SECONDA PARTE
Anatomia delle visioni del mondo
Introduzione
Dobbiamo ora svolgere una vera e propria anatomia delle due visioni del mondo, unica soluzione per favorire il passaggio dall’una all’altra: il nostro intendimento non è infatti semplicemente quello del filosofo animato dal desiderio di comprendere, bensì quello del terapeuta che auspica di vedere gli uomini e le società del nostro tempo vivere in un modo nuovo, perché ci pare che l’uomo si sia smarrito e che le società siano diventate disumane.
Intorno a me vedo trionfare la rabbia, l’odio, la violenza, espressioni della mancanza di rispetto per la vita altrui e per la propria. Il terapeuta, avendo come obiettivo il ben d’essere (se non la gioia), vorrebbe invece veder dominare questo stato nel singolo e nella comunità. Mi risuonano nella mente le parole di Karl Marx, quando affermava che era finito il tempo di contemplare il mondo, poiché era giunto il momento di cambiarlo.
Io non sono né un politico né un rivoluzionario, ma uno psichiatra abituato a stare centrato sul singolo uomo, che sogna di cambiarlo per permettergli di vivere serenamente secondo la prospettiva di un umanesimo dato dall’insieme delle relazioni tra i singoli. Io non so come si cambi il mondo, ma sono sicuro che si può mutare lo stile di vita di ciascun uomo.
In questa trattazione, il termine «terapeutico» va inteso in una dimensione nuova, poiché quello che ci proponiamo non è di sanare il patologico bensì di cambiare la visione del mondo che è all’origine di un malessere generale. Come abbiamo già sottolineato, le Weltanschauungen non rientrano nella patologia e nelle categorie psichiatriche. È sicuro però che il comportamento, e soprattutto gli effetti che ne derivano su ciascun uomo, contribuiscono in ampia parte a determinare una qualità della vita a cui si legano anche il ben d’essere, la felicità, e più ancora la saggezza che, come detto, non si riferisce a un attimo di esistenza, ma a un continuum, a una storia, entro cui soltanto vanno valutati i momenti di felicità e quelli del dolore. Si delinea un nuovo campo «terapeutico», che non ha nulla a che fare né con la medicina del corpo né con le psicologie che si occupano della mente. La concezione che emerge è che la gioia o il dolore non sono legati alla guarigione di un disturbo, ma dipendono fortemente dalla visione che ciascuno ha di sé e del mondo in cui si trova a vivere, più precisamente di sé-nel-mondo.
È questa un’idea forte della fenomenologia di Husserl approdata poi nel campo della psichiatria per merito di Jaspers, Binswanger e di Minkowski, e quindi della cura. Mi pare che questa interpretazione, se contiene l’intuizione che le visioni del mondo influiscono sugli stili di vita, conterrà anche l’errore di pensare che per questo esse rappresentino dei paradigmi psichiatrici.
Abbiamo scelto di trattare due Weltanschauungen, ma è certamente possibile indicarne altre oppure suddividere in sottotipi le due principali. È auspicabile che nel futuro ci si dedichi a una molteplicità di visioni del mondo, ma farlo ora, in un momento in cui domina il concetto di «patologia», sarebbe un errore, per il rischio di psichiatrizzare o psicologizzare trasferendo tutto dentro l’ambito del patologico.1 Come abbiamo detto, il nostro intento è invece quello di occuparci di un dominio estraneo al patologico, che pertanto non chiama in causa né gli psichiatri né gli psicologi. Di conseguenza il termine «terapia» si riferisce più all’educazione e quindi alla pedagogia, e parlando di percezione dell’io e del mondo alludiamo alla filosofia, soprattutto a quei sistemi filosofici che si ancorano al senso della vita, più che a quello della metafisica e della teologia.
Certo, distinguere da una parte la gioia (di vivere), dall’altra il dolore, la fatica, significa riproporre la contrapposizione bene-male. Ma questo dualismo non ha niente a che fare con la medicina, con l’uomo malato, poiché si tratta di termini presenti in ogni cultura, in ogni periodo storico. Si tratta ancora di qualcosa tipicamente e strutturalmente umano, legato alla consapevolezza dell’esserci e del dover esserci, cioè alla coscienza e all’io, cui abbiamo fatto più volte cenno. Un’anatomia delle visioni del mondo non può partire che dalla coscienza di sé.
La coscienza
La consapevolezza di sé, la percezione cioè di costituire un’unità, pur di tante parti e frammenti di parti, ha raggiunto nell’homo sapiens sapiens una particolarissima espressione. Lo studio delle specie viventi non umane che, a partire dall’Illuminismo, erano considerate delle macchine, determinate e inconsapevoli, ha dimostrato invece che è presente un grado di consapevolezza sia nei primati sia nei livelli antecedenti di sviluppo evolutivo. È nata la convinzione che si possa dunque parlare di evoluzione della coscienza e che ne esistano diverse gradazioni. Oggi ci scandalizziamo di fronte all’aneddoto di Voltaire che, prendendo a calci il proprio gatto, sostiene davanti ai suoi ospiti che l’animale non prova dolore, poiché non ha coscienza di sé.
È fuori dubbio comunque che l’uomo è l’unico vivente dotato di coscienza di sé come individualità e quindi come separato da ogni altro uomo, grazie al cogito, ergo sum di Cartesio. Una consapevolezza derivata, dunque, non dall’azione, dalla lotta con un altro, ma dal fatto di pensare e di poter pronunciare quella parola che continua a rappresentare un grande interrogativo: io.
Abbiamo già visto che l’uso del pronome personale io è espressione, in qualche modo, della coscienza e abbiamo posto l’io come elemento necessario per provare gioia oppure dolore di vivere. Senza io non vi è identità, manca l’unità, il riferimento. Ne abbiamo la prova osservando alcune condizioni esistenziali «malate» come quella provocata dal morbo di Alzheimer, dove il soggetto non riconosce più nulla, nemmeno le cose più comuni e le persone più familiari, proprio perché non ha coscienza di sé. Per poter nominare e riconoscere l’altro è necessario percepirsi come un’unità da lui nettamente distinta, anche se in una relazione che significa avere di fronte a sé l’altro da sé.
Meno estremi dei malati di Alzheimer sono i casi di «personalità multipla». In questa condizione si ha la percezione di un’unità, di un io, ma ora di un io, ora di un io diverso e poi di un altro ancora differente. Si arriva al paradosso di mancare della coscienza di sé, perché si passa dall’essere uno all’essere un altro, fino al pirandelliano «uno, nessuno e centomila». I soggetti che presentano personalità multipla hanno di solito la percezione del cambiamento, come se avvenissero in loro delle metamorfosi complete e quindi potessero riconoscersi come moltitudine. Pensiamo all’attore che, quando interpreta re Lear, è altro rispetto a quando entra in scena come Amleto, oppure quando si presenta all’Agenzia delle Entrate per pagare le tasse.
Un altro rapido riferimento va fatto al «doppio», rappresentato dall’«io diviso», che è una condizione propria della schizofrenia, ma anche della reazione dissociativa (che è parte dell’isteria). In questi casi non c’è la percezione di «essere due», come di avere un sosia, ma si avverte un’occupazione, una coabitazione con qualcuno che è riconosciuto come il proprio nemico, il demone, tutte condizioni, insomma, in cui, se si è raggiunta l’identità, se si è arrivati alla percezione dell’io, la si è poi perduta.
Ma è altrettanto importante affermare che l’io ha una propria costruzione e probabilmente uno sviluppo; ciò significa che, se fino a un dato punto manca, non si potrà raggiungere tutto d’un tratto. Il neonato certamente non ha la percezione di sé e, almeno fino a un certo grado di sviluppo, è una macchina pulsionale: per soddisfare i suoi bisogni primari si attacca alla madre, cerca degli oggetti per sentire delle resistenze con il tatto e comprendere la realtà spaziale nella quale si trova. Nella distinzione in stadi stabilita da Piaget, questo corrisponde al periodo senso-motorio. Il termine «sensoriale» sottolinea la frammentarietà anche del corpo: la bocca che succhia non è legata all’ano che espelle, la mano destra che esplora non è parte del ventre che duole. A poco a poco, da una sorta di confusione di parti del corpo e con la ripetizione, nascono delle attese, si distinguono delle immagini e attraverso l’altro si inizia a individuare non certo il sé, ma il corpo.
L’acquisizione progressiva, la costruzione dell’identità ipotizzata da Piaget, non trova corrispondenza nelle ricerche scientifiche attuali, ma contiene comunque un principio fondamentale: quello della costruzione della percezione di sé.
Il problema dell’io e della coscienza di sé si pone con diversi interrogativi, per esempio quando nel bambino nasca la percezione di sé e quando un io percepito muti e diventi consapevole della propria trasformazione.
Un percorso, quello del cambiamento dell’io e anche della percezione della propria trasformazione, che si lega allo sviluppo di alcune aree cerebrali, ma soprattutto alle relazioni sociali. Non si tratta insomma di un evento che inaugura uno status, che poi permane per tutta l’esistenza ma, pur dentro l’io, di un susseguirsi di modificazioni in una serie di io. Se il problema della nascita dell’io è di non facile soluzione, altrettanto accade per le mutazioni che portano un io infantile a un io adolescenziale e poi a un io adulto e quindi a un io vecchio, per attenerci a una classica, ma stantia, suddivisione delle epoche esistenziali.
Anche a questo proposito bisogna fare i conti con il paradosso (forse uno degli elementi guida dell’esistenza) in base al quale l’io può indicare l’identità raggiunta ma nello stesso tempo ammettere che è mutevole, sia pure rispettando quel riconoscimento di sé nonostante i suoi travestimenti e senza la derivazione verso le personalità multiple o il doppio dell’io. Una sorta di camaleonte che, pur irriconoscibile dal di fuori, rimane unitario al di dentro.
Da questi richiami emerge chiaramente che, quando Seneca e più tardi Schopenhauer parlano dell’importanza del «chi sei», non si deve intendere che si è raggiunto uno status, bensì che il mutamento è riportabile comunque a quel sé che si riconosce, pur continuando a cambiare. Questa trasformazione è sensibile all’ambiente, al mondo in cui ci si trova e risente, per riferirci ancora agli stessi autori, persino del «cosa hai» e «cosa significhi per gli altri» la tua immagine.
Insomma, l’individualità e la conoscenza di sé sono fondamentali, ma non si tratta certo di una dote che, una volta ottenuta, rappresenti un qualcosa di immodificabile, potremmo dire una determinante biologica. È semmai un punto fisso attorno al quale si muove l’universo, oppure quel punto di appoggio che invocava Archimede per sostenere e spostare la terra.
Tornando all’anatomia delle visioni del mondo, la coscienza di sé è fondamentale non come obiettivo ultimo, ma come premessa per la percezione del proprio essere, dell’esser-ci. Abbiamo già ricordato che questa necessità è ancora lontana da un ubi consistam, richiama proprio il pensiero poiché non ha consistenza materiale. Non è nemmeno avvicinabile all’antica idea dell’anima, che rappresentava quell’elemento di unione delle varie parti del corpo: i pezzi di legno di cui è fatta una marionetta, ma richiama il filo che permette di muoverla dandogli l’impressione di muoversi.
Quando parliamo di percezione ci riferiamo esattamente all’io, e la separiamo dalle sensazioni, legate invece ai recettori sensoriali, propri e specifici delle differenti parti del corpo. Per parlare di visioni del mondo, occorre che vi sia un io percepente che, avendo percezione di sé, si leghi al mondo-altro da sé e con il quale interagisca.
Sono stati fatti anche tentativi di separarlo in un io corporeo, un io mentale, e uno sociale, come se si dovesse arrivare all’io degli io.
Una distinzione importante è invece quella tra io attuale e io ideale, tra la percezione di sé ora, ma anche di un sé che non c’è e che potrebbe essere raggiunto. Questa distinzione permette di introdurre l’idea di una progettualità, di una trasformazione guidata. E questa rappresenta certamente la base per poter ammettere che noi tendiamo a voler modificare la nostra visione del mondo e persino a voler passare dal «dolore» alla «gioia» di vivere.
L’inconscio
Dopo aver affrontato, sia pure schematicamente, il tema della coscienza, si impone almeno un cenno all’inconscio.
Questo termine, che fa la sua apparizione nella seconda metà dell’Ottocento, ha trovato in Sigmund Freud, agli inizi del Novecento, lo studioso che lo ha riempito di significato, fino a delinearlo come una vera e propria struttura, che rappresenta una sorta di ombra della coscienza.
La coscienza è la consapevolezza dell’io e da lei dipende la decisione dei comportamenti, dunque delle scelte per raggiungere obiettivi o, per lo meno, per indirizzarsi a uno scopo. Si potrebbe dire che la coscienza è alla base del conoscere, a sua volta fondamento dell’esercizio della volontà. Fino a Freud il comportamento dell’uomo era chiuso nell’«intendere e volere». Con la definizione dell’inconscio freudiano, questa riduzione non è più accettabile, almeno nel senso che in alcune nostre decisioni entra in maniera rilevante una componente che sfugge alla coscienza, ma che è presente in una spinta determinata, la pulsione.
Bisogna aggiungere che questa concezione freudiana non è un paradosso logico, o anche solo verbale; non ammette l’esistenza di un indimostrabile, ma introduce una tecnica che permette di rilevare in maniera consistente una componente che finisce per avere una costanza, una prevedibilità.
L’inconscio dunque è visibile sotto l’ingrandimento dell’analisi psicoanalitica, adatta a «parlare» con questa dimensione dell’io, a farla emergere e persino a descriverne la dinamica, e quindi anche il «come» si inserisca contro la coscienza potendo «rompere» quel legame tra coscienza e volontà: quel comportamento agito, senza l’inconscio, non sarebbe infatti altrimenti mai derivato da un processo consapevole.
Inizialmente Freud aveva pensato all’inconscio come un apparato vuoto, in cui confluivano le fantasie e tutto quel materiale rimosso che la coscienza censurava e cancellava dalla memoria, perché conflittuale e inaccettabile. Carl Gustav Jung, poi, ha parlato anche di un inconscio arcaico della specie, il cosiddetto inconscio collettivo.
Più recentemente, alcune correnti psicoanalitiche hanno definito l’inconscio come un capitolo speciale del processo di memorizzazione. Una memoria destinata ad accogliere quella vasta presenza di stimoli che sfuggono all’attenzione e alla concentrazione, come se la contrapposizione fosse tra il mondo della consapevolezza e quello invece percepito «senza saperlo e senza volerlo», e non tra coscienza e inconscio.
L’inconscio rappresenta quindi senza dubbio un elemento che deve essere almeno menzionato in un’analisi «anatomica» delle visioni del mondo.
Il mondo
Sono consapevole di quanto la parola «mondo» mi affascini, pur nella sua indeterminatezza, tanto che mi rendo conto che sarebbe meglio declinarla al plurale: i mondi. Oggi domina invece la parola «società» ed è sulla società che si discute, come se avesse un senso più preciso rispetto a mondo, mentre io la trovo altrettanto generica. Sarebbe infatti meglio parlare di una «microsocietà» lontana da una «macrosocietà» nella sua estensione maggiore costituita da sette miliardi di soci.
La società si riferisce proprio all’uomo, a ciò che gli uomini hanno prodotto: le città, il mercato, i simboli del potere. Personalm...