Cercare mondi
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Cercare mondi

Esplorazioni avventurose ai confini dell'universo

  1. 182 pagine
  2. Italian
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Cercare mondi

Esplorazioni avventurose ai confini dell'universo

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Informazioni sul libro

Abitiamo un sottile guscio sferico, di pochi chilometri di spessore, intorno alla superficie della Terra. Anche se esploriamo gli abissi più profondi dell'oceano o scaliamo le vette dell'Himalaya, il nostro regno ha dimensioni ridicole. Per questo, se riflettiamo su quelle dell'universo, ci resta una sensazione di lieve sgomento. Non solo. Il nostro piccolo mondo è anche popolato di chimere, fantasmi e terribili inganni: pensiamo che quello che percepiamo sia reale, invece tutto cambia appena ci allontaniamo dall'angolo tranquillo in cui si svolge la nostra esistenza. Quando cerchiamo di capire i fenomeni che si osservano nel meraviglioso tappeto di galassie che ricopre la volta stellata, o quelli che caratterizzano la materia nei suoi componenti elementari, dobbiamo rinunciare alle certezze che governano la nostra vita e intraprendere un viaggio vertiginoso che lascia senza fiato. Guido Tonelli, fisico al Cern di Ginevra e uno dei padri della scoperta del bosone di Higgs, ci fa compiere questo viaggio irripetibile, al cospetto di fenomeni straordinari. Fino a raggiungere il non-luogo del non-tempo da cui tutto ha avuto origine e dove possiamo dar voce a quell'istinto che si annida dentro di noi quando continuiamo a chiederci da dove viene la meraviglia che ci circonda. Il mito e la scienza hanno in fondo la stessa funzione, dal momento che "ogni società si costituisce attorno a una cosmologia. E nessuna civiltà, grande o piccola che sia, può reggersi senza il grande racconto delle origini".

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788858688441

1

Un vuoto che si è montato la testa

La ricerca del silenzio assoluto

Ho sempre sognato di essere fra il pubblico che, la sera del 29 agosto 1952, riempiva la Maverick Concert Hall. L’edificio si trova a sud di Woodstock, New York, e non assomiglia in nulla a una classica sala da concerto: è una specie di grande baracca in legno, sembra uno dei tanti fienili delle fattorie della zona. L’ha fatta costruire nel 1916 Hervey White, uno scrittore che voleva organizzare concerti in ambienti immersi nei boschi, e, dagli anni Venti, ospita un importante festival estivo di musica contemporanea.
Quella sera il pubblico è lì per ascoltare un giovane pianista, David Tudor; il programma prevede musiche di Boulez, Wolff, Feldman, Brown e del giovane compositore americano John Cage.
Il concerto procede senza sorprese fino all’ultimo pezzo. Quando Tudor entra per eseguirlo, si siede al pianoforte e si concentra, come i pianisti usano fare prima di affrontare le performance tecnicamente più impegnative. Poi apre lo spartito e chiude il coperchio della tastiera. Con in mano un cronometro, per due volte, nei quattro minuti successivi, alza e riabbassa gentilmente il coperchio e gira le pagine dello spartito, che non contiene alcuna nota. Vi è indicato solo il titolo del brano, 4′33″, e la suddivisione in tre tempi, intitolati 30″, 2′23″ e 1′40″. L’indicazione dell’autore per ciascun tempo è chiara, scritta in stampatello: TACET. Tudor la esegue alla perfezione, rimane seduto al pianoforte e, con l’occhio al cronometro, si limita a sottolineare l’inizio e la conclusione di ciascun movimento aprendo e chiudendo il coperchio della tastiera.
Il pubblico aspetta, qualcuno tossisce, altri si agitano sulle sedie; c’è chi sospira in attesa che succeda qualcosa e la tensione è palpabile; tutti sono sicuri che, da un momento all’altro, il pianista comincerà a produrre una sequenza di note e allora si potrà tirare un respiro di sollievo.
Quando, allo scoccare dei quattro minuti e trentatré secondi, senza aver neppure sfiorato un tasto, Tudor si alza per ricevere gli applausi, la gente rimane completamente interdetta. La sala rumoreggia, qualcuno protesta, altri se ne vanno imprecando. Non sanno ancora di aver appena assistito all’esecuzione di una delle composizioni più importanti del Ventesimo secolo.

Il nostro piccolo guscio

Lo spazio in cui ci muoviamo e il tempo che scandisce la nostra esistenza sono molto più complessi di quanto generalmente si pensi. Siamo abituati a considerarli come dati di fatto. Qualcosa di stabile, rigido, immutabile, che è sempre esistito e sempre esisterà. Nulla di più sbagliato. È una errata percezione che nasce dai nostri limiti, dagli angusti confini nei quali ci muoviamo.
Noi terrestri abitiamo un sottile guscio sferico, di pochi chilometri di spessore, intorno alla superficie della Terra. In esso si svolgono tutte le nostre vite, comprese quelle degli avventurosi che hanno esplorato gli abissi più profondi dell’oceano, o che hanno scalato le vette dell’Himalaya. La frazione di umani che si è allontanata da quel sottile strato abitabile è molto piccola, praticamente trascurabile.
Pochi privilegiati sono stati a bordo delle prime capsule, dello Shuttle e delle moderne stazioni spaziali che orbitano intorno alla Terra. Affacciandosi agli oblò hanno visto l’incredibile spettacolo offerto dal nostro pianeta quando lo si osserva da alcune centinaia di chilometri di altezza. Ancora più fortunati quei pochissimi che hanno raggiunto la Luna e, voltandosi indietro, si sono commossi alla vista di quella minuscola cosa blu, scintillante di luce nel buio dello spazio cosmico.
Se anche facciamo un po’ gli sbruffoni, dicendo che abbiamo esplorato una regione di 384.400 chilometri di raggio, che è la distanza media Terra-Luna, la sostanza non cambia. Il nostro «piccolo regno» ha comunque dimensioni ridicole. E se riflettiamo su quelle dell’universo, ci resta una sensazione di sottile sgomento, perché la nostra vita è confinata in un angolino di proporzioni infinitesime rispetto alla cosa gigantesca che ci circonda.
Meno evidente è la consapevolezza dei limiti che tutto questo comporta. Nel piccolo guscio che ci è così familiare lo spazio e il tempo ci appaiono come due entità diverse, grandezze assolute e immutabili, completamente indipendenti fra loro. Siamo così convinti che l’una scorra del tutto separata dall’altra, che misuriamo le due grandezze con strumenti che non potrebbero essere più diversi fra loro, come il metro e l’orologio. Questo modo di vedere è un pregiudizio di cui l’umanità è rimasta prigioniera per millenni.
La situazione non cambia se consideriamo la scala dei tempi delle attività umane. Le nostre vite individuali sono ridicolmente corte rispetto ai tempi caratteristici con i quali evolve l’universo che ci circonda. I più longevi fra gli esseri umani arrivano a malapena a superare il secolo di vita. Ci sono grandi civiltà che hanno dominato il mondo per migliaia di anni e noi, come specie, popoliamo la Terra da qualche milione di anni. Comunque un’inezia rispetto a corpi celesti che vivono miliardi di anni, come accade a una miriade di galassie e, nel piccolo, anche al nostro sistema solare.
La nostra errata percezione dello spazio e del tempo ha a che fare, in qualche modo, con la nostra massa. In realtà non fa troppa differenza considerare un vispissimo neonato di pochi chilogrammi o una persona obesa che fa fatica a muoversi. In entrambi i casi si tratta di masse gigantesche rispetto alla più pesante delle particelle elementari, e assolutamente trascurabili rispetto al più leggero dei corpi celesti.
Insomma, siamo così pesanti che le forze che agiscono nel nostro mondo, sia quelle naturali, come la forza di gravità, sia quelle artificiali dei propulsori che abbiamo sviluppato grazie alle conoscenze della fisica e della chimica, non riescono a imprimerci velocità realmente significative. Ci esaltiamo a seguire gare di corsa fra automobili che superano i 300 chilometri orari e quando viaggiamo in aereo a 900 all’ora pensiamo di essere davvero veloci. Il record nel campo è ancora detenuto dalle navicelle spaziali, capaci di percorrere in un’ora più di 40.000 chilometri, ma sono tutte velocità ridicole rispetto ai 30.000 chilometri al secondo raggiunti senza fatica dagli elettroni in orbita intorno agli atomi, per non parlare dei protoni che circolano nei moderni acceleratori di particelle e che percorrono, ogni ora, più di un miliardo di chilometri.

Nella Terra di Mezzo

Alla fine tutto si potrebbe ridurre a una questione di dimensioni. Consideriamo un metro in potenze di dieci, cioè uno strumento di misura in cui ogni tacca sia dieci volte più grande di quella precedente. L’uomo di Vitruvio, con le sue belle proporzioni disegnate da Leonardo, ha dimensioni dell’ordine del metro e lo collochiamo al centro della scala. Andando verso il basso, verso gli oggetti più microscopici, occorre saltare diciotto tacche per arrivare alle particelle elementari più minuscole finora identificate; le loro dimensioni si misurano in metri dividendo uno per un numero gigantesco e impronunciabile: un uno seguito da diciotto zeri. Muovendosi verso l’altro estremo della scala, ventiquattro tacche ci separano dai super-ammassi di galassie, alcuni degli oggetti più grandi finora osservati; anche in questo caso, per definire le loro dimensioni, occorre non stancarsi di annotare i ventiquattro zeri che seguono l’uno.
Siamo nella Terra di Mezzo e, come nella saga di Tolkien, attraversiamo un mondo popolato di chimere, fantasmi e terribili inganni. Non rendendocene conto, abbiamo immaginato che quello che osserviamo con i nostri sensi in questo minuscolo angolo del cosmo sia reale. Come se ciò non bastasse, presi da irriducibile arroganza, abbiamo esteso all’universo intero la falsa percezione dello spazio e del tempo che ricaviamo dal vivere in questo piccolo guscio così particolare.
Tutto cambia se ci allontaniamo dall’angolo tranquillo in cui si svolge la nostra insignificante esistenza. È quello che ha fatto la scienza moderna, appena è riuscita ad allargare lo sguardo. Quando cerchiamo di capire i fenomeni che si osservano nel meraviglioso tappeto di galassie che ricopre la volta stellata, o quelli che caratterizzano la materia nei suoi componenti elementari, dobbiamo rinunciare alle certezze che governano la vita di tutti i giorni.
Se avessimo le dimensioni di una particella elementare, per esempio di un elettrone, e potessimo raggiungere velocità paragonabili a quella della luce, ci sembrerebbe naturale vedere lo spazio e il tempo come intimamente legati fra loro, qualcosa di plastico che si deforma con la velocità. Ci apparirebbe normale vedere tutti gli oggetti intorno a noi cambiare forma e dimensioni a seconda della velocità con cui ci muoviamo, e sperimenteremmo quotidianamente quella dilatazione del tempo che oggi ci appare così strana. Non c’è da stupirsene, perché i fenomeni relativistici, nella vita ordinaria, sono talmente piccoli che possono essere tranquillamente trascurati. Se andiamo da Roma a New York in aereo e dopo una settimana di vacanza ritorniamo a casa, siamo più giovani di quaranta miliardesimi di secondo rispetto ai nostri amici che sono rimasti al lavoro, ma il rallentamento dell’invecchiamento non è significativo al punto da diventare argomento di conversazione.
D’altro canto siamo talmente leggeri che l’attrazione gravitazionale che emaniamo dai nostri corpi è così debole da non poter essere misurata nemmeno dagli strumenti più sofisticati. Ma se, per paradosso, ciascuno di noi avesse la massa di una galassia, abbracciarsi produrrebbe fenomeni molto più drammatici e sarebbe anche difficile metterci d’accordo sull’ora esatta; i nostri orologi segnerebbero un tempo che dipenderebbe criticamente dalla distanza fra il polso e il nostro baricentro e le differenze potrebbero essere di migliaia di anni. In un mondo siffatto non esisterebbe il concetto di eventi simultanei e chi parlasse di contemporaneità verrebbe preso per matto.
Insomma, se potessimo allontanarci radicalmente dall’ambito ristretto in cui viviamo, assisteremmo ogni giorno a fenomeni straordinari – che non appaiono nella nostra scala ma che sono altrettanto reali, visibili, misurabili – e avremmo una concezione dello spazio e del tempo completamente diversa. Quella che è stata acquisita con la fisica moderna grazie alla teoria della relatività e alla meccanica quantistica.
Per illustrarla ci può venire in aiuto l’arte moderna, basti pensare alla serie degli orologi fluidi e sgocciolanti di Salvador Dalí, alle prospettive allucinanti delle costruzioni di Escher o ai corpi di Magritte che riflettono verso l’osservatore ciò che si trova nascosto dietro di loro. Si pensi al lavoro di coreografi contemporanei come l’americano William Forsythe, che chiede ai ballerini di esplorare lo spazio che li circonda come se fosse un’invisibile gabbia sottile. Se si guarda in questa ottica alle sue composizioni, si vedono danzatori che disegnano intorno a sé figure geometriche rigide, come una sfera o un cubo, e stabiliscono un dialogo fra loro. Poi queste strutture si rompono e vengono trasformate dinamicamente in oggetti fluidi, dai contorni plastici. In alcuni balletti è stata a tratti abolita la musica e, senza alcun riferimento ritmico che non sia la memorizzazione dei tempi e dei movimenti prodotta da settimane di esercizio, gruppi di ballerini distanti fra loro e separati in maniera che non si possano coordinare usando la vista devono muoversi all’unisono. Così si costruiscono sequenze temporali compatte fra gruppi di danzatori uniti da una sincronia assoluta di movimenti, come se il tempo che li ingabbia fosse una struttura materiale rigida; e anch’essa, a un tratto, si rompe.
Sono lavori di ricerca che esplorano le stesse questioni che interessavano Marcel Duchamp, che fin dai primi anni del Novecento era ossessionato dalla necessità di rappresentare, nei suoi quadri, la quarta dimensione. Si interessò anche di musica e propose sculture sonore, con l’idea di fare musica nello spazio e non nel tempo. Duchamp, non a caso, ebbe grande influenza su John Cage, di cui era amico e con cui giocava a scacchi per ore.

L’indissolubile legame

La fisica moderna ci dice dunque che lo spazio e il tempo sono in realtà una sola entità, per la quale è necessario usare una parola composta: lo spazio-tempo. Qualche sospetto, forse, poteva venirci anche dalla vita di tutti i giorni. Se diamo appuntamento a un amico, non basta dire «Ci vediamo al bar sotto casa», definendo cioè le coordinate spaziali dell’incontro. Se omettiamo le coordinate temporali, non specifichiamo cioè in quale giorno e a che ora ci possiamo incontrare, sarà difficile prendere un caffè assieme.
Lo spazio-tempo è una specie di rete invisibile dentro la quale ci muoviamo spostandoci da un nodo all’altro. Potremmo ricostruire l’intera nostra esistenza come una traiettoria in questo spazio a quattro dimensioni, e gli incontri che facciamo come punti in cui le traiettorie spazio-temporali di uno o più individui si sono incrociate.
Questa rete sottile che tiene insieme il nostro universo ha una strana proprietà che viene fuori dalla relatività generale e che la rende veramente speciale: non è rigida ma plastica. Massa ed energia la stirano, la deformano, e da questo processo nasce l’attrazione gravitazionale.
Se osserviamo attentamente la Terra, ci accorgiamo che la grande massa del nostro pianeta deforma lo spazio-tempo circostante. Adesso si comprende perché dobbiamo correggere l’informazione che ci arriva dai satelliti che governano i navigatori delle nostre auto. Il sofisticato sistema di triangolazione che ci permette di sapere dove siamo, e che ci dà indicazioni sulla direzione da seguire, è basato su una famiglia di satelliti che si scambiano segnali per misurare esattamente le distanze e, incrociando i dati, definiscono la nostra posizione.
Un elemento chiave del sistema sono gli orologi di precisione montati sui satelliti in orbita. Siccome viaggiano intorno alla Terra ad alta velocità, a una quota di circa 20.000 chilometri, per effetto della relatività speciale dovrebbero correre più lentamente dei loro gemelli che sono rimasti a terra. Ma poiché si trovano a maggiore distanza dal centro della Terra, a causa della deformazione dello spazio-tempo dovuto alla relatività generale, sono in realtà più veloci. Se ignorassimo queste correzioni, in un solo giorno si accumulerebbero errori di decine di chilometri e sarebbe rischioso affidarsi alle indicazioni del gps per raggiungere quel ristorantino di campagna in cui non siamo mai stati prima.
L’enorme massa della Terra incurva lo spazio-tempo circostante come quando mettiamo un grosso peso sulla rete di un letto. Questa specie di buca che si forma intorno al nostro pianeta permette alla Luna di mantenersi in orbita: è una nuova maniera di vedere l’attrazione gravitazionale.
Anche la luce segue le linee curve dello spazio-tempo. Per questo, durante le eclissi totali, si vedono apparire intorno a quel disco scuro, che tanto affascina tutti, stelle che in realtà sono dietro il Sole. La deformazione dello spazio-tempo su vasta scala produce illusioni ottiche ancora più grandiose. Quando si inquadra, con un potente telescopio, un ammasso di decine o centinaia di galassie, si verifica spesso il fenomeno delle lenti gravitazionali. Si vedono cioè due, tre, quattro immagini di una stessa galassia che, come giganteschi fantasmi, appaiono intorno all’ammasso. È esattamente lo stesso meccanismo che ci fa «vedere» le stelle coperte dal disco del Sole. C’è una galassia che gioca a nascondino celandosi dietro il grande ammasso; la sua immagine segue invece le linee dello spazio-tempo deformate dall’enorme quantità di materia che ha davanti a sé e raggiunge il nostro telescopio come se provenisse da direzioni diverse.
Sulle grandi distanze, lo spazio-tempo si comporta in un modo che ci appare veramente molto strano. Ma la cosa di gran lunga più bizzarra è che non esiste da sempre, anzi, ha un’età ben definita: è nato insieme al nostro universo 13,8 miliardi di anni fa, un’epoca speciale che oggi siamo in grado di descrivere con molti particolari.

Un viaggio molto rischioso

Per ricostruire in dettaglio i primi istanti di vita dell’universo bambino, è necessario fare un viaggio molto speciale. È un viaggio vertiginoso, un salto all’indietro che ti lascia senza fiato per raggiungere il non-luogo del non-tempo da cui il tutto ha avuto origine.
Come in tutte le grandi esplorazioni, occorre costruire mezzi adatti per raggiungere la meta e addestrarsi per anni prima di partire; il viaggio è rischio e pericolo, ogni momento può riservare tremende delusioni o incredibili sorprese.
La scienza moderna è questa grande avventura collettiva. Gli enormi apparati sperimentali del Large Hadron Collider (Lhc), il potente acceleratore del Cern, o i grandi radiotelescopi sono le nostre «astronavi». La nostra «ciurma» è una comunità colorata e turbolenta di migliaia di menti appassionate, moderni esploratori pazienti e curiosi, pronti a inventare stratagemmi per superare ogni imprevisto. Abbiamo teorie e carte che ci guidano, ma spesso il caso ci conduce in luoghi del tutto sconosciuti; i nostri apparati sono curati in ogni particolare, ma basta trascurare un minimo dettaglio e la catastrofe si abbatte su di noi.
La sete di sapere dello scienziato moderno non è un mortifero sempre desiderare, una coazione a ripetere, una folle corsa irrefrenabile. Il cammino della conoscenza è piuttosto un susseguirsi di approdi temporanei; giusto un attimo per inorgoglirsi del risultato conseguito, per poi precipitare subito nel nuovo abisso di ignoranza che ti si spalanca sotto i piedi. È un navigare «di porto in porto», simile a quello che praticavano i primi marinai del Mediterraneo. Un muoversi prudente, che assomiglia a quello incerto dei primi ominidi sulla terraferm...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Cercare mondi
  4. Prologo. Il sogno di un bambino
  5. 1. Un vuoto che si è montato la testa
  6. 2. Il lato oscuro dell’universo
  7. 3. L’eco di lontane catastrofi
  8. 4. Della stessa sostanza dei sogni
  9. Ringraziamenti
  10. Indice