Il tramonto della politica
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Il tramonto della politica

Considerazioni sul futuro del mondo

  1. 288 pagine
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Il tramonto della politica

Considerazioni sul futuro del mondo

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Nel mondo del Ventunesimo secolo sono esplose tensioni forse tra le più laceranti della storia: il contrasto tra la globalizzazione, e la crisi economica che ne è conseguita, e le istanze locali delle forze del passato; le migrazioni delle masse di poveri che premono alle porte del ricco Occidente; lo scontro tra le forme della cultura e la tradizione occidentale, che sino a poco tempo fa poteva considerarsi dominante, e il terrorismo di matrice islamica. A questi problemi la politica non è in grado di offrire soluzioni efficaci: non sul piano internazionale, dove ogni forma di cooperazione tra Stati viene messa in seria discussione, né all'interno dei singoli Paesi, dove ha ceduto all'economia la gestione della società, limitandosi a garantire il funzionamento del mercato. In relazione a questo quadro Emanuele Severino riprende e sviluppa qui temi a lui cari come il rapporto tra politica, tecnica e filosofia e propone una chiave di lettura per smascherare il significato profondo della volontà di disfarsi di quella adesione alla verità assoluta che il tempo presente vuole abbandonare. In questo processo il capitalismo, per trionfare sui propri nemici, dopo aver emarginato la politica, deve sfruttare a fondo le potenzialità della tecnica, la quale è divenuta sempre più forte e ora da serva si sta trasformando in padrona, svuotando il capitalismo del suo scopo e conducendolo quindi alla morte. Quello che oggi ci pare uno scontro epocale tra valori è in realtà soltanto l'espressione di una battaglia di retroguardia, tra le diverse "verità" che intendono piegare il mondo alla loro visione ma che in realtà sono tutte destinate a essere sconfitte dall'avvento della tecnica, che potrà compiersi pienamente solo quando quest'ultima potrà godere del sostegno della filosofia e raggiungere il proprio scopo: realizzare tutto quanto è possibile.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2017
ISBN
9788858689417
Parte seconda

21

Riforma costituzionale e «politica»*

Che, votando per il «Sì», la Costituzione debba essere cambiata in un certo modo è un’ipotesi. Certo, le forze politiche da cui è sostenuta la considerano una proposta sostanzialmente adeguata ai bisogni della società italiana e capace di risolvere certi suoi importanti problemi. Ma è un’ipotesi, perché è il risultato di un compromesso. E inevitabilmente. Gli avversari sostengono che le forze di governo hanno lavorato troppo poco per un compromesso soddisfacente, ossia per la condivisione più ampia possibile da parte delle opposizioni. Tuttavia, per quanto ridotto, esso c’è stato. E un compromesso è voler tenere insieme posizioni antitetiche; ossia è una contraddizione più o meno vistosa. Appunto per questo ho affermato che, dicendo «Sì» a quel certo modo di cambiare la Costituzione, si approva un’ipotesi. La quale dunque non può escludere che esistano altri modi e motivi di stare per il «Sì», senza condividere quelli proposti dal governo. Proprio perché le ragioni del «Sì» (come quelle del «No») non sono indiscutibili, la propensione per il cambiamento della Costituzione si distingue cioè dalla propensione per le ragioni con le quali oggi il «Sì» viene sollecitato. Inoltre, tali ragioni essendo un compromesso, nemmeno i loro sostenitori ottengono, in caso di vittoria, quel che avrebbero voluto ottenere.
D’altra parte, venendo ai sostenitori del «No», come pensano di ottenere – oggi o domani – quella condivisione più ampia possibile da avversari che, secondo questi stessi sostenitori, mostrano di non darle troppa importanza? Credono forse che quanto i loro avversari non sono disposti a concedere loro siano invece disposti a concederlo quando fossero essi, i sostenitori del «No», a proporre il loro modo di intervenire sul testo della Costituzione? Intendo dire che nemmeno i sostenitori del «No» potrebbero ottenere quella condivisione più ampia possibile che da essi viene perorata. Pertanto, se volessero essere coerenti, dovrebbero rinunciare al cambiamento (o non cambiamento) costituzionale da essi preferito. Se cioè, come condizione sine qua non, richiedono la maggior condivisione possibile, ogni modifica costituzionale verrebbe in tal modo indefinitamente differita e quindi bloccata. Oppure, voltando le spalle alla coerenza, dovrebbero rassegnarsi a un cambiamento che avrebbe lo stesso vizio da essi riscontrato nei sostenitori del «Sì», e cioè la mancanza di un’ampia condivisione. (E anche se i sostenitori del «No» e di una forma diversa di cambiamento ottenessero una più ampia condivisione, anche questo, e a maggior ragione, sarebbe un compromesso che non darebbe loro ciò che avrebbero voluto.) D’altronde, la Costituzione va cambiata perché, a sua volta, di contraddizioni ne contiene (e vistose); alcune delle quali sono state indicate anche da me, soprattutto quelle relative all’articolo 7, che dovrebbe regolare i rapporti tra Stato italiano e Chiesa cattolica.
I teorici del «No» affermano inoltre che la riforma costituzionale proposta dal governo è dannosa perché, oltre alla debolezza giuridica di certi suoi contenuti (che indubbiamente sussiste), indebolisce anche la democrazia italiana. Non sembra però che quei teorici ritengano che la indebolisca fino al punto da eliminare ogni futura consultazione elettorale con cui la maggioranza, delusa dall’attuale governo, possa deporlo. In democrazia i danni sono tali in quanto vengono percepiti come tali dalla gente. Quindi, nel caso di una vittoria del «Sì», se l’elettorato ne avvertisse come dannose le conseguenze, una futura consultazione elettorale gli consentirebbe di rimettere le cose a posto, ossia di mandare al governo la formazione politica che avrà convinto gli elettori della propria capacità di rimediare ai danni prodotti dall’eventuale vittoria del «Sì» in autunno. E peraltro, in un mondo sempre più pericoloso, non è forse richiesto un controllo tale della società, che riduce inevitabilmente le libertà democratiche, anche se i politici possono non rendersi conto di tale inevitabilità?
Il «Sì» dà troppo potere al governo attuale – si obietta –, che diventa determinante nella elezione del Presidente della Repubblica, nella formazione della Corte Costituzionale ecc. L’obiezione, insieme ad altre che in questi giorni si sentono ripetere, ha la sua consistenza. È però difficile accantonare l’impressione che alla radice di tutte queste obiezioni agisca la rivendicazione del primato autentico della politica contro una forma di governo che afferma sì di essere d’accordo su tale rivendicazione, ma che in realtà sta accentuando la propria dipendenza dai poteri economici, ossia dal sistema capitalistico.
Vorrei, allora, richiamare una dimensione concettuale che, mi sembra, è trascurata dalle pur alte competenze giuridiche dei costituzionalisti favorevoli al «No». Vado richiamando da tempo l’«inevitabilità» della sequenza, di carattere planetario, che dal tempo del primato della politica sull’economia conduce al rovesciamento dove è l’economia ad avere il primato sulla politica, e infine al tempo – di cui già si avvertono consistenti avvisaglie – dove sarà la tecnica ad avere il primato sull’economia (e sulla politica). Che la tecnica abbia questo primato significa che sarà la tecnica a poter rendere il mondo meno pericoloso e che per farlo dovrà tenere sotto controllo (e quindi limitare) la domanda di democrazia.
La nostra è l’epoca della specializzazione scientifica, quindi anche giuridica; ma la scienza è diventata specializzazione proprio per sbloccare le paralisi dell’agire umano, ossia per aumentare la potenza dell’uomo, paralizzata invece dai Limiti che le grandi forme della tradizione le impongono. Se però la specializzazione è praticata in modo da farle perdere di vista il contesto in cui essa si trova, essa diventa un fattore bloccante, riduce la potenza dell’uomo. Ora, il contesto dei contesti, nel mondo attuale, è la sequenza a cui ho accennato: quella che dal primato della politica conduce al primato della tecnica. In questa situazione, ogni rivendicazione del primato della politica ha la pretesa di risalire la corrente, è cioè una lotta di retroguardia. La stessa economia capitalistica, che ancora domina il mondo, ha istituito rapporti tali, con l’Apparato tecno-scientifico, che fanno trasparire la destinazione al dominio da parte di quest’ultimo.
La cautela con cui si procede nelle riforme costituzionali è dovuta all’esigenza che non vadano perduti certi valori imprescindibili contenuti nella Costituzione italiana, soprattutto quelli riguardanti i diritti dell’uomo. Ma la destinazione al dominio della tecnica è insieme la formazione di un diverso modo di essere uomo, diverso dalle interpretazioni che dell’essere uomo sono state date lungo la storia dell’Occidente: cristiana, rinascimentale, illuminista, capitalistica, comunista ecc. La gran questione è allora se una Costituzione, mostrando di difendere i diritti umani – e dando a questo suo intento un’impronta decisamente giusnaturalistica – non abbia invece a difendere una di quelle interpretazioni, lasciando sullo sfondo il senso autentico che l’essere uomo ha assunto lungo la storia dell’Occidente. Giacché dubbi in proposito se ne possono e se ne debbono avere, visto che tutte le leggi – e soprattutto la Grundnorm in cui la Costituzione di uno Stato consiste – sono scritte dai vincitori (sempre poco propensi a ottenere la condivisione dei vinti). A chiarimento di quanto ho asserito, concludo dicendo che quel che ho chiamato «senso autentico» dell’essere uomo è sotteso (restandone variamente alterato) a tutte le interpretazioni che se ne sono date, ed è l’uomo come forza cosciente capace di coordinare mezzi in vista della produzione di scopi. Ciò significa che, al di là di ogni superfetazione, l’uomo è un essere tecnico. Infatti l’essenza della tecnica, quindi anche della tecnica guidata dalla scienza moderna, è appunto e innanzitutto quella capacità di coordinamento.
* Articolo pubblicato sul «Corriere della Sera» il 26 giugno 2016.

22

Vicende italiane*

Le spiegazioni della crisi del nostro tempo rimangono molto in superficie anche quando vogliono andare in profondità. Il fenomeno di fondo, che non viene adeguatamente affrontato, è l’abbandono dei valori della tradizione occidentale; e questo mentre le forme della modernità dell’Occidente si sono affermate ovunque. Un abbandono che si porta via ogni forma di assoluto, e innanzitutto Dio. «Dio è morto», si dice. Ma non basta dirlo. Non si scorge l’inarrestabilità della forza che conduce a quell’abbandono e a questa morte. Anche perché spesso i morenti sembrano riprendersi, dare segni di guarigione. La trasformazione epocale di cui parlo non è indolore: il vecchio ordine non intende morire. Ma è sempre più incapace di funzionare, soprattutto in paesi come l’Italia. E il nuovo ordine non ha ancora preso le redini. È la fase più pericolosa, non solo per l’Italia.
Muore ogni forma di assolutezza e di assolutismo; dunque anche quella forma di assoluto che è lo Stato moderno, per quanto giunto a detenere «il monopolio legittimo della violenza» (Weber). Questo grande turbine, che si porta via tutte le forme della tradizione, è guidato dalla tecnica moderna. Si tratta però di capire che esso è irresistibile non in quanto si presenta nell’immagine tecnicistico-scientistica oggi predominante, ma nella misura in cui esso ascolta la voce che proviene dal sottosuolo del pensiero filosofico del nostro tempo o, propriamente, dal sottosuolo filosofico del nostro tempo. È inevitabile che il turbine che travolge anche le strutture statuali investa innanzitutto le forme più deboli di Stato. La vita sociale, anche in Italia, non è più adeguatamente garantita. La protesta è inevitabile, la situazione potrebbe peggiorare. La «politica» autentica del nostro tempo consiste nel capire la radicalità della trasformazione in atto sul Pianeta, cioè «deve» lasciare la guida alla razionalità scientifico-tecnologica, destinata a imporsi con la morte del vecchio mondo. Ma tale «dovere» non è un compito che può essere come non essere eseguito, bensì è la necessità che la politica autentica – la «grande politica» – abbia a imporsi.
L’Italia è uno Stato debole anche perché è acerbo. Ha poco più di 150 anni. Ma soprattutto ha alle proprie spalle una storia di frazionamento politico-economico-sociale, dove si sono imposte forze che hanno avuto nel mondo un peso ben maggiore di quello dell’Italia unita. Si pensi, ad esempio, allo Stato pontificio. La sua storia attraversa l’intera storia europea: qualcosa di molto più consistente e visibile dello Stato italiano. (Non mi sembra un caso che Putin venendo in Italia vada prima dal Papa, nel centro mondiale della cattolicità, e solo dopo da tutti gli altri.) Un secondo esempio, la Repubblica di Venezia. A suo tempo era l’equivalente dell’Inghilterra del XIX secolo. Potenze, dunque, che non solo sono state al centro della vita mondiale, ma hanno organizzato la società in modo che lo Stato italiano sarebbe poi stato avvertito come un corpo estraneo da gran parte della popolazione della Penisola. Di qui il marcato individualismo degli Italiani.
La «novità» del nostro Stato è tra i principali motivi per cui non abbiamo un senso dello Stato come in altri paesi dove lo Stato esiste da secoli. Ma un secondo motivo – tra i molti che potrebbero essere ricordati – è che durante la Guerra fredda l’Italia ha avuto il più forte partito comunista dell’Occidente: il PCI è arrivato quasi al potere e in un modo democratico. E la spaccatura tra gli Italiani è stata profonda, ancora più profonda di quella determinata dalla «semplice» lotta di classe. Si verificarono due processi, diciamo concorrenti: da un lato il PCI stava diventando un partito socialdemocratico (quindi meno pericoloso, più accettabile dal mondo occidentale); dall’altro lato il PCI riceveva un crescente consenso elettorale che lo portava alle soglie del governo. Il problema era fare in modo che il primo processo fosse più veloce del secondo. Altrimenti si sarebbe scatenata una reazione violenta del mondo occidentale che non avrebbe consentito a un’Italia guidata dal PCI di entrare nella sfera di influenza sovietica.
La marcia del comunismo verso la socialdemocrazia è peraltro uno degli esempi rilevanti di quello che chiamo «il tramonto degli immutabili» (cioè degli «dèi»). Il PCI era radicato nel marxismo, cioè, innanzitutto, in una filosofia. La cui crisi è iniziata quando la sinistra europea – si pensi ad esempio a Rudolf Hilferding – ha incominciato a spingere il comunismo da una gestione filosofica a una scientifica del movimento rivoluzionario, trasformandolo, appunto, in socialdemocrazia (cfr. E.S. Téchne. Le radici della violenza, Rusconi, 1979, 4a ed. Rizzoli, 2010). (Ma ormai la sinistra, non solo italiana, non è più nemmeno socialdemocrazia, che mirava all’abolizione delle classi e del capitalismo per via democratica. Ormai anche il PD è lontanissimo da queste aspirazioni, immerso com’è nella fede, peraltro diffusissima, della validità dell’organizzazione capitalista della società.) Tuttavia anche il capitalismo ha alle spalle una visione filosofica, prevalentemente assolutistica, del mondo (individuo e proprietà come valori assoluti). Gli si fa torto quando lo si tratta come un semplice mezzo per aumentare il profitto (sebbene, allontanandosi a sua volta dalla dimensione filosofico-assolutistica, vada assumendo il carattere di «esperimento» aperto agli esiti più diversi, penso a Keynes e a Schumpeter). In Italia il capitalismo è più debole; ma la presenza dell’assolutismo cattolico e, fino a ieri, di quello comunista fa sì che l’abbandono della tradizione abbia da noi un maggiore effetto traumatico rispetto ad altri paesi.
La mancanza di senso dello Stato porta con sé individualismo esasperato e corruzione. In Italia, dopo la Seconda guerra mondiale, questi fenomeni sono stati favoriti e accentuati dalla situazione storica. La contrapposizione tra blocco sovietico e blocco occidentale significava mors tua, vita mea, e per salvare la vita ogni espediente diventa lecito. Penso alla sostanziale «alleanza» tra Stati Uniti e mafia: meglio stare con i delinquenti non comunisti che con i comunisti. Inoltre il denaro americano arrivava soprattutto per aiutare i partiti anticomunisti; ma la gestione politica di questo denaro non poteva essere un fatto pubblico; inevitabile, allora, la collusione tra Stato e illegalità. Che è sopravvissuta anche dopo la fine dell’URSS.
D’altra parte la magistratura è stata ingenua nel voler assumere un atteggiamento all’insegna del fiat iustitia et pereat mundus: il mondo capitalistico. Ingenua cioè a pensare di poter spingere fino in fondo – fino alla struttura capitalistica della nostra società – le indagini sulle responsabilità e illegalità prodottesi dalla inevitabile collusione tra Stato e criminalità. Un esempio potrebbe essere Tangentopoli. Ma vado anche più in là: mi riferisco al mondo capitalistico come tale. La magistratura ha voluto fare qualcosa che non era accaduto nemmeno con la fine del fascismo. Togliatti non ha incriminato i funzionari e la classe dirigente del fascismo. Ha scelto l’amnistia. Intendo dire che il capitalismo ha vinto la Guerra fredda; ed è stato ingenuo credere di poter trattare dal puro punto di vista giudiziario i risvolti penali di un fenomeno storico di questa portata. È vero che nel nostro sistema giudiziario l’azione penale è obbligatoria. E questo produce un dramma! Non sto dicendo che lo si sarebbe potuto evitare. Il giudice è ovviamente obbligato a indagare e a dare sanzioni, ma è anche ovvio che il vincitore – il capitalismo – non accetta di essere punito per aver usato mezzi che gli hanno consentito di vincere il nemico mortale. Aggiungo che venticinque anni fa scrivevo che era meglio che la Fininvest fosse scesa in campo politicamente, piuttosto che tenere del tutto nell’ombra il proprio operare. Meglio questo di una destra che agisce con lo stile della P2. Meglio, per l’Italia, che esprima pubblicamente i propri progetti, almeno in parte. Ma proprio perché ho scritto libri come Il declino del capitalismo e Capitalismo senza futuro (Rizzoli, 1993, 2012) quanto sto dicendo non può passare per un’apologia del capitalismo e delle sue degenerazioni. Non è nemmeno un’apologia del marxismo. È la constatazione di alcuni dei fattori per i quali la destinazione della tecnica al dominio del mondo produce in Italia una crisi più grave che altrove.
(Senza dimenticare le tragedie e gli scompensi prodotti dalla dittatura fascista. Ma qui vorrei ricordare che se Giovanni Gentile è riconosciuto come la figura più profonda del fascismo, non era Gentile a essere fascista, ma – come amo dire – il fascismo a tentare di essere gentiliano. Gli scritti politici di Gentile considerano il fascismo come un «esperimento», non certo come un assetto assoluto e immodificabile. Egli è stato uno dei grandi gestori del «grande turbine» di cui parlavo prima: il suo pensiero non solo è profondamente antiassolutista e antitotalitario – Mussolini non lo capiva – ma è il pensiero di uno dei rari abitatori di ciò che ho chiamato il «sottosuolo filosofico del nostro tempo». Certo, egli aveva anche visto nel fascismo l’occasione per realizzare la sua riforma della scuola; un’ottima riforma, per quell’Italia. Oggi – anche qui, per la debolezza delle nostre strutture statali – si fanno tra l’altro concorsi universitari dove si applicano disposizioni pateticamente dipendenti dalla cultura inglese e americana. Anche l’idea di studiare la filosofia da un punto di vista storico è stata sua: un’idea rovinata dai manuali che non hanno capito che cosa sia un storia filosofica della filosofia.)
La tecnica non ha nulla a che vedere con i cosiddetti «governi tecnici». Già una quindicina d’anni fa avevo cr...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il tramonto della politica
  4. Avvertenza
  5. Parte prima
  6. Parte seconda
  7. Indice