VI
Le grandi date
La vita quotidiana che abbiamo seguito fin qui nei suoi particolari si svolge talvolta con monotonia secondo il ritmo di attività indispensabili spesso abitudinarie; questo è naturale. Ma è altrettanto naturale che, al Nord come ovunque, invece, determinati eventi si accompagnassero a particolari celebrazioni e manifestazioni. È quanto intendiamo ora esaminare, distinguendo fra le grandi date della vita (nascita, matrimonio, funerali) e le scadenze annuali di tipo politico o religioso, che prenderemo in considerazione entrambe, distintamente.
Le grandi date della vita
Sui riti della nascita abbiamo poche e confuse informazioni perché si tratta di un terreno dove il cristianesimo è intervenuto con particolare energia. È difficile perciò distinguere se quanto sappiamo è autentico o cristianizzato o «ricostruito»: quest’ultima osservazione vale per le saghe del XIII secolo i cui autori si sforzavano di ricreare un passato che risaliva ad almeno tre secoli prima. Si ricorderà d’altra parte che nel Medioevo, qui come ovunque, le nascite si susseguivano senza interruzioni talvolta per tutta la vita feconda di una donna. Perciò anche qui si incontreranno i problemi necessariamente associati a una natalità così elevata.
In generale la gravidanza non dava nemmeno luogo a commenti particolari, perché era del tutto naturale. Ricordiamo solo la pittoresca espressione con cui la si indicava talvolta e che si traduce con «ella non era sola» per «ella era incinta». Che io sappia le pratiche contraccettive e abortive erano ignote, ma bisogna sempre diffidare della pudibonderia degli autori delle saghe o dei redattori dei codici giuridici tutti scritti nella forma a noi nota parecchi secoli dopo la cristianizzazione.
La gestante, assistita dalle donne e in particolare da quelle levatrici note per avere «la mano che cura», partoriva in ginocchio o in posizione accovacciata. Il parto, allora come oggi, poteva però presentare difficoltà e lo dimostra la presenza di iscrizioni runiche che lo favorivano (citate nei
Sigrdrἰfuml dell’
Edda poetica). Secondo alcuni poemi di quest’ultima raccolta, la fase espulsiva veniva accompagnata da un coro di canti magici (
galdr); può anche darsi che il piccolo appena accolto dalla madre terra su cui cadeva, dopo il taglio del cordone ombelicale, venisse cosparso d’acqua (pratica dell’
ausa barn vatni spesso rievocata nelle saghe che potrebbe essere una volontaria imitazione del battesimo cristiano ma anche un antico rito lustrale), quindi levato al cielo in una sorta di offerta alle grandi forze della natura che, come ho tentato di dimostrare,
1 potrebbero essere state le prime «divinità» venerate da questa religione.
Questo nel caso che il padre decidesse di tenere in vita il bambino. Infatti sembra che varie ragioni, innanzitutto economiche, autorizzassero la pratica dell’
tburdhr secondo la quale il padre poteva rifiutare il bambino appena nato facendolo esporre alle fiere nei boschi. È questo un motivo tipicamente leggendario che ricorre in molte saghe. Se invece il padre decideva di accettare il bambino, doveva dargli innanzitutto un nome, pratica importante che segnava il vero e proprio ingresso del neonato nel clan e gli conferiva un’identità personale, garantendone così l’esistenza. Questa operazione, infatti, non era assolutamente gratuita; ma al contrario era carica di significati, in un mondo in cui l’appartenenza a un clan era la cosa più importante e un essere umano non esisteva giuridicamente se non era in grado di ricapitolare il suo lignaggio per parecchie generazioni. Il che spiega, tra l’altro, le lunghe e per noi noiose genealogie che inevitabilmente illustrano le saghe, i libri di colonizzazione e altri testi analoghi. La
Sturlunga saga contiene addirittura una sezione intera riservata esclusivamente a questo tema.
Il nome che si conferiva al neonato rispondeva dunque a precise norme (cui ho fatto già cenno a
p. VIII). La scelta poteva cadere su nomi che si riteneva portassero fortuna o che secondo l’esperienza più corrente erano stati portati da personaggi favoriti dal destino. Perciò spesso si incontrano fanciulli che portavano il nome di un antenato appena scomparso. Non è da scartare nemmeno l’ipotesi che l’uso costituisse la traccia remota di una vaga credenza nella reincarnazione o nella trasmigrazione delle anime. In età vichinga non sempre i nomi teofori rappresentano, invece, affidamento alla tutela della divinità interessata. I nomi nei quali entra il dio Thὀrr (Thorgestr, Thorgils, Thorkell, Thorsteinn) sono tanti da non richiedere nemmeno un commento. Allo stesso modo non necessariamente la frequenza dei nomi zoofori (quali Björn, orso, Ari oppure Örn, aquila, Hr
tr, ariete, Ormr, serpente,
lfr, lupo) va riferita a un ipotetico totemismo. È possibile che questo atteggiamento religioso sia esistito in età antichissime ma crediamo si possa affermare con una buona dose di certezza che in epoca vichinga esso fosse definitivamente superato. La sola cosa di cui possiamo essere assolutamente sicuri è che non si trattava di una libera scelta. Non bisogna dimenticare infatti che questa società non conosceva veri e propri cognomi di famiglia per cui il nome era l’elemento di identificazione essenziale. Per il resto, si era figlio o figlia del proprio padre, come si è detto, e della propria madre solo se il padre era ignoto. Infine il numero dei nomi possibili non era illimitato: perciò frequentissimi erano i soprannomi che spesso tendevano a sostituirli. Essi, numerosissimi e pittoreschi, non richiedono commenti particolari perché ricordano quelli in uso nello stesso periodo anche altrove. Basta uno sguardo al
Libro della colonizzazione dell’Islanda per incontrare i soliti il Forte, il Rosso, la Bella, il Saggio, il Ricco. Precisiamo che si trattava di una società nettamente patrilineare che ignorava assolutamente, almeno per il periodo che stiamo esaminando, ogni forma di matriarcato.
Abbiamo già accennato a come il bambino veniva allevato dalla prima infanzia – le nutrici non erano sconosciute – alla «maggiore età» che variava da testo a testo ma che in genere veniva raggiunta intorno ai quattordici anni o poco prima. I bambini nei nostri testi compaiono poche volte ma tutto lascia pensare che fossero amati e allevati con cura. Sono stati trovati giocattoli di legno e di metallo non dissimili da quelli in uso altrove. Non si dimentichi il costume, cui abbiamo già accennato e che veniva praticato dalle famiglie di alto rango, di affidare per qualche anno i propri figli a un amico o a un personaggio altolocato, restituendo la prestazione. Questa pratica del
fὀstr contribuiva a creare legami di affetto spesso fortissimi e naturalmente estendeva l’area di influenza di ogni clan. Sembra che molto spesso questi fratelli adottivi si considerassero come fratelli giurati secondo un rito magico attestato con certezza.
2 Va ricordato qui che uno dei valori più solidi della società vichinga era certamente l’amicizia, soprattutto l’amicizia virile. Gli
Hvaml dell’
Edda poetica lamentano con strofe bellissime la sorte dell’«uomo che nessuno ama» chiedendosi: «come potrebbe vivere a lungo?». Nel corso di tutta la vita, in questa società in cui il collettivismo costituiva una sorta di imperativo categorico l’uomo era sempre teso a non restare solo, a circondarsi di amici, fratelli giurati ecc.
In ogni caso, per chiudere con i riti di nascita dai quali ci siamo un po’ allontanati, da quanto abbiamo detto risulterà chiaro che dovevano essere importanti. La famiglia (ætt) era la struttura fondamentale di questa società. Entrare in una famiglia, per nascita o con il matrimonio o in altri modi (il termine che si usava era ættleidhing nella precisa accezione di legittimazione, ad esempio, del figlio di una concubina ma il suo significato, «condurre in una famiglia», poteva essere anche più vasto) è uno degli atti fondamentali dell’esistenza. Circostanza deducibile anche «e contrario» dal fatto che l’einhleypingr, cioè chi non aveva un focolare, una fissa dimora (il che non significava sempre non avere una famiglia) era quello che chiameremmo oggi un «povero diavolo» e poneva gravi problemi alla collettività.
Torniamo ancora una volta al bambino: in Scandinavia c’era l’uso, che vige ancora oggi, di fargli un dono per il primo dentino.
Almeno all’epoca che stiamo studiando non ci risulta che sopravvivessero riti particolari di ingresso nel mondo adulto che probabilmente vigevano in età pagane più remote. Georges Dumézil ha dimostrato brillantemente che il mito di Thὀrr che deve affrontare il gigante Hrungnir, nell’Edda in prosa, probabilmente rappresenta il ricordo di tali riti di passaggio. In epoca vichinga essi erano scomparsi. Sulla base di una lettura affrettata di un passo di Dudon de Saint-Quentin,3 una delle fonti più contestabili a noi note a proposito dei vichinghi, si è anche supposto che secondo l’uso del ver sacrum (primavera sacra) il giovane, per entrare nella società degli adulti, dovesse partecipare a una spedizione vichinga che in tal modo assumeva un carattere anche religioso. Questa tesi non regge assolutamente alla minima analisi. Naturalmente non è impossibile che la società si aspettasse che i giovani si mostrassero in grado di intraprendere una spedizione vichinga, ma ciò non significa affatto che dovessero manifestare le loro attitudini guerriere; era invece messa alla prova la loro capacità di affrontare un lungo viaggio per mare, in qualsiasi circostanza.
La mancanza di informazioni certe mi impedisce anche di parlare dell’istruzione che doveva ricevere il giovane vichingo. Essa probabilmente non esisteva nel significato che attribuiamo al termine. Le persone anziane avevano il compito di inculcare al fanciullo rudimenti di conoscenza del passato della famiglia e del clan: le cose cambieranno con la cristianizzazione con la quale ci troviamo però di poco fuori dall’età vichinga. Dovettero esistere certamente maestri che insegnavano il mestiere agli «apprendisti» e forse istitutori itineranti che organizzavano riunioni che oggi chiameremmo «seminari di studio». Come vedremo più avanti, infatti, è impossibile che ci si potesse improvvisare scaldo o narratore di testi a memoria. Lo stesso deve dirsi per il diritto, la cui complessità ed elaborazione erano tali che non ne era possibile l’apprendimento per pura trasmissione orale. Ma, ancora una volta, non dis...