La vita quotidiana dei Templari
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La vita quotidiana dei Templari

Le avventure di ogni giorno dei guerrieri di Dio

  1. 288 pagine
  2. Italian
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La vita quotidiana dei Templari

Le avventure di ogni giorno dei guerrieri di Dio

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I Templari nascono come una originale confraternita di monaci armati e addestrati: soldati, con il dovere di proteggere le strade dei pellegrini che viaggiavano verso Gerusalemme, ma soprattutto di difendere e servire la Città Santa. Con il violento mezzo delle Crociate, la cristianità occidentale aveva ottenuto nuovi territori che divennero presto frequente meta di viaggio, un'occasione di incontro e commistione, di intreccio con le culture orientali. Bordonove ci accompagna in una fedelissima ricostruzione storica, dove seguiamo la vita di Jocelin - "un nome comune a quei tempi" - dal giorno del suo giuramento al Tempio ai primi armamenti - una spada, una lancia, uno scudo, tre coltellini. Jocelin ci porta in Terrasanta, e con lui riviviamo lo stupore di un orizzonte esotico che profuma di arance e datteri. E viviamo gli eventi storici che segnano la sua esperienza in trent'anni di servizio devoto all'Ordine, fino all'ultima resistenza contro i saraceni. Una narrazione avvincente, costruita con grande attendibilità, che restituisce una memoria individuale a vicende di storia collettiva.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2017
ISBN
9788858689646

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Passione e fine del tempio

Ahi, re di Francia, re di Francia!
Acri è sempre in pericolo.
Soccorrila, se puoi!
Servi Dio con le tue sostanze...
RUTEBEUF
In verità, mandando Jocelin a morire nel Roussillon, la provvidenza lo aveva ancora una volta preservato. Il gran maestro lo aveva congedato dalla vita e benedetto prima che cominciasse l’agonia del Tempio. Jocelin non seppe mai che ad Acri il convento era stato distrutto dai saraceni e che gli ultimi Templari stavano abbandonando la Terrasanta. Non seppe nemmeno che un re di Francia e un papa stavano per iniziare le manovre con cui avrebbero infamato e distrutto la santa compagnia dei cavalieri di Cristo. I suoi compagni di un tempo, coloro che l’avevano conosciuto e amato come un fratello, potevano invidiare la sua sorte e rimpiangere di sopravvivergli! Almeno era morto bellamente e in pace, gli erano stati riservati i funerali che convenivano a un cavaliere e le sue spoglie avevano avuto una onorevole sepoltura. Ma loro, i sopravvissuti, dovevano affrontare la vergogna, le torture, il disonore pubblico...

Un vero uomo

Nel 1289 il libero comune di Tripoli, nonostante gli aiuti sopraggiunti all’ultimo momento, era stato conquistato dal sultano Qalāwūn, che aveva massacrato i difensori e la popolazione e fatto abbattere le mura. A quel punto; resistevano ancora solo San Giovanni d’Acri e i castelli templari di Sayète, Beirut e Chastel-Pèlerin (Athlit). Fu conclusa una tregua fra lo pseudo re di Gerusalemme e il sultano, tregua che in seguito fu rotta dai cristiani. Il papa si era finalmente deciso a spedire venti galere di soccorso. Quando l’ultima crociata sbarcò, i soldati massacrarono i poveri fellah per vendicare gli abitanti di Tripoli. A giusto titolo il sultano reclamò la loro punizione. Come sempre si tergiversò e si finì per inviare delle scuse a Qalāwūn, che non le accettò. Ma non ruppe immediatamente la tregua, perché voleva portare prima a termine i suoi preparativi. Nel frattempo morì, ma il gran maestro del tempio, Guglielmo di Beaujeu, apprese da un emiro suo amico che il figlio di Qalāwūn, il sultano Malec-el-Esseraf, andava radunando uomini e macchine da assedio. Fu poi il gran maestro stesso a ricevere la dichiarazione di guerra, giacché ormai il Tempio, agli occhi dei saraceni, incarnava la sola autorità valida:
II sultano dei sultani, re dei re, signore dei signori Malec-el-Esseraf, il potente, il temibile, il cacciatore di ribelli, il cacciatore dei franchi, dei tartari e degli armeni, colui che ha strappato i castelli dalle mani dei miscredenti, a te, o gran maestro, nobile maestro del Tempio, il vero e saggio, salute e buona volontà. Poiché sei stato un vero uomo, ti inviamo le lettere di nostra volontà e ti facciamo sapere che veniamo da te per fare ammenda dei torti commessi, perché rifiutiamo che la comunità di Acri ci mandi lettere, perché non le riceveremo affatto...
Malec-el-Esseraf si presentò sotto Acri con il suo esercito giovedì 5 aprile 1291. La sproporzione delle forze era enorme, anche se bisogna diffidare delle esagerazioni saracene a questo proposito. Acri radunava ottocento cavalieri e circa diecimila fanti, compresi i Templari di Beaujeu e i loro ausiliari. Il sultano disponeva, a quanto sembra, di centomila guerrieri, anche se i cronisti arabi parlano di duecentomila cavalieri e fanti. Per una settimana non accadde assolutamente nulla, e questa inazione dovette aumentare l’angoscia dei difensori. In realtà, l’abile Malec aveva preso tempo per scegliere la collocazione delle macchine, per calcolare con i suoi ingegneri gli angoli di tiro, mentre il grosso dell’esercito innalzava le tende. Quella di Malec, che sovrastava le altre, era rossa. Poi entrarono in azione quattro grandi balestre e molti mangani più leggeri e maneggevoli. Ciascuna zona di difesa fu in tal modo sostenuta da blocchi di pietra di varie dimensioni. Nello stesso tempo, i genieri cominciarono a scavare le loro gallerie. Templari, Ospitalieri, Cavalieri Teutonici, pisani e pullani vigilavano sulle mura, sotto il tiro dei proiettili. Per comodità e anche per evitare dispute, la città era stata divisa in quattro quartieri. Per distruggere le macchine i Templari osarono una sortita che per poco non riuscì. I cavalieri di ferro, guidati da Guglielmo, si lanciarono contro le linee nemiche e, trascinati dallo slancio dei cavalli, giunsero dinnanzi alle tende dell’accampamento avversario. Ma gli animali inciamparono nelle corde e nei picchetti, e, sotto il contrattacco del sultano di Hama, i Templari dovettero fare marcia indietro e rientrare ad Acri. Nottetempo ripeterono il tentativo, ma, non appena usciti all’aperto il campo si illuminò ed essi dovettero nuovamente desistere. Gli uomini inviati contro i genieri di Malec non riuscirono a fermare la loro opera: la «torre maledetta», minata alla base, dilaniata dai mangani, crollò. Altri edifici, gravemente danneggiati, minacciavano di cadere... Tuttavia Malec non si affrettava a ordinare l’assalto. Dopo questo antefatto, il «re di Gerusalemme» Enrico di Lusignano sbarcò da Cipro con viveri e rinforzi.
Giudicando la situazione disperata, volle intavolare delle trattative con il sultano, che fallirono. Il 16 maggio anche la torre nuova crollò. I difensori tentarono di colmare la gigantesca breccia con tavole e pali. Il sultano contava a rimandare l’ordine di attacco, quasi volesse dare agli abitanti il tempo di evacuare la città. Ma il mare era cattivo e rendeva difficili le operazioni di imbarco. Venerdì 18 maggio risuonò «un grande frastuono». Si vide l’avversario avanzare lungo tre linee d’assalto, la prima coperta da grandi targhe,* la seconda formata da truppe incendiarie (che portavano vasi di nafta e granate piene di polverino), la terza di arcieri. Questi ultimi lanciavano frecce piumate, «così fitte che sembravano pioggia venuta dal cielo». Improvvisamente gli assalitori si separarono in due corpi, l’uno che si diresse verso la porta di sant’Antonio, l’altro verso la porta di san Romano. All’udire queste notizie, Gugliemo di Beaujeu prese con sé una dozzina di cavalieri e, seguito dal gran maestro dell’Ordine degli Ospitalieri e da alcuni compagni, corse alla porta di sant’Antonio per cercare di arginare l’immenso flusso degli assalitori. I suoi prodigi di valore furono del tutto inutili. Infine, mentre alzava il braccio sinistro per dare un ordine, fu colpito da una freccia all’ascella:
E quando si sentì ferito a morte, si mise ad andare; e si credette che si ritirasse per mettersi in salvo. Colui che portava il gonfalone si ritirò con lui e tutti i Templari. Allora un gruppo di crociati di Spoleto che si trovavano sul luogo gridarono: «Ah, in nome di Dio, signore, non partite, altrimenti la città è perduta!».
Ed egli rispose: «Signori, non posso più far nulla, perché son morto: vedete il colpo...».
E dunque noi tutti vedemmo il punto inchiodato del suo corpo. E con queste parole egli gettò il dardo a terra e torse il collo e andò a cadere sulla sua stessa bestia, ma quelli del suo gruppo balzarono già dalle loro bestie e lo sostennero e lo calarono dal suo cavallo e lo misero su uno scudo che trovarono a terra e che era molto grande e molto lungo.
Lo trasportarono nella fortezza del Tempio, dove rese l’anima a Dio senza proferire parola. Fuori, era la disfatta; tutti fuggivano, guerrieri, mercanti, donne con i figli tra le braccia. E diecimila fuggitivi trovarono scampo nella grande domus templare, che, si tramanda, era affacciata sul mare ed era chiamata la «Volta d’Acri». Il maresciallo del Tempio, Pietro di Sévry, aveva preso il comando. Fece imbarcare sulle navi disponibili tutto ciò che potevano contenere. Per dieci giorni i suoi cavalieri respinsero gli assalti forsennati dei saraceni. Vedendo ciò, il sultano gli fece proporre una resa onorevole, che il maresciallo accettò. Ma quando i primi saraceni entrarono nella fortezza, assalirono le donne che non avevano potuto fuggire. I Templari li massacrarono, poi alzarono il ponte levatoio. Il sultano, celando il suo furore, propose di riprendere i negoziati. Quando il maresciallo e il suo seguito si presentarono a lui, in disprezzo della parola data li fece decapitare. I Templari rimasti nella fortezza decisero allora di difendersi fino all’ultimo e, con il volere di Dio, di seppellirsi sotto le rovine della commenda. Gli assalitori minarono le mura e, apertavi una larga breccia, vi si precipitarono, ma, poiché la muraglia era stata scalzata dai genieri, cedette sotto il loro peso, provocando il crollo massiccio della Volta. I Templari d’Acri, come era loro desiderio, morirono sotto le macerie; ma, con loro, morirono duemila infedeli.
Era il 28 maggio 1291. La caduta di San Giovanni d’Acri provocò ineluttabilmente quella del regno di Gerusalemme – o di ciò che ancora si chiamava così. I Templari di Sayète elessero maestro Thibaud Gaudin, un fratello cappellano, poi si imbarcarono alla volta di Cipro. Quelli di Chastel-Pèlerin abbandonarono a loro volta la fortezza, inviolata, e anch’essi raggiunsero Cipro. Quelli di Beirut, troppo fiduciosi, accettarono di capitolare con onore, ma i saraceni li disarmarono e li impiccarono tutti.

Jacques de Molay

Thibaud Gaudin morì nel 1293 e gli successe Jacques de Molay. Aveva ricevuto il bianco mantello nella commenda di Beaune nel 1267, dalle mani del dignitario Hugues Péraud. Era un uomo sulla cinquantina. Che cosa avrebbe fatto dell’Ordine del Tempio? E quale era la situazione di questo nei confronti degli Ospitalieri e dei Cavalieri Teutonici? La peggiore, certamente. Gli Ospitalieri possedevano notevoli beni nell’isola di Cipro; in mancanza di attività militari, potevano continuare a curare malati e feriti e a raccogliere i profughi della Terrasanta. I Cavalieri Teutonici, ben prima della caduta di San Giovanni d’Acri, avevano trasferito il grosso delle loro forze in Prussia, dove conobbero la fortuna straordinaria che sappiamo: possiamo infatti considerarli come i lontani fondatori di quel regno e dell’impero tedesco. A Cipro i Templari erano come degli stranieri: la loro vocazione essenzialmente militare li rendeva ormai inutili, se non sospetti. Jacques de Molay dovette probabilmente comprenderlo, ma invano cercò di ricuperare, nel 1303, l’isola di Tortosa per stabilirvi una solida base di partenza per una eventuale, illusoria riconquista. Due soluzioni gli si offrivano: o rientrare in Occidente, ma a quale scopo?, o negoziare l’acquisto di territori dai ciprioti e dagli Ospitalieri per insediarvi la casa madre e apprestare la rivincita. Preferì la prima soluzione e rientrò in Francia, alla testa di un corteo quasi principesco che non conveniva certo al capo di un esercito glorioso ma vinto.
Era un uomo privo di genio, ed è inevitabile osservare che in due circostanze capitali per la sopravvivenza dell’Ordine i Templari fecero delle scelte errate: quando elessero Gerardo di Ridfort, il triste avventuriero, prima della sconfitta subita a Hittin (1187), e quando designarono Jacques de Molay. Erano necessari un carattere solido, uno spirito sottile e pronto, un uomo della tempra di Roberto di Craon. Jacques de Molay, un uomo certamente coraggioso e onesto, anche se di lui non sappiamo quasi niente, mancava però di discernimento e di immaginazione: appare esattamente come uno di quei personaggi che, giunti alle più alte cariche dopo anni di subordinazione e di attesa, vi si installano comodamente e si pavoneggiano senza scorgere il pericolo che li insidia, senza riuscire a credere che le istituzioni non sono immutabili. La fine eroica, esemplare che seppe fare di fronte ai suoi carnefici, il moto superbo di rivolta che nacque in lui lo poterono certamente redimere, ma non riescono a mascherare la sua povertà intellettuale. Povertà reale e non presupposta, e che traspare da almeno un documento irrefutabile: la memoria che presentò al papa sul progetto di fusione dei Templari con gli Ospitalieri.
L’idea di questa fusione risaliva a prima della caduta di San Giovanni d’Acri. Era un mezzo per placare le rivalità e per coordinare gli sforzi per la salvezza della Terrasanta. Il progetto, dibattuto al Concilio di Lione (1274) sotto il papa Gregorio X, poi ripreso da Nicola IV e da Bonifacio VIII, era stato abbandonato, ma Filippo il Bello lo ripropose a Clemente V. L’iniziativa del re di Francia aveva come pretesto un ipotetico tentativo di riconquista dei luoghi santi, ma in realtà era un tentativo di porre gli Ordini militari sotto il dominio unico di uno dei suoi figli, in altri termini sotto il suo controllo personale. Il papa Clemente V consultò Jacques de Molay, ed egli rispose con una memoria che testimonia la sua limitatezza di spirito, se non la sua meschinità. Egli giudicò il progetto poco onorevole per due Ordini così antichi, e pieno di pericolo per le anime, giacché il diavolo non avrebbe mancato di accendere contese. Le fortune dei due Ordini erano ineguali e la divisione non poteva che risultare comunque ingiusta. Anche le Regole erano molto diverse, e sarebbe stato troppo difficile costringere i fratelli a cambiare abitudini. I poveri non ci avrebbero guadagnato nulla, anzi avrebbero rischiato di perdere il cibo che ricevevano dai Templari. Non si potevano lasciar sussistere due commende in una sola città. Bisognava dunque che una di esse fosse smantellata. La riduzione del numero dei commendatari, che ne sarebbe inevitabilmente seguita, non poteva che diventare fonte di gravi discordie: lo stesso per i dignitari. Si pretendeva che l’unione dei due Ordini potesse mettere fine alla loro rivalità; ma ciò avrebbe danneggiato la Terrasanta. «Perché essa ha sempre procurato onore e comodità ai cristiani e tutto il contrario ai saraceni, perché quando gli Ospitalieri armavano una spedizione contro i saraceni, i Templari non avevano pace finché non avevano fatto altrettanto o anche più, e la cosa era reciproca». Secondo lui, se tale rivalità non fosse esistita, Templari e Ospitalieri non si sarebbero tanto affannati! I pellegrini non sarebbero stati raccolti, e un così gran numero di sergenti non avrebbe potuto trovare rifugio. Il solo vantaggio, che egli vedeva nella fusione era la riduzione delle spese. Credeva anche che sarebbe stato più facile difendere diritti e beni in caso di contestazione: «È noto», egli scrive, «che tutte le nazioni un tempo erano molto devote ai religiosi; ma ciò è mutato, perché si trovano persone molto più disposte a prendere che a dare...». Un’argomentazione, bisogna riconoscerlo, assai modesta. Come se la Terrasanta appartenesse ancora ai cristiani e gli Ordini militari, e gli Ordini militari dovessero continuare a scortare pellegrini e a reclutare sergenti o mercenari. E il gran maestro del Tempio redigeva questo strano documento anni dopo l’ultimo fallito tentativo di sbarco nell’isola di Tortosa: sapeva dunque che la sconfitta era definitiva. È legittimo chiedersi allora che uso contasse di fare dei soldati e delle ricchezze del Tempio. D’altra parte, se era sincero, se credeva veramente di tornare in Terrasanta a ricuperare i castelli perduti, che assenza di sagacia, di capacità di giudizio! Ma forse il pover’uomo temeva, nella sua vanità, di dover cedere la carica al gran maestro degli Ospitalieri. Altri, identificandosi nell’Ordine, avrebbero fatto valere l’immensità dei suoi sacrifici in termini eloquenti. Oppure, pensando al fine ultimo del Tempio, avrebbero cercato di capire se l’interesse della Terrasanta si poteva o no inserire nel progetto di fusione. Ma Jacques de Molay non ebbe né profondità né eloquenza. Sorpreso dalla richiesta di Clemente V, si perse nei dettagli senza cogliere l’essenziale.

L’ordine di arresto

Filippo il Bello venne sventuratamente a conoscenza di questa memoria. Comprese bene che specie di uomo aveva di fronte e operò di conseguenza, ma con cautela. Anche se l’opinione pubblica non era favorevole al Tempio quanto lo era stata prima della perdita della Terrasanta, non era nel suo insieme ostile in quanto non lo riteneva ancora responsabile del disastro. La morte di Guglielmo di Beaujeu, il sacrificio dei Templari ad Acri erano ben noti. Erano stati uomini di grande valore. Il popolo ripeteva anche troppo che il re di Francia e i prelati non avevano fatto tutto il loro dovere. Se si arrivava a dimostrare che il Tempio era colpevole, sarebbe stato un gioco da ragazzi imputargli anche la disfatta. Ma al conclave di Perugia un traditore aveva proferito contro l’Ordine accuse spaventose. Si chiamava Esquieu de Floyran. Aveva comunicato prima di tutto le sue informazioni al re Giacomo II d’Aragona, che lo aveva respinto. Invece Filippo il Bello lo ascoltò con compiacenza. Immediatamente vide, con la sua intelligenza superiore e il suo spirito diabolico, che cosa poteva trarre da tali ammissioni, se si fosse attribuito loro un elemento di verità. I giuristi del suo consiglio, e soprattutto Guillaume de Nogaret, si affannarono alla ricerca di testimoni del genere di Esquieu. Li trovarono tra i fratelli espulsi dall’Ordine. Il re comunicò a Clemente V queste informazioni calunniose; il pontefice non risiedeva a Roma, bensì a Poitiers, un particolare che ha la sua importanza. Clemente V nascose il fatto che le accuse erano false, o almeno esagerate. Ma, ospite forzato del re di Francia, al quale doveva la sua elezione, era altresì un uomo incerto, senza volontà di fronte a questo principe tanto ardito e cinico da avere fatto schiaffeggiare papa Bonifacio, che ne morì di vergogna e di dolore. Clemente V era capace solo di gesti velleitari, di piccole rivolte senza futuro, e tremava all’idea di perdere il suo posto, preferendo i consigli oziosi dei suoi cardinali alle decisioni pronte. Non sapeva ancora che partito prendere quando il gran maestro del Tempio lo trasse d’imbarazzo. Avuto sentore delle calunnie che venivano misteriosamente diffuse sull’Ordine, Jacques de Molay chiese al papa di aprire un’inchiesta. In sé, questa rivendicazione implicava un’affermazione d’innocenza. Ma, in quella situazione, era un errore. Il 24 agosto 1307 Clemente V annunciò a Filippo il Bello che avrebbe aperto l’inchiesta e quindi desiderava certe precisazioni. Il re comprese che Clemente V si sottraeva così alle sue pressioni; che, se avesse avuto luogo, l’inchiesta sarebbe stata lunga e non avrebbe approdato a nulla più di qualche riforma superficiale. Un possibile risultato poteva essere che, subordinando più strettamente il Tempio al papato, questi potesse finalmente disporre di una forza militare che fino allora gli era mancata. Ma Filippo il Bello non voleva che Clemente V sfuggisse al suo controllo. L’idea che lo guidava era la statalizzazione di tutte le istituzioni del suo regno, e inoltre voleva intervenire direttamente nelle scelte dei vescovi, la cui influenza era grande. Anche se il termine assolutismo non era ancora stato coniato, era a questo che Filippo il Bello tendeva.
I suoi consiglieri, Guillaume de Nogaret ed Enguerrand de Marigny, lo aiutarono in questa impresa, trasformando insensibilmente il vecchio diritto consuetudinario in diritto scritto, e sforzandosi di costituire una amministrazione polivalente ed efficace.
Le «prove» che essi avevano portato al re in merito alla colpevolezza dei Templari erano giuridicamente inattaccabili: permettevano di realizzare la distruzione del Tempio senza correre troppi rischi. Perché, da re autoritario, Filippo il Bello non poteva tollerare l’esistenza nel suo regno di una simile organizzazione, tanto più che il Tempio aveva trasferito la sua «capitale», cioè la sua casa madre, a Parigi. Il Tempio costituiva un territorio nel territorio, con le...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. LA VITA QUOTIDIANA DEI TEMPLARI NEL XIII SECOLO
  4. Bibliografia
  5. I. Il destino del Tempio
  6. II. Ugo di Payns
  7. III. La bolla di Innocenzo II
  8. IV. Come veniva ordinato un Templare
  9. V. La vita conventuale
  10. VI. La disciplina
  11. VII. Le commende d’Occidente
  12. VIII. Le commende d’Oriente
  13. IX. Dolore e collera
  14. X. Passione e fine del Tempio
  15. Appendici
  16. Indice