Ossa - The collection
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Ossa - The collection

I racconti di Temperance Brennan

  1. 200 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Ossa - The collection

I racconti di Temperance Brennan

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Informazioni sul libro

Dalle acque gelate del North Carolina al sole battente della Florida, fino ai ghiacciai dell'Himalaya, sembra non esserci pausa per Temperance Brennan, la più celebre antropologa forense del thriller internazionale, impegnata, insieme al detective «Skinny» Slidell, in complicati esami autoptici e in misteriosi casi di omicidio. Si comincia con Prime ossa: seguendo il flusso dei ricordi di Tempe, i lettori torneranno al primissimo caso, quello che la convinse ad abbandonare una tranquilla carriera accademica. In Ossa in tasca, invece, resti umani rinvenuti in una sacca sulle rive di un lago cercano un'identità, mentre in Ossa di palude quella che doveva essere una meritata vacanza viene turbata da una scoperta raccapricciante: lo stomaco di un enorme serpente nasconde le prove di un omicidio. Nell'ultimo dei quattro lunghi racconti, Ossa di ghiaccio, il compito di Tempe si dimostrerà ancora più pericoloso: identificare il corpo mummificato di una ventenne morta (ma per cause naturali?) tre anni prima sull'Everest.Le trame gialle di Kathy Reichs ci tengono incollati alla pagina, invitandoci al contempo a riflettere su importanti questioni morali, come la protezione degli animali e la tutela dell'ecosistema.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2016
ISBN
9788858686300
Ossa di ghiaccio

1

Il furgone indietreggiò nello spazio riservato al carico e scarico, buio e silenzioso. Come sempre. Ai veicoli dell’obitorio non servivano né i lampeggianti né le urla delle sirene. Non c’era alcuna urgenza. Sulle fiancate senza finestrini del furgone campeggiava la scritta: INTERNATIONAL MORTUARY SHIPPING. Mia figlia, Katy, lo avrebbe definito una trappola ambulante per sequestratori.
Si aprirono gli sportelli, due tecnici in divisa saltarono giù e raggiunsero il retro del veicolo. Il più alto dei due aveva la testa rasata, deturpata da tagli rabbiosi. Il più basso portava i capelli a spazzola e aveva le braccia interamente tatuate, con l’inchiostro sulla pelle che si inerpicava dall’avambraccio fino a sparire nelle maniche arrotolate. Svelti ed efficienti, spalancarono il portellone posteriore, scaricarono dal furgone una cassa oblunga di cartone per il trasporto aereo e la trasferirono su una lettiga, dove atterrò con un clunk fastidioso.
Infilai i guanti di lattice con uno schiocco e mi avvicinai. Sulla superficie esterna della cassa di cartone erano stampate tre parole macabre: RESTI UMANI e, a un’estremità, TESTA. Quest’ultima mi faceva venire in mente le indicazioni sulle casse del vino: APERTURA IN ALTO.
Testa Rasata mi consegnò un portablocco farcito di scartoffie. Lessi per sommi capi il certificato di morte, il permesso di transito-sepoltura, i documenti per il trasporto internazionale rilasciati dall’ambasciata degli Stati Uniti, il certificato che stabiliva l’assenza di malattie contagiose e un atto di rinuncia all’imbalsamazione.
Posai le carte di lato sulla lettiga e con un coltello X-Acto tagliai le fascette di plastica, infine sollevai la copertura di cartone. All’interno c’era una cassa di metallo zincato.
Feci scattare i sigilli per sganciare il coperchio della bara refrigerata. Si aprì con un sibilo e uno sbuffo di vapore gelido. Prelevai una grossa confezione di gel a bassa temperatura che copriva il contenuto come una coperta di ghiaccio e cercai la targhetta identificativa sulla sacca con il corpo. La pesante tela cerata arancione era spiegazzata, come se l’occupante si fosse agitato durante il lungo viaggio verso casa. Dopo avere trafficato un po’ trovai la busta, spazzai via la brina che si era formata sulla plastica e verificai che nome e numeri combaciassero con quelli registrati sui documenti.
«Volete aspettare per il contenitore?» chiesi ai due tecnici.
Il Tatuato crollò le spalle. «Monouso.»
«Mi sembra uno spreco.» Guardai la cassa di metallo gelido.
Un’altra alzata di spalle. «Mio nonno ne usava una identica per metterci i pesci, quando andava a pescare.»
Testa Rasata lanciò un’occhiata stizzita al collega. Poi, rivolto a me: «È tutto, signora?».
«È tutto. Grazie.»
Mentre Testa Rasata avviava il motore, il Tatuato chiuse i due portelloni posteriori con un tonfo e salì dal lato del passeggero. Un rapido cenno di saluto con la mano e un momento dopo erano spariti, lasciandomi sola con quel carico congelato. Spinsi a fatica la lettiga attraverso le porte del reparto, sollevata nel vedere Tim Larabee, il mio capo e primo patologo forense della Mecklenburg County, avanzare a grandi passi verso di me. Si muoveva con la grazia atletica del corridore di lungo corso. Ovvero: un drogato di maratone.
«Dove mi sistemo oggi?» chiesi.
«Alla cinque.»
La nuova e avveniristica sede del Mecklenburg County Medical Examiner, o MCME, ultimata nel 2008 e dotata di certificazione LEED, vantava una camera refrigerata condivisa e quattro laboratori per le autopsie comuni. Altri due laboratori aggiuntivi erano attrezzati con speciali sistemi di ventilazione e di smaltimento per analisi post mortem su corpi in decomposizione e cadaveri potenzialmente contaminanti. La cinque era tra le sale autoptiche «puzzolenti», dotata di un proprio impianto di refrigerazione.
«Ricordami perché questo bel premio è toccato proprio a me?» Non ero affannata, ma quasi: il carico era pesante e una ruota della lettiga era mezza rotta.
Larabee mi squadrò, sembrava perplesso ma non rallentò il passo.
«Antropologia forense? Ossa? Mummie? Corpi decomposti?» Indicai con un cenno della testa il carico che stavo trasportando. «Rientra in una di queste categorie?»
«Non proprio.» Larabee increspò le labbra in quello che voleva essere un sorriso. «In ogni caso, Tempe, tu sei la Regina dei Ghiacci e delle Nevi.»
Alzai gli occhi al cielo, quella battuta era trita e ritrita. Il nomignolo lo dovevo all’altra posizione che occupavo, antropologa forense per il Bureau du Coroner nella provincia canadese del Québec. Sì, dividevo il mio tempo tra Charlotte, North Carolina, e Montréal. Una lunga storia.
Lunga, potrei aggiungere, e anche lontana. Un abisso. Lingua diversa, città diversa, laboratorio diverso e sistema giuridico diverso. E l’elefante nella stanza: il clima. Quando la temperatura a Charlotte scende intorno a quindici gradi, la gente corre a prendere giacche pesanti e guanti, mentre in Québec tirano fuori sandali e bermuda.
A nord del quarantottesimo parallelo, si può morire per ragioni che da queste parti si vedono parecchio di rado. Il cacciatore bloccato in un’improvvisa bufera di neve; l’ubriaco che torna a casa barcollando da un bar; il conducente con vestiti troppo leggeri che si allontana dall’auto in panne; il poppante che si aggira di notte solo con il pannolino indosso.
Gli inverni artici significano ipotermia e corpi pietrificati dal ghiaccio.
Di solito, casi del genere non richiedono la mia competenza. Il freddo uccide, ma al contempo preserva. La mia competenza riguarda morti lontane nel tempo. La famiglia annegata negli anni Cinquanta in un lago gelato. Lo sciatore mummificato per dieci anni e poi sputato dai postumi di una valanga. Lo studente caduto in un condotto di ventilazione, congelato ed essiccato per cinque inverni. Benvenuti nel mite North Carolina, feudo esclusivo della Regina dei Ghiacci e delle Nevi.
«Sai qual è il premio per chi vince la sfida a chi mangia più torte, giusto?» chiesi al capo.
Larabee mi fissò di nuovo a lungo, senza parlare.
«Altre torte.»
«Volevano che te ne occupassi tu, hanno fatto il tuo nome.»
«Non mi dire...»
Aprii la porta della sala cinque col fondoschiena, poi trascinai dentro la lettiga. Mentre Larabee mi aiutava nella manovra, mi tornò in mente la nostra conversazione della sera precedente. Mi aveva beccata a cena al Peculiar Rabbit: ero con la mia migliore amica, Anne Turnip. Venerdì sera. Ristorante alla moda. Stavamo pianificando una vacanza sulle isole Turks e Caicos. Non pensavo a Ryan. Non pensavo alla Proposta, quella con la P maiuscola. Mi stavo divertendo. La telefonata di Larabee non mi aveva ancora rovinato la serata.
«Abbiamo a che fare con un caso insolito.» Dal suo tono era chiaro che non si trattava di buone notizie.
«Insolito?» In quel momento stavo immergendo una vongola nella salsa al vino prima di farla sparire in bocca.
«Congelato.»
Mi venne alle labbra la prima strofa di Let It Go. Io e Anne eravamo di quell’umore. Invece chiesi di una recente segnalazione per la scomparsa di una donna. La polizia di solito sospettava il marito, ma finora non era stato rinvenuto alcun corpo. Forse la mogliettina era finita sottozero nel freezer di casa.
«Melissa McLaughlin?»
«No. Si tratta di morte accidentale. Sul Monte Everest.»
Feci cenno a Anne che dovevo allontanarmi un momento. Il ristorante era affollato e rimbombava di decibel ben oltre il livello accettabile. Dovevo aver capito male, ovvio.
«Scusa, vuoi ripetere?» Uscii dal locale, in strada.
«La vittima è una ragazza di Charlotte, stava tentando la scalata dell’Everest.»
Avevo così tante domande in testa che non sapevo da quale cominciare. «Il Nepal mi sembra un po’ fuori dalla nostra giurisdizione.» O è in Tibet?
Anche se indirettamente, Larabee fornì una spiegazione. «La famiglia ha... conoscenze importanti. La madre, Blythe Hallis, è amica del sindaco. E del capo della polizia. E del governatore. E ...»
«Ricevuto.» Forte e chiaro. A Charlotte le targhe e i cartelli stradali con quel nome stampato sopra erano almeno un miliardo. Un viale. Un parco. Una scuola. Una poltrona d’onore nel consiglio dell’Università del North Carolina a Charlotte. Tanti soldi. Grandi filantropi. Un peso politico influente.
«Come si chiama la vittima?» chiesi.
«Brighton Hallis.»
«Com’è morta?»
«Non è chiaro. Non c’erano testimoni, ma si presuppone che si tratti di una combinazione di fattori: altitudine eccessiva, ipossia, sfinimento, forse disorientamento...» Larabee lasciò in sospeso la tetra allusione.
Un’immagine improvvisa. Ghiaccio. Neve. Lo sguardo vuoto di Jack Nicholson nel finale di Shining. Un brivido mi risalì lungo la schiena nonostante la serata calda. Avviso ai naviganti: la Regina dei Ghiacci e delle Nevi detesta il freddo. E non va pazza nemmeno per altezze, vette e cime varie. Non riesco davvero a capire perché qualcuno voglia scalare una montagna. Qualunque montagna.
«Qual è il PMI?» chiesi per conoscere l’intervallo post mortem. Cioè a quando risaliva il decesso.
«Tre anni.»
«Non l’hanno identificata in Nepal?» O in Tibet?
«Sì.»
«Allora che problema c’è?»
«La madre teme una situazione caotica dopo il terremoto in Nepal. Crede che troveranno una scusa qualsiasi pur di evitare un’altra identificazione. Vuole che l’identità sia confermata qui.»
«Non dovrebbe assumere un consulente...»
«Da noi.»
Un furgone attraversò la strada, il conducente mandò il motore su di giri come un centauro di motocross che apre il gas per affrontare una salita ripida.
«Non è illegale?» Domanda inutile. Larabee aveva già risposto.
«No, si tratta di mettersi l’anima in pace. Non hai nemmeno idea di cosa ci è voluto per riportare il corpo di questa ragazza a Charlotte.» Una pausa. Dal ritmo irregolare del suo respiro capii che non avrei gradito le parole successive. «La signora Hallis ha chiesto, in modo inequivocabile e perentorio, che sia tu a occuparti delle analisi.»
«Cosa? Perché?»
«Perché sei la numero uno.»
«Fammi il piacere.»
«Dovrebbe essere un gioco da ragazzi.»
Alle mie spalle una coppia discuteva in modo acceso. C’entravano la birra e un tizio che si chiamava Peyote. O forse era un tizio con una birra e del peyote.
Una parte di me si opponeva, voleva restare libera e organizzare una vacanza estiva con Anne. Comprare un nuovo costume da bagno, forse delle pinne per fare immersioni. E dovevo anche andare a Montréal. L’ultima cosa di cui avevo bisogno era del lavoro extra. Soprattutto se più che di un lavoro si trattava di un «favore all’amica ricca del sindaco».
Passò una donna, portando al guinzaglio una specie di barboncino. La discussione alle mie spalle intanto s’infervorava. La ragazza ce l’aveva davvero a morte con quel tale, Peyote.
L’altra parte di me, quella condiscendente, ribatteva che alla fine non sarebbe stato un incarico così difficile. Rilievi dentali. Magari anche impronte digitali. Combaciano. Caso chiuso.
Merda.
Odiavo la parte condiscendente di me.
«Quando arriva il corpo?» Sospirai con un’enfasi pari a quella della coppia che litigava alle mie spalle.
«Domattina alle sette.»
Stiamo scherzando?
«Non temere» aggiunse lui per rispondere al mio silenzio. «Anch’io mi alzerò all’alba.»
Ed eccoci qui. Alle otto e quindici di sabato mattina, nella sala autoptica cinque.
«Analisi integrale del corpo?» chiese Larabee.
«Per ultima. Abbiamo fotografie, un primo piano ante mortem?»
«Poche, ma non in posa. E le impronte dentali.» Larabee mi consegnò due buste che avevo notato infilate nella tasca della giacca, una piccola e marrone, l’altra bianca, da lettere.
«Spero in una conferma visiva. Se riesco a divaricare le mandibole, farò un confronto radiografico delle impronte dentali. ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Ossa The Collection
  4. Prime ossa
  5. Ossa in tasca
  6. Ossa di palude
  7. Ossa di ghiaccio