La stanza di ossidiana
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La stanza di ossidiana

  1. 406 pagine
  2. Italian
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La stanza di ossidiana

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Informazioni sul libro

L'agente speciale Aloysius Pendergast è disperso. Il suo corpo non è ancora stato individuato e col passare dei giorni la speranza di trovarlo vivo sembra affievolirsi sempre di più. Constance, la sua storica assistente, è annichilita dal dolore e cerca conforto rifugiandosi nelle stanze sotterranee della residenza di famiglia di Riverside Drive; a niente servono le attenzioni di Proctor, la fedele guardia del corpo di Pendergast, che tenta di rassicurarla. Nella casa, però, un'ombra è in agguato. Una figura sinistra e minacciosa, che emerge dal passato e che all'improvviso trascina Constance via con sé. Proctor si lancia in un inseguimento mozzafiato sulle tracce del rapitore fin nei luoghi più remoti e lontani, dalla Mauritania alla Namibia al Botswana. Eppure, proprio nel momento in cui l'uomo sembra avvicinarsi alla soluzione, tutto si ribalta e un altro complesso ingranaggio comincia a muoversi: dov'è la vera Constance? Il rapitore non ha forse un volto conosciuto?La stanza di ossidiana è una caccia all'uomo travolgente e adrenalinica, capace di condurre il lettore attraverso una serie di camere vuote, dentro un labirinto impossibile in cui la soluzione, l'uscita, la fine sperata sembra essere sempre dietro l'angolo.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2017
ISBN
9788858689042

1

Proctor riemerse lentamente da profondità oscure, puntando la superficie della coscienza. Un viaggio lungo, che sembrò non terminare mai. Finalmente riuscì ad aprire gli occhi. Aveva le palpebre pesanti, difficile non cedere alla tentazione di richiuderle. Che cos’era successo? Per qualche secondo restò immobile, a guardarsi intorno. Poi, si rese conto che si trovava disteso sul pavimento del suo salotto.
Il suo salotto.
Ho molte altre cose da fare...
All’improvviso, il ricordo di quanto era accaduto lo travolse. Cercò a fatica di tirarsi in piedi, ma senza riuscirci. Provò di nuovo, mettendoci ancora più impegno, e riuscì quanto meno a mettersi seduto. Il suo corpo sembrava un sacco di patate.
Guardò l’orologio. Le undici e un quarto del mattino. Era stato privo di sensi per circa trenta minuti.
Trenta minuti. Non riusciva neanche a immaginare cosa potesse essere successo nel frattempo.
Ho molte altre cose da fare...
Con uno sforzo eroico, Proctor si mise in piedi barcollando. La stanza vorticava e dovette aggrapparsi a un tavolo per non perdere l’equilibrio; scosse con forza la testa, nel tentativo di schiarirsi le idee. Si concentrò per un attimo, cercando di raccogliere le facoltà, mentali e fisiche. Poi aprì il cassetto della scrivania, tirò fuori una Glock 22 e la infilò nella cintura.
La porta che dava accesso alle sue stanze era spalancata, da lì riusciva a vedere il corridoio centrale degli alloggi della servitù. Si fece strada verso la soglia dell’appartamento reggendosi agli infissi, poi si trascinò pesantemente lungo il corridoio, come ubriaco. Raggiunse la stretta scala sul retro, si aggrappò con forza alla ringhiera e, parte camminando parte vacillando, scese le due rampe di gradini che conducevano al pianterreno. Lo sforzo immane, insieme al senso di pericolo incombente, lo aiutarono a recuperare lucidità e prontezza. Aprì la porta al termine del breve corridoio che aveva imboccato e si trovò all’ingresso degli spazi comuni.
Qui si fermò, pronto a chiamare la signora Trask. Poi ci ripensò. Annunciare la propria presenza non sembrava una mossa granché astuta. Inoltre, con ogni probabilità la signora Trask era già partita per andare a trovare la sorella malata ad Albany. E, in ogni caso, non era lei la persona in grave pericolo. Bensì Constance.
Proctor avanzò, posando un piede sul pavimento in marmo, pronto a entrare nella biblioteca, prendere l’ascensore per i sotterranei e fare tutto ciò che era in suo potere per proteggere la ragazza. Ma una volta sulla soglia si fermò. Dentro, un tavolo era stato ribaltato, e libri e documenti giacevano sparsi ovunque sulla moquette.
Si guardò intorno, rapidamente. Alla sua destra, la maestosa sala ricevimenti della dimora, con le pareti tappezzate di vetrinette piene di oggetti rari e preziosi, era stata messa a soqquadro. Un piedistallo era stato rovesciato, e con esso l’antica urna cineraria etrusca che vi si trovava sopra, ora in frantumi sul pavimento. Il grande vaso al centro della stanza, pieno di fiori freschi che la signora Trask cambiava ogni mattina, era riverso sul marmo, distrutto: rose e gigli erano sparsi ovunque in piccole pozze d’acqua. In fondo al salone, accanto alla porta che dava sulla sala da pranzo, una vetrinetta era spalancata e con un’anta ciondolante, quasi divelta. Pareva che qualcuno vi si fosse aggrappato, per poi essere trascinato via.
Tutti segni fin troppo evidenti che, lì, c’era stata una violenta colluttazione. Dalla biblioteca fino alla sala ricevimenti, le tracce continuavano conducendo al portone principale della dimora. E si perdevano all’esterno.
Proctor attraversò di corsa la grande sala ed entrò nella stanza da pranzo adiacente. Il lungo tavolo cui Constance era solita sedere per condurre le proprie ricerche sulla famiglia di Pendergast era un disastro: libri e documenti sparsi ovunque, sedie ribaltate, il computer portatile capovolto. In fondo alla sala, dove un breve corridoio conduceva nell’atrio di casa, Proctor intravide l’indizio più preoccupante: il pesante portone d’ingresso, che veniva sbloccato di rado e quasi mai aperto, era socchiuso e lasciava trapelare la luce intensa della tarda mattinata.
Mentre registrava questi indizi con angoscia crescente sentì provenire dall’esterno il suono attutito di una voce femminile che gridava in cerca d’aiuto.
Ignorando il senso di vertigine che non lo aveva ancora del tutto abbandonato, attraversò di corsa la stanza sfilando la Glock dalla cintura. Passò veloce sotto l’arco che immetteva nell’atrio, sferrò un calcio al portone per spalancarlo e si fermò sotto il lungo porticato esterno, guardandosi intorno.
Di fronte a lui, in fondo al vialetto, una Lincoln Navigator dai finestrini oscurati era in attesa davanti a Riverside Drive. Lo sportello posteriore più vicino era aperto e appena fuori c’era Constance, i polsi legati dietro la schiena. Non riusciva a vederle il viso perché la ragazza stava lottando disperatamente per liberarsi, ma Proctor non ebbe dubbi: il caschetto di capelli scuri e il Burberry color oliva erano inconfondibili. Un uomo, anche lui di spalle, le teneva una mano sulla testa e la stava spingendo con violenza sui sedili posteriori, per poi chiudere con forza la portiera.
Proctor sollevò la pistola e fece fuoco, ma l’altro saltò sul cofano dell’auto e rientrò dalla parte del conducente, schivando la pallottola per un soffio. Il secondo colpo rimbalzò contro il vetro antiproiettile nel momento esatto in cui la macchina accelerò, stridendo e sbandando lungo la via. Attraverso i vetri scuri Proctor intuì ancora il profilo di Constance, che continuava a dibattersi sul sedile posteriore. L’auto si allontanò fulminea sul viale e sparì.
Poco prima di saltare a bordo, l’assalitore si era voltato verso Proctor e i due si erano fissati. Il viso pallido e squadrato, la barba ben curata, i capelli fulvi, gli occhi gelidi e crudeli di due colori diversi... Impossibile sbagliarsi: quell’uomo era Diogenes, fratello di Pendergast e suo nemico spietato, che tutti avevano creduto morto per mano di Constance più di tre anni prima.
Ma adesso era ricomparso. E aveva preso Constance.
Lo sguardo di Diogenes, carico di ferocia e scintillante di odio e trionfo, era talmente spaventoso che, per un breve istante, persino lo stoico Proctor si sentì inerme. Ma la sensazione di impotenza durò pochissimo e, scuotendosi di dosso tanto la paura quanto ciò che rimaneva del sedativo, si lanciò all’inseguimento dell’auto, correndo lungo il vialetto e saltando la siepe di confine in un solo balzo.

2

Da giovane, Proctor era stato un corridore eccezionale: durante l’addestramento a Fort Benning aveva stabilito un record di resistenza rimasto imbattuto. Da allora si era sempre mantenuto al massimo della sua forma, e adesso stava inseguendo la Lincoln a grande velocità. L’auto, un isolato più in là, stava rallentando davanti a un semaforo rosso. Proctor colmò la distanza in soli quindici secondi. Ma non appena raggiunse il veicolo, scattò il verde e la macchina sfrecciò via.
Piantando i piedi sull’asfalto, Proctor puntò la Glock contro gli pneumatici posteriori dell’auto e sparò due colpi, uno a sinistra e l’altro a destra. Le pallottole andarono a segno e le ruote sbandarono, tremando per l’impatto. Ma un attimo dopo tornarono a irrigidirsi con uno scoppio. Gomme autogonfiabili. La Lincoln, con Diogenes al volante, scartò l’auto che aveva davanti e accelerò sulla Riverside, facendosi largo in mezzo al traffico.
A quel punto Proctor si voltò e ricominciò a correre in direzione della grande casa, infilandosi nuovamente la pistola nella cintura e prendendo il cellulare. Non conosceva bene i contatti di Pendergast all’FBI, inoltre quella era una situazione in cui l’intervento dell’Agenzia avrebbe solo rallentato le cose. Meglio rivolgersi alle forze dell’ordine locale. Chiamò il 911.
«Nove uno uno, qual è l’emergenza?» rispose una voce femminile. Nel frattempo, Proctor aveva raggiunto la villa, era entrato dalla porta principale e aveva attraversato in fretta gli spazi comuni per raggiungere il retro dell’edificio. Per una questione di sicurezza, il suo telefono era collegato a generalità e indirizzo falsi, e sapeva bene che quelle informazioni erano già comparse sullo schermo dell’operatrice. «Sono Kenneth Lomax» disse Proctor usando il suo nome di copertura, mentre apriva un pannello nascosto dietro la finta parete in fondo al corridoio e afferrava un bagaglio di emergenza, che aveva preparato proprio per evenienze simili. «Ho appena assistito a un rapimento.»
«Posizione, per favore.»
Proctor diede le coordinate mentre riponeva la Glock e diversi caricatori nello zaino. «Ho visto un uomo trascinare una donna per i capelli fuori di casa; lei gridava disperata in cerca d’aiuto. Lui l’ha costretta a salire su un’auto e poi si è allontanato.»
«Descrizione del veicolo?»
«Lincoln Navigator, nera, con i finestrini oscurati; diretta a nord sulla Riverside.»
Le diede il numero di targa agguantando lo zaino e attraversando di corsa le cucine in direzione del garage, dove si trovava la Rolls-Royce Silver Wraith di Pendergast.
«Per favore, rimanga in linea. Sto inviando delle pattuglie sul posto.»
Proctor mise in moto, abbandonò il vialetto e svoltò a nord su Riverside Drive, sgommando sull’asfalto e bruciando non uno, ma due semafori rossi. Il traffico era piuttosto scorrevole e riusciva a vedere quasi un chilometro di strada davanti a sé. Proctor cercò di individuare il SUV e gli parve di scorgerlo a circa dieci isolati di distanza.
Spinse il motore al massimo e scivolò tra i taxi, ignorando un altro semaforo rosso in mezzo al fragore dei clacson impazziti. Dal momento che si trattava di un rapimento, dopo aver inviato le volanti, l’operatrice del 911 avrebbe messo al corrente il dipartimento anticrimine. E avrebbe preteso da lui molte altre informazioni. Lanciò sul sedile posteriore il telefono, ancora in linea con il pronto intervento, e accese la radio della polizia installata sotto il cruscotto.
Accelerò ancora: i caseggiati si susseguivano confondendosi uno nell’altro a grande velocità. Perse di vista la Navigator poco prima di giungere in zona Washington Heights. La via di fuga più logica per il rapitore era la West Side Highway, ma in quel tratto della Riverside non c’erano accessi alla superstrada. Sentì il rumore delle sirene in lontananza: la polizia non aveva perso tempo.
All’improvviso, dallo specchietto retrovisore, vide l’auto sbucare sulla Riverside all’altezza della 147ª Strada e dirigersi a sud. Diogenes doveva aver imboccato la via a senso unico nella direzione sbagliata e stava facendo inversione.
Proctor serrò le labbra e si guardò intorno studiando il traffico. Ruotò bruscamente il volante a sinistra e, nello stesso istante, tirò il freno a mano per bloccare gli pneumatici e sterzare con forza, facendo sbandare l’auto. Le macchine intorno a lui scatenarono una tempesta di clacson furiosi per protestare contro la manovra. Mollò il freno a mano soltanto dopo l’inversione a centottanta gradi del veicolo e spinse il motore al massimo. La Rolls-Royce fece un balzo in avanti. Adesso riusciva a vedere anche le luci lampeggianti che accompagnavano le sirene delle volanti.
A cinque isolati di distanza, l’auto del rapitore stava svoltando a destra, all’altezza della 145ª Strada. La cosa non aveva alcun senso, pensò Proctor. Quella strada conduceva direttamente al parcheggio di Riverbank State Park, uno spazio verde che sorgeva su un impianto di depurazione delle acque costruito tra il fiume Hudson e la West Side Highway. Forse Diogenes aveva un motoscafo pronto a salpare dalla banchina?
In meno di mezzo minuto, Proctor fece scivolare la Rolls nel traffico e svoltò con decisione sulla superstrada, all’altezza della 145ª. Prima di andare oltre, però, doveva capire che cosa aveva intenzione di fare Diogenes. Fermò l’auto e tirò fuori dallo zaino un piccolo ma potentissimo binocolo con cui scrutò attentamente il paesaggio circostante: prima la strada, poi il parcheggio e le corsie di servizio adiacenti. Del SUV, nemmeno l’ombra. Ma dove diavolo era finito?
Proctor mise via il binocolo e nello stesso istante colse con la coda dell’occhio un movimento nella boscaglia alla sua destra. In quel punto la corsia d’emergenza ripiegava bruscamente in direzione della lunghissima West Side Highway. A quanto pareva, foglie e rami erano stati spezzati da poco: una sottile nuvola di polvere si stava dissolvendo nell’aria e sul terreno c’erano tracce ancora fresche di pneumatici.
Proctor sollevò ancora una volta il binocolo. Proprio in quella direzione, sulla superstrada, individuò la Lincoln Navigator: stava sfrecciando verso nord. Imprecò. Quell’insieme di manovre aveva fatto guadagnare a Diogenes quasi un chilometro di vantaggio.
Ancora una volta diede gas alla Rolls, la spinse fuori strada e poi, con una manovra precaria e incerta, giù per lo spartitraffico, direttamente sulla superstrada, immettendosi in maniera spericolata nel flusso di auto in corsa. Poi prese il cellulare dal sedile posteriore. «Sono Kenneth Lomax. Il veicolo sospetto al momento si trova sulla West Side Highway, si sta dirigendo a nord, vicino al ponte George Washington.»
«Signore» disse l’operatrice, «come fa a esserne sicuro?»
«Perché lo sto inseguendo.»
«Non lo faccia, signore. Lasci che sia la polizia a occuparsi della faccenda.»
Raramente Proctor alzava la voce, per cui quella fu un’eccezione. «Allora attaccatevi a quella stramaledetta macchina, e fatelo subito.» Scagliò il cellulare sul sedile posteriore, ignorando la risposta della voce dall’altra parte del filo.
Risalì velocemente la West Side Highway, assecondando i saliscendi della soprelevata sulla Hudson River Greenway. Spinse la Rolls oltre i centosessanta chilometri orari, ma sapeva che Diogenes avrebbe fatto altrettanto. La campata del ponte che conduceva all’interstatale 95 si srotolava lunga e sottile sul fiume. Del SUV non c’era più traccia. Diogenes aveva proseguito per il New Jersey? Aveva preso l’uscita a elica per tornare a Long Island o andare verso il Connecticut? E se invece fosse rimasto sulla superstrada, nell’ultimo e striminzito pezzetto di Manhattan prima del ponte, e si fosse diretto a nord, nel Westchester?
Proctor imprecò ancora una volta. Passò in rassegna le frequenze della polizia e sentì gli agenti delle volanti rispondere alla nuova segnalazione sulla Lincoln Navigator nera con i finestrini oscurati, ora diretta a nord sulla West Side Highway. Peccato che il SUV non si trovasse più su quella strada.
La caccia era finita.

3

O forse no.
All’ultimo istante utile, seguendo il proprio istinto, Proctor prese l’uscita per il ponte tagliando tre corsie, mantenendo a fatica il controllo della Rolls mentre affrontava la ripida rampa d’accesso. Decise di immettersi al livello inferiore, perché meno frequentato dai camion e dunque a scorrimento più veloce. Alla radio continuavano ad arrivare inconcludenti rapporti della polizia. Dal sedile posteriore si ricominciava a sentire la voce dell’operatrice del 911. Proctor sapeva che, una volta terminato quell’infruttuoso inseguimento, la polizia non avrebbe impi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La stanza di ossidiana
  4. Dedica
  5. Prologo
  6. 1
  7. 2
  8. 3
  9. 4
  10. 5
  11. 6
  12. 7
  13. 8
  14. 9
  15. 10
  16. 11
  17. 12
  18. 13
  19. 14
  20. 15
  21. 16
  22. 17
  23. 18
  24. 19
  25. 20
  26. 21
  27. 22
  28. 23
  29. 24
  30. 25
  31. 26
  32. 27
  33. 28
  34. 29
  35. 30
  36. 31
  37. 32
  38. 33
  39. 34
  40. 35
  41. 36
  42. 37
  43. 38
  44. 39
  45. 40
  46. 41
  47. 42
  48. 43
  49. 44
  50. 45
  51. 46
  52. 47
  53. 48
  54. 49
  55. 50
  56. 51
  57. 52
  58. 53
  59. 54
  60. 55
  61. 56
  62. 57
  63. 58
  64. 59
  65. 60
  66. 61
  67. 62
  68. 63
  69. 64
  70. 65
  71. 66
  72. 67
  73. 68
  74. 69
  75. Epilogo
  76. Una settimana dopo