Orti di guerra
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Orti di guerra

  1. 208 pagine
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Orti di guerra

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In tempo di guerra, qualsiasi spazio diventa buono per seminare: in casa, nella vasca da bagno, nel bidet o dentro scatole di scarpe." Gli orti di guerra servono a fare di pochi ritagli una speranza di nutrimento per il futuro; in questo libro Edoardo Albinati riesce a coltivare la scrittura proprio in questo modo, seminando frammenti di cuore e parole nelle righe recintate delle pagine: canzoni, notizie di giornale, visioni tv, echi di classici, massime filosofiche - dalla politica al calcio, dalla musica alla scuola, dal sesso al cibo ai videogiochi. Una raccolta di appunti letterari da consultare liberamente e in cui perdersi che accompagna il lettore alla scoperta di sentieri ricchi di bellezza, umorismo, poesia e intelligenza, rivelandoci tra le righe significati inaspettati.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2017
ISBN
9788858688700
Argomento
Storia

1995

Ma se il sale perdesse il suo sapore,
con che cosa lo si potrà rendere salato?
Mt 5,13
Quando dico fermati, continua.
King Crimson
177. PRIMA DI PARTIRE PER MILANO misi nella borsa assieme al beauty il Vangelo secondo Matteo regalato dall’«Unità», e lo lessi in cinque ore. Se da Termini ero partito ateo, alla Centrale arrivai cristiano. Già a S.M. Novella avevo dovuto asciugare di nascosto le prime lacrime di gioia. Subito mi attaccai al telefono per diffondere la buona novella. Purtroppo non riuscii a evitare di servirmi delle solite formule ironiche («Matteo scrive da dio, proprio nel senso che nel suo Vangelo è Dio in persona a dettare: il linguaggio è troppo spaventosamente diretto e semplice per essere di origine umana. Non c’è diaframma, o resistenza del mezzo.» «Ma avevi preso il Pendolino?», «No, un normale Intercity: col tempo che ci mette il Pendolino si può al massimo leggere Marco, che è trenta pagine più corto») ma esse non scalfivano il diamante: erano fiato sul diamante.
178. L’INFERNO è un grande immondezzaio che brucia tutto il giorno e anche la notte, si vede un filmo rosso salire al cielo e sotto la coltre fiammeggiante dei rifiuti figure torcersi senza mai morire del tutto. Lì vengono gettate le carogne di cani e cavalli e le salme dei delinquenti giustiziati: il fuoco è una primitiva misura di igiene. La carne brucia come la plastica, si annerisce, si scioglie, crepita, le scaglie di cenere lanciate in alto dalla vampa sfarfallano impazzite per planare lontano quando sono fredde.
179. HO SOGNATO DI VEDERE SANT’AGOSTINO sulla strada di Pavia con le sue ossa in un sacco. Gli ho domandato: «Perché vai da solo, perché non ti fai aiutare? Il carico dev’essere pesante e tu sei vecchio ormai». Mi rispose dolcemente: «Non ti preoccupare: la mia fatica, la mia perdita di forze è per voi comunque un guadagno. Mi aspetta un cielo d’oro in cambio di tutto questo – via, non sono mica un ingenuo». Costeggiava il naviglio e a tratti spariva nella nebbia, ma l’odore d’acqua lo guidava.
180. FUGGONO I MONACELLI come vento, salgono le scale, gli cade il messale, hanno mazzi di chiavi e una scarsella al fianco, e laggiù, quei signori col turbante (chi sono? che razza di posto è questo?) perché non scappano anche loro a larghissime falcate? Ingobbito dal lavoro nel deserto (che faticaccia imparare l’aramaico, parola per parola, ma ne valeva la pena) Gerolamo introduce il giallo ospite dai morbidi zamponi color sabbia. Tra bestia e uomo, uno scambio di cortesie che riporta ai vecchi tempi, ai banchetti conviviali dell’Eden… invece è il panico. Frullano via le tonache, i sandali paiono alati. Cosa ci fanno i cervi e i fagiani, i pavoni (e poi… un lasso? o una grossa puzzola?) nell’aia di un monastero? Ma gli artisti amano la varietà del creato e la ficcano in ogni centimetro di quadro.
181. UN SAMURAI si era messo a pescare in riva al fiume. Pescò tutta la mattina e prese parecchi pesci, ma quando fece per alzarsi e andarsene si accorse che un gatto affamato glieli aveva divorati tutti, man mano che lui li gettava nel cesto alle sue spalle. Adirato, sfoderò la spada e fece a pezzi il gatto. Da quel giorno l’immagine del gatto ucciso cominciò a perseguitarlo. Non c’era momento della giornata in cui non gli apparisse davanti la figura del gatto, viva e intera, come se il samurai non l’avesse nemmeno sfiorato con la spada, e di notte, era sempre il fantasma miagolante del gatto a visitarlo, gli saltava sul petto, mozzandogli il respiro, oppure gli tirava via le lenzuola coi denti. Ormai il samurai viveva nell’angoscia e nel rimorso. Le bande di gatti randagi che circolavano per strada, strusciandosi contro gli alberi e tra i rifiuti, lo riempivano di terrore, poiché egli s’immaginava che nascosto tra loro ma pronto a balzar fuori e a graffiargli il viso a sangue, ci dovesse essere il gatto fatto a pezzi da lui. Non potendo più vivere, il samurai decise di recarsi da un maestro per ricevere consiglio. Gli raccontò la sua storia. Dopo averlo ascoltato, il maestro disse al samurai che non c’era altro da fare per lui che togliersi la vita. Il samurai, pur tremando per il terrore, decise di seguire il consiglio: tornò a casa, si spogliò, si cinse la testa e il ventre con una fascia bianca e afferrata la spada, la stessa con cui aveva ucciso l’animale, s’inginocchiò, dicendo le ultime preghiere, ma proprio mentre si apprestava a immergersi la spada nel ventre, ecco il maestro entrare in casa sua. «Sei pronto a morire?» chiese il maestro, e il samurai disse di sì. «Pensi ancora al gatto?» chiese il maestro, e il samurai disse di no. Allora il maestro disse che il samurai era libero e poteva vivere.
182. UN GIORNO IL DIO ESHDU percorreva un sentiero in mezzo a due campi. Egli vide in ciascun campo un contadino al lavoro, e decise di giocare loro uno scherzo. Si infilò un berretto bianco su un lato e rosso sull’altro, verde davanti e nero dietro; sicché, quando i due contadini verso sera fecero ritorno al villaggio, uno disse: «Hai visto, oggi, quello strano vecchio che è passato con un berretto bianco?», e l’altro rispose: «Certo che l’ho visto, però il berretto era rosso». Al che il primo replicò: «No, era bianco»… «Ti dico che era rosso»… «Be’ vuol dire che il sole ti ha dato in testa»… «No mio caro, sei tu che sei ubriaco»… I due contadini andarono avanti così per un po’, accalorandosi, finché vennero alle mani, ciascuno estrasse il coltello, colpì l’altro e l’ammazzò.
183. IN SOGGIORNO TI RADEVI le gambe con un bic, ed eri arrivata a un punto che richiede perizia, be’, le persone sfrontate sono spesso capaci di delicatezza, ed era proprio il giorno dell’audizione. Nobili spettatori, noi celebriamo il ritorno alla ragione, dopo anni di cecità. E vi invitiamo ad aprire gli occhi e allungare le mani sulla bellezza che dormiva su sette cuscini di damasco. Le nostre danzatrici si esibiranno completamente nude, i nostri spadaccini hanno baffetti pieni di verve, ma non crediate che si tratti di una parodia perché il testo originale, sì, quello che i rabbini si studiano fino all’ultima goccia d’olio nella lanterna e all’ultima diottria, noi non l’abbiamo mai letto. Mai. Però abbiamo visto il film, va bene lo stesso? Le prove si sono svolte regolarmente nel salotto dell’hotel e ci volevano cuori infrangibili di turista per resistere alle lacrime, quando anche l’ultimo velo è caduto e le finestre hanno tintinnato, hanno vibrato, quasi un anticipo sulle recensioni positive. La sera del venerdì il cielo si rannuvolò e tuonò, la Maddalena baciò il ragazzo e scese dalla moto per comperare un test di gravidanza che comunicasse inquietezza, poiché gli spettatori desiderano la vita e al tempo stesso la temono, vorrebbero sospenderla e trasformarla in non-vita, in attimi lucenti, in quadri, almeno fino a quando calerà dall’alto un deus-ex-machina nuovo di zecca e lei potrà uscire da una porticina senza essere notata, riagganciandosi in fretta gli orecchini che hanno dato inizio alla storia, uno dei tanti doni scambiati sotto un muro scrostato e di cui in fondo sappiamo il poco che sappiamo. Non bastano i ritagli di giornale a ricordare Berlino o a dirle addio, se qualcuno di voi è convinto che il muro sia quello, e perché poi non dovrebbe esserlo, perché non concedere qualcosa all’attualità, o almeno usarla come sfondo? Oh, ma se i gioielli parlassero, se le lamette di rasoio acquistassero il dono dell’eloquenza, se le bottiglie vuote reclamassero tutto lo spirito che ne è uscito e il fiume al disgelo riprendesse a scorrere ma al contrario, verso la fonte, questo brano allora potrebbe terminare ad personam, con la sola nota che suona e vibra nella stanza da quando sei entrata, parlandoti ancora un poco ma sempre di meno e quasi bisbigliando, lagnandosi scioccamente di te, così.
184. NATALE È UNA PAROLA che viene portata su cuscini di velluto, e tutti si mettono in fila per reggerli in alto e cantare la loro smania di gioia. Il sole è andato sotto la neve e brilla sotto i pattini lucidi delle slitte: dove andrà tutta questa gente, a quest’ora? Spettinati capelli biondi e pellicce. Carni conservate dal freddo. Ma per fortuna non è una scena di teatro, anche se il pavimento di legno scricchiola e la gente entra ed esce di lato per andarsi a cambiare. I bambini reggono la menzogna con immenso savoir-faire. Hanno pietà degli adulti che, loro sì, si scatenano per davvero col cibo, coi baci sulle guance, con le ugole, con le mani che possono raggiungere chiunque sopra o sotto il tavolo. Una volta nel regno delle luci non ci si immaginava nemmeno cosa potesse significare una candela. In questa famiglia esiste un certo benevolo culto dell’errore, far l’amore non con la propria moglie, spegnere candele con un peto, credere alle finzioni che non sono la cura più adatta a un cuore stanco. Quando muore un padre finalmente ci si accorge che era un tipo difficile; eppure chiunque venga dopo di lui sarà più buio. L’amore non è una cosa che ci si possa guadagnare, tanto vale meritarsi l’odio. Non ho mai conosciuto un sentimento tanto aderente alla realtà, tanto logico, tanto umile, tanto onesto come l’odio. Un giorno di questi le figure si staccheranno dalla tappezzeria della camera da letto e scenderanno a recitarci la filastrocca dei guai piccoli e grandi, le bugie, la stanza lasciata coi giocattoli in disordine, il pezzetto di carne masticato da sputare di nascosto in una mano e una vasta gamma di infrazioni che nascono dal desiderio di guardare dal buco della serratura le infrazioni dei vecchi, le loro simpatiche porcherie. I preti che sposano fanno sempre un certo effetto dalle nostre parti. Quale aiuto potrà dare una religione il cui simbolo è un uomo torturato a morte? Ma c’è posto per nascondersi dentro una cassapanca col cuore in gola e poi morire col rumore di passi nelle orecchie. Il sangue e la neve formano un contrasto classico, come le fiamme col velluto e la malattia interiore. Ora viviamo anche noi col vecchio ebreo perché l’ebreo vive in noi, noi siamo gli ebrei dell’immaginazione e raccogliamo a bottega le cianfrusaglie a cui nessuno presta più fede, la mummia che respira, i candelieri, i libri magici, i doni dei re asiatici che saturano l’ambiente. Conosco gente che fece la lista di nozze in un luogo così e la rifarebbe se si risposasse dieci volte. Ma c’è dell’altro. Forse all’inizio, molto all’inizio ci fu un bacio dato da un ragazzo a un altro ragazzo, lo mettiamo solo a questo punto per non scandalizzare dicendo che l’aveva ricevuto dall’angelo custode. È lui che guida Alexander e gli soffia in un orecchio: ogni volta che parla, al bambino si aprono gli occhi e comincia a vedere. Guarda diritto nel futuro. Non aver paura. Saranno gli altri a morire al posto tuo. Non uscire adesso, non credere di avere visto tutto solo perché la parte brutta si è conclusa: «lo scandalo comincia quando la polizia vi mette fine», ecc. ecc. Che bello quando Dio in persona si decide a intervenire: ricordo il torace di Yul Brinner com’era teso quando gli arrivarono le cavallette per la sua cocciutaggine a non lasciare andare via gli Ebrei. Qui è un burattino immenso che pesta i piedi e mette fine alla storia con il fuoco, il fuoco questa volta, non la prossima. L’angelo disoccupato scese in strada per comprare le uova da dipingere. Suonarono i campanelli e la casa riprese vita. Tornò il tempo della danza e della festa, e dei capellini biondi incollati sulla fronte umida dei neonati, degli appena partoriti, dei comunque scampati, gran miracolo che ci si voglia del bene a Natale! E dunque? E dunque è necessario essere felici quando è tempo d’essere felici (anche se a Claudio Magris questa parve una morale rozza e troppo esplicita), mangiamo e beviamo e al diavolo l’astrologo. Almeno per una notte. La notte è una striscia di spanglass incollata dai macchinisti dietro le tendine. (Spero che a mia madre piaccia almeno quest’ultima frase: però, chi spera, spera sempre in una favola.)
185. IL CORPO DI TALLEYRAND fu svuotato dagli imbalsamatori, che lavorarono fino a sera, le maniche rimboccate, sul tavolo della cucina in rue de Varenne 50. Quando furono andati via, un domestico rassettò la stanza per potervi preparare la cena e ramazzando sotto il tavolo venne fuori un mucchietto di polpa grigiastra, il cervello di Talleyrand, che gli imbalsamatori avevano scordato di portar via assieme agli altri organi. Il domestico pensò a lungo cosa dovesse farci, poi mise il cervello in un secchio e uscì di casa. Poco distante dalla casa di Talleyrand correva una fogna a cielo aperto; il domestico ci andò e svuotò il secchio nel rigagnolo.
186. NELL’ORTO LE SERVE raccoglievano ciliegie e cantavano in coro ubbidendo a un ordine preciso, che era stato impartito per tenere occupate quelle bocche maliziose col canto ed evitare che si mangiassero le ciliegie.
187. UN GIORNO UN ELEFANTE ENTRÒ nel cortile di un ospizio per ciechi. I ciechi gli si fecero intorno, attirati dal trambusto, e siccome l’animale se ne stava tranquillo in mezzo a loro, cercarono di capire di che bestia si trattava e cominciarono a palparlo. Il primo gli abbracciò una zampa e concluse che si doveva trattare di un drago. Il secondo palpò a lungo la proboscide e disse che quella creatura era un serpente; il terzo tastò il fianco dell’elefante e dichiarò che non era una bestia, ma un muro; e anche il quarto che aveva afferrato la coda affermò che quell’animale era proprio strano, somigliava a una corda. Il quinto si attaccò a una zanna dell’elefante, il quale alzò la testa e sollevò il cieco da terra. Sospeso per aria, il cieco ebbe un’illuminazione e capì qual era la forma vera dell’animale: «Parola mia, è un elefante!», ma gli altri risposero in coro: «Ma dai!». L’elefante, come era venuto se ne andò, pregando in giro di non attribuire all’episodio alcun significato filosofico.
188. UN GIORNO TUTTE LE MEMBRA UMANE si accordarono a essere nemiche del signor culo, e lo misero sotto processo. Fu scelto come giudice il saggio Ippocrate, quel gran dottore conoscendo meglio di ogni altro la fisiologia umana. Le imputazioni contro il culo erano che fosse uno scansafatiche, dato che se ne stava gran tempo a sedere, e che puzzasse, e che venisse tenuto nascosto sotto i vestiti perché la gente ne aveva vergogna. Il culo era perfettamente consapevole della propria innocenza, dunque accettò il processo e si difese con coraggio, dote che non gli difettava. Questi furono gli argomenti con cui ribatte alle accuse mossegli dalle altre membra: «Io sono il portinaio del corpo, bado alla sua nettezza e porto fuori la sporcizia prodotta da voialtri; di mia natura sono assai pulito e discreto, invece di esibire il mio lavoro lo nascondo; l’uomo non può fare senza di me altrimenti si gonfierebbe e scoppierebbe; e la prova sta nel fatto che la natura mi abbia posto in un luogo tanto sicuro e riparato». Ascoltatolo parlare così assennatamente, e riflettuto su ciò che fosse giusto, Ippocrate diede ragione al culo e condannò i suoi accusatori a un’itterizia cronica.
189. TI AMO, CITTÀ! Sei così piena di stelle, la glassa si posa sull’anima, imparo a scrivere l’alfabeto cristiano su un quaderno a righe grandi; le telefonate girano su una ruota, la corona della verità è sulla tua testa, ma i tuoi pigri abitanti non ascoltano mai quello che avrebbero da dirgli i colpi di remo, i binari, le zoccole di fiume, lo zucchero in cubetti; dalle tasche degli impiegati si sono levati in volo gli aerei trascinando striscioni pubblicitari di prodotti antiquati; oh mio popolo in maniche di camicia riscuotiti; bombole volate a casa a preparare il pranzo; fiammata alzati dal letto che è ora; le rovine mugolano, quando verranno a liberarle? Quando finiremo di vincere ’sta guerra? I nomi all’anagrafe erano scritti a matita, fili di paglia nel fiume; e a voi vi ricordo pastori che intagliavate figurine nel legno, poiché cantare non bastava a passare il tempo, una sintassi di panni annodati che non si asciugano.
190. È GIUGNO, è giugno, non mi stanco di annunciarlo, fioriscono i ciliegi nelle poesie cinesi lette a bassa voce dai poveri e dagli infermi. Le nubi al tramonto sono infiammate come membra infette. La città si ridisegna per la notte illusoria. Non c’era parcheggio di fronte ai Santi Cosma e Damiano e mi accontentai di farmi il segno della croce davanti ai volumi della Treccani comprati da mio padre con spiccioli di plusvalore. I mosaici avevano gli occhi sbarrati dai troppi problemi personali confessati lì nei secoli dei secoli, bimbi illegittimi deposti in una cesta nottetempo, eppure so che sarei tornato a vederli una volta prima di morire, potrei andarci pure domani, in autobus ci vuole una mezz’ora, ma non lo farò: è giugno e bisogna buttare il tempo come una fontana butta acqua, spostarsi nella striscia di sole, guardare al microscopio dei bambini una spiga di frumento. L’acciaio delle fusoliere luccica a Phew-mee-chee-now… la carta da pacchi dove hai posato la mano è calda come pane… calando a meridione l’Italia si fa porosa… mi sorge un dubbio, controllo sul calendario, non siamo ancora a giugno: è dicembre.
191. ERA GIUGNO, LA CITTÀ CALCINATA, Giuditta attraversava la piazza del mercato con la testa di Oloferne in mano. La portava alla maniera di una lanterna nel buio, col braccio teso, malgrado dovesse pesare, come Flaubert dice che pesava la testa del Battista. Ora bisogna precisare che la testa mozza non era affatto terribile o schifosa: gli occhi di Oloferne guardavano pieni di sonno e se dagli angoli delle labbra piegati all’ingiù rotolavano fuori righe di sangue bavoso, l’atteggiamento di quella bocca sembrava semplicemente deluso, scontento di sé e della propria maledetta ingenuità. Un generale assiro con un nome persiano, non si era mai sentita una roba del genere, e tutti i deserti dell’antichità cominciavano a risuonare di quel nome che aveva ceduto a un paio di occhi di ebrea. Aveva agito bene, Giuditta, ricorrendo all’inganno della seduzione, al sotterfugio erotico? Boh, risposero all’unisono i moralisti dopo avere fatto bene i conti sui papiri più lunghi in commercio a Betulia. Era l’ora di punta al mercato. La gente esplose in un hurrah! vedendo la testa del tonto assiro penzolare per i boccoli di cui, da vivo, era andato tanto orgoglioso e che si lucidava tre volte a settimana con olio di palma affinché l’aria mortifera del deserto non li sciupasse. Giuditta per la verità non disse nulla di bellicoso, non fece i proclami che ci si poteva aspettare e ciascuno fu libero in cuor suo di immaginarsi il lavoro della scimitarra sulla gola del generale e (in un flash) la sequenza promesse-sguardi-carezze-vino-castrazione, sicché parecchi maschi in quella piazza soffrirono identi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. ORTI DI GUERRA
  4. 1993
  5. 1994
  6. 1995
  7. 1996
  8. Tavola
  9. Note