, è un saggio pop autobiografico ricco, profondo e divertente sul talento, sulla passione e la capacità di trasferirla, sulla cura, sugli effetti straordinari dell'armonia nelle nostre vite.

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Informazioni

1

L’inizio prima dell’inizio

L’osservazione

Caro amico mio, come ti accennai a Sanremo durante il nostro primo incontro, nella verandina dell’hotel che guardava il mare, da ragazzo ho vissuto la musica come una grande speranza. Quando non puoi avere una cosa come davvero la desideri, finisci per idealizzarla. Succede nelle attrazioni fatali. Sono felice che tu voglia saperne di più. Speriamo proprio di rivederci presto: ti racconterò come tutto è cominciato.
Un abbraccio, Peppe
Io di qua, lei di là. Quando ci siamo conosciuti, fra me e la musica c’erano una porta chiusa, una maniglia e una serratura.
Ogni suono che vibra produce una fascinazione. Guardate cosa diventano gli occhi dei bambini dinanzi a un mazzo di chiavi che tintinna, sospeso nell’aria. È quella la prima magia a cui gli pare di assistere. Così finisce che noi adulti ne approfittiamo: usiamo un suono per distrarli, per tenerli buoni o anche solo per rasserenarli. Il primo rapporto con la musica di questo è fatto: una inconsapevole sottomissione al suo potere di seduzione. È il cedimento a un enigma, a un mistero, a un fenomeno che ci pare incomprensibile.
In casa mia, l’oscurità della musica se ne stava serrata oltre la porta della camera di mio fratello Pasquale. Io avevo undici anni, lui dieci più di me. Pasquale andava a chiudersi di solito dentro la stanza in compagnia di un amico di nome Stefano. Volevano farci credere di prepararsi per le lezioni del giorno dopo a scuola ma, senza nessun dubbio, quello che chiamavano studio suonava proprio come una chitarra. Questi loro incontri avevano la capacità di produrre un incanto evidente finanche a me che ne restavo tagliato fuori. Così correvo in cucina a spifferare tutto a mia madre, la quale si sfilava il grembiule, si armava di santa pazienza e bussava a quella porta, a metà tra un atteggiamento di rassegnazione e un’offerta di clemenza.
«Lo so che non state studiando.»
Tirava un sospiro e scongiurava.
«Almeno fatelo entrare, sennò questo fa il pazzo.»
Ero una spia, non un disturbatore. Una volta violato il bunker di Pasquale, sapevo come comportarmi. Me ne rimanevo buono e silenzioso in un angolo, mi bastava osservare. Stefano aveva un’impostazione da chitarrista classico. Uno dei pezzi di primo livello per chi all’epoca si avvicinasse allo strumento era Giochi proibiti. Il brano perfetto in quella situazione: per loro che suonavano anziché studiare, per me che abitavo quel luogo quasi da clandestino. Non c’era forse nulla di più pruriginoso ai miei occhi di bambino. È un pezzo, quello – oggi lo so – in cui la chitarra suona nella sua interezza, per via di un meccanismo misto di arpeggio e melodia. Ma allora si trattava di una novità sconvolgente per me che avevo sempre e solo sentito la chitarra in accompagnamento a una voce, a un canto. Stavolta invece bastava a se stessa: era insieme il corpo e l’anima di un uomo, il motore e la carrozzeria di una macchina, il guscio e il gheriglio di una noce. Mi piaceva da morire.
La distanza d’età con mio fratello e una leggera conflittualità date le circostanze – ero pur sempre il piccolo che andava a rompere le scatole – non mi metteva però nella condizione di chiedere né di ricevere lezioni da lui. Lo ammiravo, lo ascoltavo cantare, sentivo bene che sapeva trasferire la sua gioia agli altri. Ma era comunque lassù, irraggiungibile, o peggio ancora: inavvicinabile.
Quando cantava – e ancora oggi è così – Pasquale viveva una gioia in grado di diffondere intorno a sé un piacere dal quale gli altri non potevano fare a meno di essere contagiati. Io l’ho sempre definito un “portatore sano di musica”. Non è il suo lavoro eppure non pensa ad altro. Sa suonare tre strumenti. Se hai una passione tanto grande in casa, finisci per trasmetterla.
Anche mia sorella Maria aveva una bella voce. Durante i nostri viaggi in macchina, era stata lei a insegnarmi armonizzazioni molto semplici su arie di canzoni popolari. Eppure tra lei e la musica era sorta una specie di barriera, probabilmente figlia di un piccolo trauma vissuto da ragazzina, durante il periodo in cui in genere la voce si trasforma. Nell’eseguire qualcosa in pubblico – un pubblico familiare, intendo – dovette avere la percezione che qualcosa fosse andato storto: così, per quel singolo evento, sancì in maniera autonoma di non essere idonea a esibirsi, né ad approfondire la conoscenza della materia.
La scena domestica, in questo modo, rimaneva a esclusivo appannaggio di mio fratello. Esclusivo fino a un certo punto.
Le cose cambiarono quando un ginocchio si ammalò. Era un infortunio che mi costringeva periodicamente a letto. Un giorno venne a tenermi compagnia un cugino, Mimmo, tenente dell’aeronautica, ma anche lui chitarrista e cantante.
«Come stai, come passi il tempo, cosa fai?»
C’era una sola parola che in italiano sintetizzava tutto: noia.
«Perché non ne approfitti e impari a suonare la chitarra? Ti mostro io qualcosa di semplicissimo.»
Cominciammo in quel modo lì. Doveva servire a tirarmi su. Mimmo mi insegnò le prime posizioni maccheroniche, gli accordi, insomma i rudimenti essenziali per iniziare a tirar fuori un suono da quell’arnese di legno. Fu la prima volta in cui stabilivo con una chitarra un vero contatto fisico, fino a quel momento c’erano stati solo sguardi, e tutto questo succedeva a letto. Più attrazione fatale di così… Impiegai un attimo a rendermi conto della grande virtù di quell’incontro. Le ore volavano. Le lunghe attese, una volta tremende, con la chitarra tra le mani non esistevano più. La noia era sparita, neppure mi accorgevo che passassero le giornate. In pochissimo tempo divenni padrone del meccanismo dei tasti e delle corde. Iniziai a tracciarmi una serie di relazioni, per cui dai pochi accordi che Mimmo mi aveva insegnato riuscii a trarre le varie forme maggiori e minori, con l’aggiunta delle settime e delle settime di dominante, su tutta la tastiera e in tutte le tonalità. Avevo undici anni, ma era come nascere di nuovo.
Un po’ alla volta ho scoperto il rapporto matematico che esiste tra le note. Tu prendi degli elementi posizionati con una logica all’interno di un insieme, li sposti su un’altra scala e il loro rapporto rimane invariato: non c’era bisogno di imparare altri accordi. Sapevo come ricavarli da solo, analizzando le relazioni che esistono tra le note.
Fu come una personale scoperta dell’America. Si aprì un mondo. Sia chiaro: a scuola la matematica mi piaceva, nel senso che non avevo problemi alle interrogazioni o ai compiti scritti, eppure nessun insegnante era riuscito a trasferirmi in modo tanto chiaro il concetto per cui alla base di tutto c’è la logica. I numeri da soli non avevano mai avuto il fascino che all’improvviso si manifestava attraverso le note.
Mi resi conto che la musica sapeva fornire un mucchio di opportunità di gioco. Quando più in là mi sarei imbattuto nel canone inverso di Bach, avrei finito quasi per piangere nel cogliere come un uomo fosse riuscito a penetrare la materia dal punto di vista espressivo e allo stesso tempo dal punto di vista teorico e numerico. È la stessa capacità che i poeti mettono in campo con le parole. Quando Rimbaud accosta i colori alle vocali, riesce a tener vivo un gioco intellettuale componendo rime comunque straordinarie. La sua intuizione teorica non arriva a sopraffare la lirica, e viceversa.
Grazie a Mimmo e al mio ginocchio, nel mio piccolo ero finalmente entrato in possesso anch’io delle chiavi di quel gioco. Il tempo era arrivato. Potevo finalmente imparare Giochi proibiti.
Mio fratello nel frattempo aveva comprato il disco di Narciso Yepes, il musicista spagnolo autore della trascrizione per chitarra di questa vecchia composizione chiamata Romance, poi diventata colonna sonora del film di un regista francese, René Clément, dal titolo Jeux interdits, e perciò da quel momento Giochi proibiti. Un disco che avrei finito quasi per consumare. Ascoltandolo e riascoltandolo, seguendo il mio orecchio e l’intuito, sarei riuscito piano piano a dedurre le posizioni delle dita sulle corde e a eseguire quel pezzo che per tanto tempo era stata un’eco soffocata dentro una stanza chiusa. Adesso finalmente ce l’avevo sotto le mani.
Trascorrevo le mie vacanze da ragazzo a Lago Patria, una delle piccole località che s’affacciano sul litorale domizio, l’antica Liternum dei Romani, dove si dice avesse una villa Scipione l’Africano, che lì andò a ritirarsi in seguito alla rottura con il Senato e con Catone.
In quegli anni giocavo spesso a pallone con Fabrizio Berlincioni, che a vent’anni avrebbe scritto Non lo faccio più per Peppino Di Capri, poi Mi manchi e Ti lascerò per Fausto Leali, e un mucchio di altre canzoni per Celentano, Mina, Massimo Ranieri. Ma delle mie estati d’allora a Lago Patria faceva parte soprattutto un ragazzo di nome Ubaldo, che studiava chitarra classica con il maestro Continisio. E fu con lui che potei fare un primo raffronto tra ciò che avevo dedotto grazie all’orecchio e quello che era trascritto su carta, sullo spartito che lui invece sapeva leggere già. Avrei così scoperto che nella mia ricostruzione di Giochi proibiti ero stato fedele: cambiava casomai la diteggiatura, cioè la posizione delle dita lungo il manico della chitarra. Non avendo alcuna conoscenza tecnica, mi ero preoccupato solo di riprodurre i suoni, rinunciando alla logica della comodità. Avevo a disposizione quattro dita – per la chitarra il pollice non si conta giacché rimane dietro il manico – ma non sapevo come usarle tutte. La distanza fra loro, il movimento lungo la tastiera, i passaggi da un tasto all’altro: era, questa, un’altra forma di logica di cui avrei dovuto impadronirmi.
In quello stesso periodo, una delle figlie di mia cugina prendeva lezioni di piano. Abitava nel quartiere Bagnoli, non molto distante da casa mia: il rione Cavalleggeri. È la zona occidentale di Napoli, l’area dell’acciaieria, dove l’Italsider nata a inizio Novecento e dismessa negli anni ’90 stava modificando per sempre quel pezzo di paradiso terrestre sistemato sotto la collina di Posillipo, nel golfo di Pozzuoli, di fronte all’isola di Ischia. Sono cresciuto avendo davanti agli occhi un’utopia contronatura, un panorama ambientale sepolto da uno industriale. La spiaggia di catrame, il mare come una vasca di ruggine, il cielo che diventava rosso all’improvviso, non per il tramonto, ma per l’effetto delle colate di acciaio liquido dalle siviere.
Le fiammate spaccavano le nuvole e il silenzio anche alle dieci di sera. Potevi tenere le finestre di casa chiuse quanto volevi, ma all’interno sarebbe comunque entrata quella strana polvere fatta di calamite a palline. L’altoforno ci restituiva senza tregua un odore di ferro bruciato, le nostre giornate erano scandite dalle sirene del cambio turno della fabbrica, ed eravamo come abituati a quello che pareva un innocente spettacolo di luci e rumori.
Avremmo scoperto con il tempo che innocente non era. Come innocente non era la costruzione dei giocattoli con lastre di amianto della più vicina Eternit: non potevamo permetterci di comprare il compensato per lavorarlo con il seghetto da traforo, come ci chiedevano i professori a scuola. Rincorrevo il pallone fra pagliuzze e cumuli di lana che parevano neve, e come me i miei amici. Molti di loro non ci sono più.
Asbestosi, mesotelioma della pleura. Nomi che allora non mi dicevano nulla, ma non li ho scordati più. Ho fatto uno screening anch’io all’Istituto dei tumori, mi hanno definito una bomba a orologeria, ma non mi spaventa. Ho imparato che la storia della “mens sana in corpore sano” non è del tutto autentica. Una mente sana non deve temere neppure un corpo che s’ammala. I fachiri possono dormire su un letto di chiodi o passeggiare su carboni ardenti: quando sei in pace con te stesso, nemmeno un veleno è in grado di ucciderti.
Bagnoli per me non era ancora sinonimo della fabbrica che con sé portava coscienza civile e faceva da baluardo alla criminalità. Bagnoli era ancora soltanto il pianoforte della figlia di mia cugina. Nel suo stesso palazzo abitava peraltro una ragazza che mi piaceva, e tanto. Il richiamo era duplice e due misteri impastati assieme possono essere una miscela esplosiva su un dodicenne.
Un adolescente non cerca l’amore, un adolescente cerca risposte. Magari può finire per alzare un muro fra sé e il mondo, ma dietro quel muro un mondo vuole costruirselo. Da solo e per intero. Nel mio mondo che lentamente prendeva corpo entrò l’insegnante di piano di mia cugina. Nel tentativo di mostrare il valore della lettura di uno spartito, mi fece ascoltare una trascrizione a cura di George Shearing, un pianista inglese di jazz non vedente dalla nascita. Era I’m in the Mood for Love, che con un testo in italiano io conoscevo come Quando ti stringi a me. La cantavano Bobby Solo e Claudio Villa.
Quando sentii per la prima volta la realizzazione armonica della melodia e il modo in cui era stata organizzata per pianoforte, mi dissi che avrei dovuto impararla. Ovviamente era una prova enorme per un ragazzino agli inizi. Tutto quello che piano piano imparavo a leggere dallo spartito, cercavo di tradurlo in musica con la chitarra. Ma la chitarra ha una limitazione di soluzioni polifoniche rispetto al pianoforte. Il movimento contemporaneo di più suoni era il nuovo giocattolo da smontare, studiare e capire. Un accordo fermo e una melodia che si muove: semplice, primordiale, efficace. Ma era molto più interessante osservare un meccanismo in cui tutto si muove cercando di favorire, e non ostacolare, le altre parti. Pensate a una persona che nel silenzio e nell’immobilismo di altre dieci si alza e dice la sua. È già un’immagine potente. Ma è ancora più efficace se le altre dieci persone partecipano e sostengono la voce solista, senza intralciarla.
Dinanzi alla scoperta della polifonia, dunque, la chitarra non bastava più. Ma restava lo strumento per me più abbordabile. Intanto perché il pianoforte in casa continuavo a non averlo. E poi perché al piano devi aver voglia di andare. Devi sederti là, di fronte a lui. La chitarra invece la portavo anche in bagno. Non la suonavo certamente nelle posizioni più corrette, ma esistono momenti in cui l’ortodossia è un ostacolo. Non sono nato in una famiglia che a cinque anni mi ha messo un elegante violino tra le mani, tracciandomi così la via della disciplina per mezzo di un insegnante che veniva a casa con cadenza settimanale: non ho mai avuto tutto questo. In casa mia la musica era entrata per sentieri più popolari e viscerali. Mio fratello ci aveva investito per davvero. Era stato lui a comprare la prima chitarra, era stato il primo a volere una fisarmonica. Non so se io sarei stato capace di farlo. Ma lo benedico per avermi fatto trovare un giorno dentro una casa in cui c’erano due strumenti. In uno dei flash della mia infanzia ci siamo mio fratello e io che cantiamo Dove sta Zazà, con certe zie a fare il coro. Ci costruimmo un piccolo repertorio. Mio padre amava sentire Chella llà, mia madre chiedeva Tutta pe’ mme.
La fisarmonica, ecco. Metterci le mani sopra fu come entrare in una realtà abitata dagli alieni. La destra avanzava secondo una logica progressiva fra le note: Do, Re, Mi, Fa, Sol, La, Si, Do. La sinistra invece seguiva tasti che parevano senza alcuna logica, nella discesa verso tonalità più basse: Do, Fa, Si bemolle, Mi bemolle; nella risalita: Do, Sol, Re, La, Mi, Si. Questa disposizione per intervalli di quarta o di quinta, secondo il verso in cui si procede, era senza alcun dubbio un’altra oscurità che andava indagata. Non ho impiegato poco. Gli studi musicali mi avrebbero portato a conoscere il circolo delle quinte solo dopo alcuni anni. Magari avessi potuto avere all’epoca certe nozioni teoriche. Mi resi appena conto che le note gestite dalla mano sinistra erano combinate per un altro tipo di vicinanza: quella armonica. Se i chitarristi della mia età ragionavano per posizioni nel trasporre un pezzo in un’altra tonalità, io, grazie alla fisarmonica e alla sua struttura di cui non conoscevo il nome né la teoria, potevo ragionare per impianto: perciò quando c’era da scalare un brano dal Do al Sol, non mi guidavano più le posizioni delle mani.
Ecco dove mi aveva portato l’osservazione attraverso l’ascolto e attraverso lo sguardo, senza dottrina, senza ancora una scienza. Ero andato oltre l’idea che le cose accadono. Adesso sapevo perché.

2

Il Mi minore

La vibrazione

Forse te ne accennai l’ultima volta che ci siamo scambiati una mail, ma io credo che le note di una polifonia siano come elementi chimici con specifiche valenze e che quando i legami sono giustamente rispettati ne viene fuori un composto, una medicina che interagisce con le nostre cellule, con gli atomi da cui siamo costituiti, influenzando le loro funzioni.
Il legame armonico che ogni nota dichiara di avere non è dovuto solo alla singola frequenza che rappresenta, ma alla funzione che di volta in volta assume in un insieme. Il suo comportamento ritmico, la sua durata, la provenienza del suo cammino e la sua rotta ci rivelano le sue possibilità di unione con altre note. Quando ci vedremo la prossima volta, ricordami di sottoporti a una piccola prova, per capire la tua chimica musicale.
Ti saluto, Peppe
È a questo che serve uno strumento. A tenerti compagnia. Non ti lascia, non ti tradisce, non ti abbandona. Riempie i buchi che all’improvviso scopri di avere. Ti impedisce di scivolarci dentro. ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La musica fa crescere i pomodori
  4. Introduzione
  5. 1. L’inizio prima dell’inizio
  6. 2. Il Mi minore
  7. 3. Le notti insonni dell’architetto
  8. 4. La bacchetta non è magica
  9. 5. Pronti, partenza, via
  10. 6. Reginella
  11. 7. La costruzione dei mattoncini
  12. 8. On a Dark Desert Highway
  13. 9. La goccia d’olio della pizza
  14. 10. Nella serra con Mozart
  15. 11. Le frequenze del vino
  16. Epilogo
  17. Ringraziamenti
  18. Indice