Le due teste del tiranno
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Le due teste del tiranno

Metodi matematici per la libertà

  1. 256 pagine
  2. Italian
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Le due teste del tiranno

Metodi matematici per la libertà

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La matematica è rivoluzionaria. Attinge alla dimensione della libertà umana per creare mondi diversi e opposti, negando un codice già affermato per strutturarne liberamente un altro. Affermazioni matematiche all'apparenza inutili o sbagliate preannunciano quasi sempre vere e proprie rivoluzioni del pensiero. Il teorema di Bayes, per esempio, da puro gioco intellettuale è diventato un pilastro della diagnostica medica, della scienza forense, delle neuroscienze e nelle ricerche sull'intelligenza artificiale. In un viaggio che dai filosofi greci ci conduce alla Ultimate Machine di Claude Shannon, l'autore ci mostra che la matematica è rivoluzionaria anche in un modo più profondo: ci mette in grado di capire il mondo e di partecipare alla costruzione della società; di sconfiggere il tiranno: quello vero, ma soprattutto quello generato dal nostro stesso pensiero. Tutti possiamo intervenire, decidere se un ragionamento è corretto o meno, e tutti possiamo accedere agli assiomi iniziali e alle regole usate per svilupparli. Nel mondo fantastico dei numeri e dei teoremi non ci sono limiti all'immaginazione e in questo esercizio di fantasia siamo tutti liberi e tutti uguali. Non c'è nulla di controverso. "Sire", spiegò ad Alessandro Magno il suo precettore Menecmo, "in geografia esistono strade per i re e strade per il popolo, ma in geometria c'è un'unica strada per tutti."

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2017
ISBN
9788858689103

1

Il fine giustifica i fessi

La geometria è l’arte di ragionare bene a partire da figure disegnate male.
Antonio Fasano, Stefano Marmi, Meccanica analitica

Effimeri arabeschi

Firenze, 30 giugno 1990. Dato il luogo, è facile capire che stiamo per parlare di arte. Guardando bene la data, però, i più maniaci probabilmente sospettano che non abbia affatto intenzione di parlare di Michelangelo, di Brunelleschi o Ghiberti, e in effetti è così. L’artista di cui andremo a narrare le gesta è un calciatore: Dragan Stojković detto «Piksi», centrocampista della Jugoslavia.
Quel giorno, a Firenze, si incontrano infatti due squadre che non potrebbero essere più diverse. Una, l’Argentina, è un insieme di dieci onesti artigiani del pallone con un compito ben preciso: dare la palla a Diego Armando Maradona, l’unico del gruppo che sappia cosa farne. L’altra, la Jugoslavia appunto, di talenti in campo ne ha anche troppi: Dejan Savićević, Robert Prosinečki, Safet Sušić. Oltre a Stojković. L’allenatore Ivan «Ivica» Osim, durante una conferenza stampa, si metterà a ridere quando un giornalista italiano gli dirà che Azeglio Vicini ha problemi a trovare una posizione in campo per Roberto Baggio: «Beato lui. Io, di uomini come Baggio, ne ho sei...». Ma tra i sei, dovendo scegliere, non c’è dubbio: quello più forte, quello fondamentale, quello sicuro di giocare sempre è Dragan Stojković.
Abbiamo quindi due giocatori che non si potrebbero pensare più diversi, in due squadre che non potrebbero essere meno simili, prodotto fra l’altro di due nazioni diametralmente opposte quanto a origine, senso di appartenenza, destino.
Diverso, molto diverso, anche il modo di giocare la palla.
Maradona, quando dribbla, punta la porta avversaria senza se e senza ma. Una volta ricevuta la palla, se decide che è il caso di fare gol non sente storie: va verso la porta scartando qualunque avversario gli si pari davanti, come nella memorabile partita contro l’Inghilterra dei mondiali precedenti. Stojković, invece, quando inizia a dribblare quasi sempre si ritrova a correre palla al piede circondato da nugoli di avversari. Anche lui verso la porta, sì, ma quella sbagliata. La sua.
Anche la traiettoria che i due disegnano sul campo è diversa. Maradona, come si è detto, punta dritto al bersaglio, in maniera lineare, accelerando e decelerando quel tanto che basta per meleggiare l’illuso difensore di turno, che non solo non riesce a togliergli il pallone ma nemmeno a falciarlo; Stojković, dal canto suo, inizia a tracciare sul manto erboso dei veri e propri arabeschi, effimeri esempi di arte islamica apparentemente incomprensibili, ma con un significato ben preciso.
Figura 1 Le due traiettorie tipiche del fuoriclasse balcanico (a sinistra) e di quello sudamericano (a destra).
Figura 1 Le due traiettorie tipiche del fuoriclasse balcanico (a sinistra) e di quello sudamericano (a destra).
I due comportamenti sono così diversi perché i piani d’azione dei due sono diversi. Maradona, essendo in squadra con un manipolo di ignoranti del pallone, inizia a dribblare quando capisce che deve fare tutto da solo e che se non ci pensa lui a entrare in porta col pallone e tutto è finita. Stojković, invece, traccia i suoi elaborati arabeschi proprio per il rispetto che ha verso i compagni di squadra. Tranquillizziamo l’eventuale e improbabile lettore leghista: non lo fa per rispetto della loro religione. Vero che in quella squadra i musulmani sono parecchi (Faruk Hadžibegić, Tomislav Ivković e altri), ma non è per quello. Ciò che conta è che i suoi compagni sanno giocare quasi quanto lui, e se dà la palla sui piedi a uno di loro con un metro o due di vantaggio sul marcatore diretto lui può già andare ad abbracciarlo per il gol. Per questo Dragan Stojković detto Piksi va verso la propria porta: perché è matematico che qualche difensore cada nell’errore di pensare che, se gli toglie la palla lì, potrebbe avere un vantaggio. E quindi, per togliere la palla a Piksi, lascia libero Savićević, o Sušić, o un qualsiasi altro giocatore con la desinenza in -ić, il quale un attimo dopo si vede recapitare il pallone sui piedi, senza marcatore diretto addosso e con una prateria tra lui e la porta: i difensori, poveri fessi, sono andati quasi tutti dietro a Stojković...
Condividere un obiettivo non significa condividere un piano d’azione. Maradona e Stojković hanno lo stesso scopo: fare gol. Ma il modo in cui decidono di arrivarci è diametralmente opposto. Maradona, da leader indiscusso e condottiero circondato da soldatini, punta diritto allo scopo; Stojković, proprio perché può contare sui suoi compagni, si permette di sbagliare direzione, consapevole che, così facendo, permetterà a qualcun altro di arrivare all’obiettivo, la rete. Il che darebbe un vantaggio a tutta la squadra, proprio come se lo avesse segnato lui.
Questo atteggiamento di Stojković, la sua fiducia nelle capacità dei compagni, è in un certo senso analogo a quello di un’altra squadra, non troppo lontana nello spazio, ma molto più antica nel tempo. Basta intendere per «squadra» l’intero insieme delle persone in grado di parlare il greco.

Pitagora e gli oggetti che non esistono

Per parlare di cultura, prima o poi bisogna passare dalla Grecia classica.
Il motivo è semplice: il modo di interpretare la realtà che è tipico del mondo occidentale è nato qui, a partire da un migliaio di anni prima che Cristo nascesse.
E questo dipanarsi del pensiero può essere seguito esplicitamente vedendo i molti modi in cui allora si descriveva ciò che è inaccessibile ai sensi.
Le analogie e le metafore dei greci erano ricchissime. Si parte da Omero, che fa dei paragoni tra gli attributi degli uomini e quelli degli dei, e si scende piano piano dal monte Olimpo. Si fanno paragoni tra uomini e altri uomini, o tra uomini e animali («si butta nella battaglia come un leone»), e dal particolare si inizia a generalizzare. E a cercare termini di riferimento sempre più assoluti.
Già con Empedocle, è chiaro che i termini di paragone non sono più gli uomini, ma i processi. Tanto per fare un esempio, Empedocle descrive l’occhio umano, che lascia passare la luce del fuoco ma non l’acqua che lo costituisce, come una lanterna che, attraverso le sottili pareti di corno levigato, fa passare la luce del fuoco che ha all’interno, ma non i venti che potrebbero spegnerlo.
Empedocle non descrive l’occhio di Timofonte o di Nedo; descrive l’occhio, quello di tutti gli uomini. E per farlo lo paragona a un processo fisico: la lanterna, un oggetto che lascia passare fotoni ma non venti o pioggia. Qualcosa di duraturo, che può essere ricostruito, e che è importante non per l’aspetto che ha, ma per come funziona. In questa ricerca di termini generali, Empedocle parte dalla poesia e finisce per fare filosofia.
Ancora più in là si spingeva Eraclito, detto «l’oscuro» non a caso. Perché i paragoni di Eraclito non riguardano i processi, ma qualcosa di ancora più generale: i concetti.
«Se scendiamo due volte nello stesso fiume, ogni volta diversa è l’acqua che vi affluisce», dice Eraclito in uno dei suoi frammenti più famosi. Qui l’immagine è un qualcosa che non può essere visto, né toccato, ma è un concetto astratto.
Parallelamente, si sviluppa un altro tipo di concetto astratto. Gli intellettuali della Magna Grecia iniziano a ragionare di oggetti che non esistono: oggetti che si chiamano punti, rette, angoli. Idealizzazioni dei nodi, delle corde tese, dei picchetti con cui gli architetti egizi facevano geometria. E proprio maneggiando questi oggetti astratti, con la sola forza del pensiero, costruiscono quegli oggetti eterni di cui parlavamo prima: i teoremi.

Il quadrato costruito sull’ipotenusa è la somma dei quadrati costruiti sui due cateti

L’affermazione che molti di noi incontrano come primo teorema della loro esistenza è il teorema di Pitagora.
Tale teorema, che tutti noi alle medie abbiamo imparato a odiare, non è detto così perché Pitagora è stato il primo omino sulla faccia della terra ad aver congetturato che la somma dei quadrati costruiti sui due cateti è uguale al quadrato costruito sull’ipotenusa. Tale curiosa uguaglianza era nota anche agli antichi egizi, i quali per costruire angoli retti usavano la seguente procedura: annodati insieme dodici tratti di corda in un anello, stendevano sul terreno cinque tratti consecutivi (quella che Pitagora avrebbe chiamato ipotenusa), fissando a terra gli estremi, dopodiché tiravano il resto della corda prendendolo nel nodo che distava tre tratti di corda da uno dei punti fissati. Si formava così un triangolo con i lati rispettivamente di tre, quattro e cinque pezzi di corda: facendo il quadrato dei tre numeri, si può trovare facilmente che esso rispetta le nostre pitagoriche aspettative.
Gli egizi non conoscevano la dimostrazione: tutt’al più, per la matematica egizia, si può parlare di ricette, come quella che fornisce il metodo per calcolare il volume di un tronco di piramide:
Se ti viene detto: c’è una piramide tronca che ha 6 per altezza verticale, 4 per la base e 2 per la cima. Fai il quadrato di questo 4, risultato 16. Raddoppia 4, risultato 8. Fai il quadrato di 2, risultato 4. Addiziona il 16, l’8 e il 4, risultato 28. Poi prendi un terzo di 6, risultato 2. Allora fai 2 volte 28, risultato 56. Ecco, è 56. Vedrai che il risultato è giusto.
Al di là della presenza di misure specifiche, e non di variabili, manca completamente qualsiasi indicazione sul perché questo sistema fornisca la risposta corretta. Al posto del ragionamento, c’è un laconico e definitivo «Vedrai che il risultato è giusto» che, vista la facilità con cui i sacerdoti egizi condannavano a morte chi li contraddiceva, toglieva ogni voglia di ragionarci sopra.
La grande conquista non è il risultato, ma la dimostrazione: il mostrare, con un procedimento verificabile, perché qualunque triangolo rettangolo soddisfa tale severissima e austera relazione. È un principio di causalità: la somma dei quadrati costruiti sui due cateti è uguale al quadrato costruito sull’ipotenusa per questo motivo.
È la dimostrazione matematica che dà al teorema la sua immortalità: abbiamo costruito un oggetto di pensiero indistruttibile, indubitabile, eterno.
Se non sappiamo dimostrare un teorema, siamo costretti a credere per fede: un atteggiamento religioso più adatto agli antichi egizi che al mondo classico. E se non conosciamo il concetto di dimostrazione possiamo tutt’al più usare gli oggetti di pensiero come fossero utensili, ma non ne sappiamo costruire di nuovi; non siamo Homo sapiens e nemmeno Homo faber, ma al massimo Homo ITIS.
Grazie a questo nuovo modo di ragionare, i greci possono cominciare a fabbricarsi da soli, nella loro testa, gli oggetti di cui si servono, senza bisogno di costruirli. E con quelli ergere costruzioni precise, affidabili, e gratis, senza bisogno di fare costosi esperimenti scolpiti nel marmo, come si narra che sia successo ad Atene qualche migliaio di anni fa.
Solo gli dei possono fare miracoli, ma la matematica può essere usata da chiunque.

Menecmo, Apollonio e le coniche

Si narra che, in un tempo imprecisato alcune centinaia di anni prima di Cristo, Atene venne colta da una pestilenza.
All’epoca, per risolvere problemi che mettevano a repentaglio la sopravvivenza dell’intera popolazione, i greci consultavano l’oracolo, cioè un tizio con seri problemi nei rapporti sociali convinto di parlare per conto degli dei; mica come oggi, che si affidano alla Bundesbank e alle indicazioni degli economisti, cioè tizi con seri problemi nei rapporti sociali che però sono convinti di poter risolvere col denaro.
Le prescrizioni degli oracoli di epoca classica erano piuttosto ambigue. Tanto per dare un esempio di casa nostra: ibis redibis non morieris in bello, e le virgole mettetecele voi. In questo caso invece l’oracolo fu straordinariamente preciso: avete presente l’altare di forma cubica del vostro tempio? Ecco, costruitene uno di forma uguale, ma di volume doppio, e la pestilenza se ne andrà via alla svelta e senza lasciare tracce, come un allenatore dell’Inter.
I solerti ateniesi, allora, fecero la cosa che sembrava loro più semplice: scolpirono nel loro miglior marmo un cubo di lato doppio. E la peste, nulla. Sempre lì, a dimostrare che gli oracoli sanno essere ambigui anche quando sembrano chiari. Perché il fatto è che, se si duplica il lato di un cubo, si ottiene un nuovo cubo di volume otto volte maggiore di quello di partenza. Per avere un cubo di volume doppio, si deve fare qualcosa di diverso; qualcosa che, al tempo dell’oracolo, non era ancora chiaro.
Lo sarebbe diventato poco più tardi, grazie all’opera di un signore di nome Menecmo e al suo vizio di immaginarsi di tagliare i coni con piani affilatissimi.
Figura 2 Confronto tra le tre dimensioni di altare in considerazione. Non si hanno certezze sull’effetto delle dimensioni nell’azione antisettica degli oggetti in questione.
Figura 2 Confronto tra le tre dimensioni di altare in considerazione. Non si hanno certezze sull’effetto delle dimensioni nell’azione antisettica degli oggetti in questione.
Di Menecmo non si sa molto: allievo di Eudosso (insieme al fratello Dinostrato), amico di Platone e precettore di Alessandro Magno, del quale non si può certo dire che gli siano mancati dei bravi maestri. Si narra a tal proposito che un giorno il futuro dominatore del mondo conosciuto chiese al suo docente se ci fosse una scorciatoia per imparare la geometria, al che ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Le due teste del tiranno
  4. Prologo
  5. Introduzione. Inutile a cosa?
  6. 1. Il fine giustifica i fessi
  7. 2. Quanto fa Mela Verde per TremalNaik?
  8. 3. L’immaginazione al potere
  9. 4. Soltanto la Chiesa ci può salvare
  10. 5. Miracoli della mente umana
  11. 6. E pluribus unum
  12. 7. Codici e segreti
  13. 8. Per dare il giusto ordine
  14. Epilogo. Il culto del cargo
  15. Note
  16. Piccola bibliografia per il curioso
  17. Indice