Il cervello di Siddhartha
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Il cervello di Siddhartha

I segreti dell'antica scienza dell'illuminazione

  1. 360 pagine
  2. Italian
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Il cervello di Siddhartha

I segreti dell'antica scienza dell'illuminazione

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V secolo a.C., India del nord: Siddhartha Gautama - il ricco figlio di re che si è fatto asceta itinerante e sarà conosciuto come il Buddha, l'illuminato - sviluppa un metodo basato sulla meditazione e la consapevolezza per padroneggiare la mente e raggiungere la pace interiore.Oggi, venticinque secoli dopo, nonostante l'uomo abbia trasformato radicalmente il mondo che lo circonda, c'è una cosa che non è ancora cambiata: il suo cervello. Uno strumento potente, che gli ha dato il predominio sulla natura, ma che contiene in sé anche alcune debolezze strutturali.I più recenti studi sul disagio mentale, infatti, hanno portato gli esperti del settore a sfumare la classica distinzione tra malattia e salute, e a ritenere che la causa delle difficoltà e del dolore così ampiamente sperimentati dall'uomo moderno sia almeno in parte attribuibile al modo in cui si è evoluta la nostra mente, alla sua "configurazione standard".E se i problemi psicologici oggi più diffusi - distrazione, ansia, dipendenze - fossero già stati risolti dal Buddha, nell'antica India?Kingsland, apprezzato giornalista scientifico e buddhista praticante, ripercorre il viaggio spirituale di Siddhartha e contemporaneamente illustra i più recenti sviluppi delle ricerche condotte da neuroscienziati e psicologi clinici - molti dei quali intervistati nel libro - dalle quali risulta che la mindfulness, la meditazione praticata dai monaci buddhisti, può contribuire a riconfigurare il cervello, rendendolo più acuto, più sano e più felice, oltre a incrementare le difese immunitarie, contrastare l'invecchiamento e moderare gli effetti delle malattie degenerative che colpiscono il cervello. Un viaggio nella mente ricco di suggerimenti e ispirazioni, con sei brevi guide alla meditazione, per poter apprezzare da subito i benefici della mindfulness.

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788858688854

1

Il paese dei balocchi

Siamo ciò che pensiamo. Tutto ciò che siamo sorge con i nostri pensieri. Con i nostri pensieri formiamo il mondo. Parla o agisci con mente impura e sarai seguito da guai, così come la ruota segue il bue che tira il carro.
Dhammapada, verso 1
Provate a immaginare un boschetto rigoglioso in una serata tiepida e tranquilla di fine primavera. Il frinire delle cicale e il gorgoglio di un ruscello che si fa strada tra gli alberi sono gli unici rumori. Al centro del boschetto c’è un vecchio fico con un largo tronco nodoso e foglie di un verde brillante, a forma di cuore, con le punte affusolate. Seduto a gambe incrociate sotto l’albero, quasi nascosto nell’ombra proiettata dal sole al tramonto, c’è un uomo magro, vestito di stracci. Lo si distingue a malapena, ma se vi avvicinate non potrete non notare gli occhi infossati, i solchi delle guance, gli stracci che pendono dalle spalle ossute, nonostante sieda dritto come un fuso, saldo e incrollabile come il vecchio albero.
La nostra storia comincia sulle rive sabbiose del fiume Nerañjarā, vicino al villaggio di Uruvelā, nell’India settentrionale. Mancano ancora quattrocento anni alla nascita di Cristo, e i grandi pensatori dell’antica Grecia hanno appena iniziato a gettare le fondamenta della scienza e della filosofia. L’indiano emaciato che siede immobile sotto l’albero è Siddhartha Gautama, un vagabondo sui trentacinque anni. Qualche minuto prima del nostro arrivo ha divorato una ciotola di riso cotto nel latte di cocco, raschiando gli ultimi chicchi sul fondo. Era da un pezzo che non faceva un pasto completo, cosa che l’ha probabilmente salvato da una ingloriosa e prematura morte per inedia. In vecchiaia, parlando di quel periodo, Siddhartha avrebbe raccontato che dopo anni di privazioni terribili aveva cominciato a perdere i capelli. Le sue braccia e le sue gambe sembravano «viticci di vigna o canne di bambù. Mangiavo così poco che il mio didietro assomigliava allo zoccolo di un cammello». Le costole sporgevano come «le travi di un granaio sventrato», gli occhi erano così infossati nelle orbite da ricordare «il luccichio dell’acqua in fondo a un pozzo».1
Suo padre, Suddhodana – un uomo ricco e potente che era stato eletto capo o «re» del clan Shakya, nella loro remota repubblica settentrionale sulle colline dell’Himalaya – sarebbe inorridito nel vederlo in quello stato. Solo sei anni prima, il principe Siddhartha viveva tra gli agi e le comodità della reggia paterna di Kapilavatthu (Kapilavastu), la capitale della repubblica, circa trecentosessanta chilometri a nordovest di Uruvelā, vicino al confine tra l’attuale Nepal meridionale e lo Stato indiano di Uttar Pradesh. La sua famiglia apparteneva alla classe dirigente dei guerrieri, i kshatriya. Secondo la leggenda, quando Siddhartha era piccolo, otto bramini predissero che sarebbe diventato un grande condottiero, oppure avrebbe rinunciato al mondo per seguire la via dello spirito. Il re Suddhodana non era disposto a correre rischi inutili, non quando si trattava della futura carriera del figlio. Fece ogni sforzo per garantire a Siddhartha una vita protetta e sfarzosa. «Mio padre aveva fatto costruire vasche piene di fiori di loto riservate a me solo; nella prima galleggiavano fiori di loto azzurri, nella seconda fiori di loto bianchi, mentre quelli della terza erano rossi. Calzavo esclusivamente sandali fabbricati a Benares, e da lì venivano anche il turbante, la tunica, i calzoni e il mantello. Uno schiavo mi riparava giorno e notte con un parasole immacolato per proteggermi dal freddo e dal caldo, dalla polvere, dalla ghiaia e dalla rugiada.»2 Suo padre ordinò alle guardie del palazzo di tenerlo lontano da qualsiasi contatto con la malattia, la vecchiaia o la morte. Il re pensava che se fosse riuscito a proteggere il figlio dai lati sgradevoli dell’esistenza, Siddhartha non sarebbe stato attratto dalla vita spirituale, scegliendo così il cammino terreno e diventando un potente condottiero.
Quando Siddhartha compì ventinove anni, tutto sembrava andare secondo i piani. Era diventato bello e forte, aggiudicandosi la mano di una fanciulla incantevole in una gara di tiro con l’arco, come voleva la tradizione. Sua moglie aveva appena dato alla luce un bambino sano e robusto. Tuttavia, malgrado gli sforzi del padre, prima o poi Siddhartha doveva pur ritrovarsi faccia a faccia con la realtà della vita. Un mattino, mentre attraversava un parco sul cocchio, vide un uomo decrepito. Chiese al cocchiere che cosa avesse quell’uomo. Quello era ciò che succedeva alle persone che vivono molto a lungo, spiegò l’uomo: la mente e il corpo subiscono un declino progressivo. Dopo un po’ si imbatterono in un malato, e poi in un cadavere. Alla fine non c’era modo di fuggire dalla realtà. Nemmeno l’uomo più ricco e potente della terra poteva tenere lontane la malattia, la vecchiaia e la morte. In quel momento, Siddhartha si rese conto che perfino le cose più belle della vita, quelle più sublimi – i piaceri più sensuali –, erano destinate ad appassire. Niente era perfetto, e niente durava per sempre. Tutto ciò che amava era soggetto al cambiamento, alla morte e alla decadenza.
Il re dovette rendersi conto che il figlio non era più lo stesso. Sembrava distratto, depresso. Per rallegrarlo, quella sera Suddhodana invitò a palazzo musicisti e danzatori. Ma, come lo stesso Siddhartha avrebbe raccontato in seguito, quando si svegliò a notte fonda, adagiato tra i cuscini, gli artisti erano tutti immersi in un sonno profondo. Gli strumenti dei menestrelli erano scivolati per terra e le danzatrici, esauste, si erano accasciate sul pavimento. Erano uno spettacolo pietoso: «… alcuni avevano un filo di bava che usciva dalla bocca, alcuni digrignavano i denti, o russavano, o parlavano nel sonno; altri dormivano con la bocca spalancata, altri ancora avevano i vestiti in disordine…».3 La scena lo riempì di disgusto. Ciò che fino a poche ore prima era stato bello, sensuale e pieno di grazia era diventato brutto e sgraziato. Quindi è questo il risveglio dai piaceri terreni, pensò. Quando si ritirò nella sua stanza da letto e guardò sua moglie addormentata, in lui il desiderio morì, perché vedeva solo la vecchia che sarebbe diventata. Poi si avvicinò alla culla di suo figlio e provò a immaginarne il futuro: vide sé e lui girare a vuoto, intrappolati in una ruota di dovere, futili divertimenti, dolore, delusioni e morte.
Di fronte a quell’improvvisa crisi esistenziale, la soluzione sembrava ovvia. Sarebbe fuggito e avrebbe cominciato una nuova vita, libero dalle catene della casa e della famiglia. Avrebbe cercato una strada al di fuori del ciclo della sofferenza. Quel mattino, dopo avere incontrato per la prima volta gli orrori della malattia, della vecchiaia e della morte mentre attraversava la città in carrozza, un’altra creatura bizzarra aveva catturato la sua attenzione: all’angolo di una strada un uomo se ne stava seduto per terra a gambe incrociate, indifferente al frastuono e all’animazione intorno a lui, raggiante e sereno. Il suo cocchiere gli aveva detto che era un asceta errante, un cercatore della verità che viveva nelle foreste e si affidava alla generosità degli altri. A Siddhartha sembrò un messaggero divino che gli mostrava la via. «Nella primavera della vita, quando ero un ragazzo dai capelli neri baciato dalla benedizione della giovinezza – e mentre i miei genitori versavano fiumi di lacrime –, mi rasai barba e capelli, indossai una veste ocra e lasciai la dimora natale per darmi al vagabondaggio.»4 Fu così che intraprese la sua ricerca della «pace ineguagliabile» dell’illuminazione spirituale.
Benché siano passati duemilacinquecento anni, ognuno di noi può identificarsi nel giovane e viziato Siddhartha. Come lui, molti di noi sono cresciuti nel paese dei balocchi. La maggior parte degli abitanti del mondo sviluppato ha cibo in abbondanza; divertimento e distrazioni sono sotto casa, se non a portata di clic; la medicina e la chirurgia estetica ci danno l’illusione di poter sconfiggere la vecchiaia e la morte (quando in realtà non fanno altro che ritardare la fine e prolungare la vecchiaia). Se osserviamo la storia umana, fino a poco tempo fa il contatto con la morte era nell’ordine naturale delle cose, ma oggi i giovani trovano quasi impossibile immaginare che un giorno moriranno anche loro. Come Siddhartha, molti di loro crescono senza avere mai visto una persona deceduta con i propri occhi. La morte invade i telegiornali, i film e i programmi televisivi, ma la nostra dipartita rimane un argomento tabù. Forse crediamo inconsciamente che, se non ne parliamo, in qualche modo riusciremo a ingannarla. Più o meno per la stessa ragione, siamo restii a parlare di una malattia debilitante e fatale come il cancro. Naturalmente, queste illusioni sono destinate a infrangersi contro la realtà, ma forse conviene tenerle in vita il più a lungo possibile se ci consentono di condurre esistenze serene e appaganti finché siamo in salute. Se solo fosse così semplice. Nelle economie avanzate, a partire dagli anni Cinquanta molti di noi hanno goduto di standard di vita sempre più elevati e hanno potuto contare su sistemi di previdenza sociale e sanitaria via via più sofisticati, eppure, secondo le statistiche, in questo mezzo secolo il nostro livello di appagamento personale non è cresciuto in modo significativo. Siamo preda di quello che gli epidemiologi chiamano il «paradosso della felicità».5
Dove stiamo sbagliando? Le ricerche suggeriscono che, prima della salute fisica, del lavoro e del benessere materiale, la salute mentale è il primo fattore di felicità individuale nei Paesi sviluppati.
Luoghi fondamentali della vita del Buddha. Fonte: Narasit Nuad-o-lo
Luoghi fondamentali della vita del Buddha. Fonte: Narasit Nuad-o-lo
Purtroppo, a quanto pare, su questo fronte non ce la caviamo troppo bene.6 Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nel mondo 450 milioni di persone soffrono di un disturbo mentale o comportamentale (350 milioni sono adulti affetti da depressione clinica), un dato che fa delle malattie psichiatriche una delle cause principali di infermità e disabilità. Ogni anno, quasi un milione di esseri umani si suicida.7 Neppure i Paesi più ricchi sono immuni: nel Regno Unito, nel giro di un anno una persona su quattro si troverà ad affrontare un problema psichico di qualche tipo, probabilmente ansia cronica o depressione. Quasi il 6 per cento degli inglesi sopra i sedici anni riferisce di avere tentato il suicidio almeno una volta nella vita.8 Tra non molto, le malattie mentali peseranno sulla spesa sanitaria dei Paesi ricchi più di qualsiasi altra patologia, e l’OMS prevede che entro il 2030 la depressione diventerà il disturbo più oneroso in assoluto per le nazioni ad alto reddito.9 Secondo le stime, nei prossimi vent’anni il costo globale dei disturbi mentali sul prodotto interno lordo ammonterà a 16 trilioni di dollari.10
Nel 2015 a Londra ho assistito a una conferenza intitolata «La crisi globale della depressione». L’allora presidente dell’ONU Kofi Annan aprì i lavori con queste parole: «Parliamoci chiaro: a volte i titoli delle conferenze tendono a drammatizzare un po’, nel tentativo comprensibile di attirare l’attenzione su un problema ignorato. Oggi però non ci troviamo di fronte a un caso del genere. Definire la sfida della depressione una crisi globale non è affatto un’esagerazione». Nel sesto capitolo approfondirò il ruolo della psicoterapia ispirata alle pratiche di contemplazione buddhiste, nota come «terapia cognitiva basata sulla mindfulness» (MBCT), nel contrastare questa emergenza.
I soldi non fanno la felicità, ma di sicuro aiutano. Esiste una chiara correlazione tra povertà e malattie mentali. La storia dei primi anni di vita di Siddhartha sembra quasi un esperimento deliberatamente condotto dai suoi primi seguaci a beneficio delle generazioni future. Supponiamo che un essere umano abbia tutto ciò che si può desiderare: salute fisica, cibo in abbondanza, agi, comodità, piacere dei sensi, prestigio, una famiglia, sicurezza; tutte queste cose potrebbero davvero bastare a garantirgli una felicità duratura? La loro risposta, naturalmente, è no: la psiche umana è intrinsecamente imperfetta e, anche quando le circostanze sembrano ideali, ci impedisce di essere felici a lungo.
Questa fu una scoperta sconvolgente. Che cosa è andato storto nella mente umana? Sono in molti a cadere nella trappola di pensare che l’evoluzione funzioni come la storia della progettazione automobilistica – un’ordinata, lineare progressione che parte dall’equivalente di una Ford Model T per arrivare alla potenza e alla sofisticazione delle auto della Formula Uno – quando in realtà si è trattato di un processo caotico e frammentato. Siamo ancora qui, la nostra specie se la passa meglio di qualsiasi altra, ma il percorso è stato costellato di imprevisti. I balzi evolutivi non sono privi di controindicazioni. Per fare solo qualche esempio delle conseguenze dell’evoluzione sulla salute umana, nel corso di miliardi di anni il sistema immunitario degli invertebrati si è evoluto per proteggere il corpo dall’invasione dei patogeni, ma può anche rivoltarsi contro i propri tessuti e scatenare un ampio spettro di disturbi autoimmuni, tra cui l’artrite reumatoide, la sclerosi multipla e il diabete di tipo 1. Le cellule sono in grado di moltiplicarsi per rinnovare i tessuti e riparare i danni, ma possono anche scindersi in modo incontrollato e provocare il cancro. Gli individui provvisti di una copia di un determinato gene sono in grado di combattere l’infezione da Plasmodium, un parassita che provoca la malaria,11 diffusasi nell’Africa subsahariana migliaia di anni fa, con lo sviluppo dell’agricoltura. Ma due copie dello stesso gene sono all’origine della patologia dolorosa e potenzialmente letale nota come anemia falciforme.
La selezione naturale, ben lungi dal proiettarci verso uno stato di perfezione divina, in realtà non è altro che una serie di scomodi compromessi. Insieme agli innegabili vantaggi, il processo di adattamento comporta anche qualche inconveniente. Così è stato anche per l’evoluzione della mente umana. Certo, il nostro cervello, che Isaac Asimov ha definito «il mucchietto di materia meglio organizzato dell’universo conosciuto»,12 è un meraviglioso prodotto della selezione naturale, che può annoverare fra i propri tratti evolutivi il linguaggio e la creatività, eppure le statistiche dicono chiaramente che non è stato programmato per assicurarci stabilità psicologica e felicità duratura. Se la selezione naturale porta alla scomparsa dei geni che compromettono le facoltà di sopravvivenza e riproduzione, almeno a prima vista, le più comuni malattie mentali come la tossicodipendenza, l’ansia e la depressione non sembrano rientrare in questa legge universale. Pur avendo una forte componente genetica e causando una riduzione della prole negli individui che ne sono affetti, restano diffuse in tutto il mondo.13 Questo dato fa pensare che gli stessi geni che rendono alcune persone più a rischio di altre di contrarre tali malattie devono anche avere giocato un ruolo chiave nel garantire la sopravvivenza della nostra specie. Gli inconvenienti sono stati controbilanciati dai vantaggi.
Benché l’esatta natura di questa transazione resti ancora da stabilire, non occorre un’analisi approfondita per individuare gli esempi dei costi e dei benefici offerti dal sistema nervoso centrale. Ci siamo costruiti impulsi biologici come la fame, la sete e il desiderio sessuale, indispensabili alla perpetuazione dei nostri geni. I neurotrasmettitori del circuito cerebrale della gratificazione fanno sì che nutriamo i nostri corpi e ci riproduciamo. Ma ci inviano anche una scarica di energia quando divoriamo un’intera vaschetta di gelato al cioccolato oppure tiriamo una striscia di cocaina. Il circuito di gratificazione non solo ci fa tornare sistematicamente alle sostanze o alle attività piacevoli, ma dopo alcune reiterazioni diventa meno reattivo, il che significa che dovremo assumere dosi maggiori di una droga, un cibo o intensificare un’esperienza per ottenere lo stesso effetto. Forse, viziando Siddhartha e sommergendolo di piacevoli distrazioni, senza volerlo suo padre l’ha portato dritto verso il destino che stava cercando in tutti i modi di scongiurare. In un mondo caratterizzato dall’abbondanza, gli impulsi che ci aiutano a sopravvivere possono causare la nostra rovina in ambienti più ostili, trascinandoci in un vortice di desiderio, autoindulgenza, rimpianto e delusioni. Di questo mi occuperò nel settimo capitolo, dedicato alle dipendenze; studi molto promettenti parrebbero indicare che la meditazione può essere usata per tenere sotto controllo le crisi di astinenza, aiutare a smettere di fumare e a non ricominciare a drogarsi.
Appare evidente che molte delle nostre debolezze mentali sono riconducibili ai circuiti di risposta che nel lontano passato evolutivo permettevano ai nostri antenati di sopravvivere in altre circostanze. Un altro esempio è offerto dal meccanismo di attacco-fuga: la serie di stati psicologici orchestrata dal nostro sistema nervoso centrale e destinata, di fronte a una minaccia, a preparare il corpo per la lotta oppure per la fuga. Per un nostro antenato inchiodato a terra da un predatore affamato quel tipo di impulso cerebrale segnava la differenza tra la vita e la morte, ma anche oggi uno stimolo sensoriale che ci segnala un pericolo, come un rumore improvviso o una spinta sulla metropolitana affollata, innesca nel nostro organismo la stessa reazione. Inutile dire che sferrare un pugno al tizio che ci ha urtato accidentalmente sull’autobus non farà certo di noi o di lui individui più felici. Ancora peggio, sul lungo termine una ripetuta attivazione del meccanismo di attacco-fuga – anche noto come stress cronico – si rivela fisiologicamente e fisicamente dannosa, esponendoci al rischio di un attacco di cuore o di una malattia mentale.14, 15 Nel prossimo capitolo parlerò della risposta di rilassamento, la reazione che il corpo mette in atto per controbilanciare il meccanismo di attacco-fuga. La meditazione si è rivelata estremamente efficace nel favorire questo tipo di risposta fisiologica, aiutando le persone a gestire situazioni di stress e riportandole a uno stato emozionale più sereno e disteso. Vi fornirò qualche semplice istruzione perché possiate iniziare a praticare da soli questa forma di meditazione. In queste pagine affronteremo anche altre tecniche di meditazione, per darvi un’idea delle principali pratiche di mindfulness.
Le dipendenze e lo stress cronico sono tra i più comuni «difetti di progettazione» insinuatisi nel nostro assetto ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il cervello di Siddhartha
  4. Introduzione
  5. 1. Il paese dei balocchi
  6. 2. Il gioco di un bambino
  7. 3. La nube della non conoscenza
  8. 4. La seconda freccia
  9. 5. L’uomo che non c’era
  10. 6. Le pantofole dorate
  11. 7. Gli adoratori del fuoco
  12. 8. Un elefante ubriaco
  13. 9. La caduta
  14. 10. Mirabile e straordinario
  15. 11. Specchi della mente
  16. 12. Il regno senza morte
  17. Ringraziamenti
  18. Note
  19. Indice