La scuola salvata dai bambini
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La scuola salvata dai bambini

Viaggio nelle classi senza confine

  1. 200 pagine
  2. Italian
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La scuola salvata dai bambini

Viaggio nelle classi senza confine

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"L'importante è che la maestra sia brava": ecco il mantra che guida i genitori nella scelta della scuola dei propri figli. Sì, ma se poi in classe ci sono dei bambini stranieri? Potrebbero rallentare il programma… Per farla finita con i luoghi comuni (e i timori incontrollati) che serpeggiano fra i banchi, Benedetta Tobagi è andata a vedere cosa succede nelle scuole primarie. Scuole pubbliche, ovviamente. Un viaggio che è cominciato ad Amatrice, l'ombelico d'Italia, e ha toccato Roma, Brescia, Ancona, Torino, i paesini della bassa mantovana, ma anche realtà più di frontiera come Udine e Palermo. In Italia ci sono molti maestri e dirigenti bravissimi, ma la buona volontà non basta a far funzionare bene una scuola. I bambini stranieri in realtà si rivelano una ricchezza, non un ostacolo. Crescere e studiare in una classe mista permette di conoscere una porzione di mondo più grande. "È come fare un Erasmus stando a casa" e infatti capita a Palermo che studenti universitari e "minori stranieri non accompagnati" frequentino insieme gli stessi corsi di italiano. A Genova e Milano invece uno dei momenti più attesi dagli alunni è la condivisione di parole e storie legate al proprio Paese d'origine. Ci sono scuole che cercano di ampliare l'offerta formativa specializzandosi nello sport o nella musica, altre che istituiscono attività extra senza chiedere costi aggiuntivi ai genitori. E poi ci sono tutti quei docenti che messi alle strette dai tagli alla scuola pubblica si ritrovano a fare i salti mortali con il solo sostegno di pochi colleghi motivati.Benedetta Tobagi racconta con grande partecipazione le piccole e grandi gesta di questi allievi e dei loro maestri che sanno come "accompagnarli senza imbrigliarli, senza condizionarli, senza togliere dalle loro ali di farfalla la polvere sottile che consente di prendere il volo".

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2016
ISBN
9788858687222
Categoria
Sociologia

L’ombelico d’Italia

Amatrice (Rieti)
Umbelicus Italiae, l’ombelico d’Italia: così i latini chiamavano Rieti, città dedicata all’antica dea madre della terra, fondata prima ancora di Roma. Immergendosi nella provincia reatina lungo le curve della via Salaria al principio di primavera, il ventre della penisola appare bellissimo e quasi intatto (un paio di cantieri stradali guastano l’effetto). I boschi vaporosi di lecci e faggi addolciscono i profili delle rocce appenniniche, rischiarati qua e là dalle macchie chiare dei prugnoli e dei meli selvatici in fiore. Un cartello marrone ATTENZIONE: POSSIAMO PASSARE annuncia la presenza di cervi: mi trovo nel cuore del Parco del Gran Sasso e dei Monti della Laga, che balenano tra le nuvole basse, ancora striati di neve: il Monte Gorzano, il più alto del Lazio, Cima Lepri e Pizzo di Seco (che in origine per la sua forma era «seno», prima dell’intervento della censura cattolica), un’area protetta incastonata tra Umbria, Marche e Abruzzo.
Il borgo di Amatrice è l’attrazione di primo piano della zona per aver dato i natali alla pasta all’amatriciana; in paese rievocano la recente crociata gastronomica dell’amministrazione comunale contro lo chef superstar Carlo Cracco, reo d’aver dichiarato davanti alla platea nazionalpopolare di Maria De Filippi che la prepara aggiungendo a guanciale, pomodoro e peperoncino anche uno spicchio d’aglio in camicia: eresia. Adescati dalla gastronomia, i turisti possono scoprire un gioiellino di epoca tardomedievale, amorevolmente conservato.
La vita si addensa lungo corso Umberto I. Una diramazione sinuosa in fondo alla strada, tra prati e villette stile baita alpina, porta a un angolo che sembra uscito dalle illustrazioni di un sussidiario di fine Ottocento. A destra, la facciata color pesca della caserma dei carabinieri; a sinistra, un cancello semiaperto con la scritta in lettere di metallo dalle dimensioni digradanti: SCUOLA ELEMENTARE. Il bell’edificio a due piani dalle linee dolci, dedicato a Romolo Capranica – caduto amatriciano della Grande Guerra le cui virtù e umili natali sono illustrati da una serie di pannelli di sapore deamicisiano appesi nel cortile – è stato ristrutturato di recente, ma il grande orologio tondo al centro della facciata è fermo alle otto e trenta. È come un pizzicotto.
Non bisogna farsi trarre in inganno. Nonostante le apparenze, il tempo, ad Amatrice, non si è fermato affatto. Defilati nelle vie traverse del corso, al posto delle botteghe tradizionali ci sono un punto slot e la sala giochi «Full 80». Sulle vetrine di quasi tutti i negozi, un annuncio invita i cittadini a partecipare come pubblico a un programma televisivo che farà tappa qui.
Una bacheca del comune informa che presso l’ufficio anagrafe è possibile firmare la proposta di legge d’iniziativa popolare «per la massima tutela del domicilio e per la difesa legittima», mirata a inasprire le pene per i ladri d’appartamento e ridurre i rischi di condanna per chi si difende in casa propria: eppure il borgo è decisamente tranquillo. Un’altra bacheca comunale pubblicizza una fitta serie di attività a cadenza settimanale per la terza età: ginnastica, computer per principianti, carte, yoga, maglia e uncinetto, una gita a Tropea.
La popolazione autoctona, infatti, è ormai composta per lo più di anziani: l’età media dei residenti è cinquanta anni, per ogni giovane sotto i quattordici ci sono tre over sessantacinque e i loro figli e nipoti vanno a studiare o cercare lavoro nelle grandi città. Amatrice è uno dei borghi in lotta contro il disegno di legge che prevede la fusione dei comuni sotto i cinquemila abitanti; il sindaco, prima di tuonare contro Cracco, per evitare la soppressione dell’ospedale di Amatrice aveva minacciato nientemeno che la secessione dalla regione Lazio.
Il tempo non si è fermato nemmeno dentro la scuola. La scritta sul cancello è ingannevole, e non solo perché dalla riforma Moratti del 2004 è denominata «primaria» anziché elementare. Lo spopolamento e il calo delle nascite si sono fatti sentire: il piccolo edificio ospita in realtà un intero istituto comprensivo, dalla scuola materna, che adesso si chiama «dell’infanzia», alle medie, alias «secondaria di primo grado». E se questa scuola, come tante altre qui nelle valli, resiste, lo si deve anche al fatto che le classi, da anni, sono rimpolpate dalla presenza di bambini stranieri.
A fornirmi i dati è la giovane vicaria della preside, Valentina Lo Re, una ragazza sorridente dai lunghi capelli neri che mi accoglie nell’ufficio di presidenza del primo piano (dove, a completare l’illusorio effetto-nostalgia, fa bella mostra di sé una grossa radio degli anni Quaranta): in tutto l’istituto, gli alunni che non hanno cittadinanza italiana sono il 15,3 per cento, 52 su un totale di 338. Alla scuola primaria sono 16, equamente ripartiti tra nati in Italia e alunni di recente immigrazione. Per questo, la scuola di Amatrice riceve una goccia dei finanziamenti destinati dal ministero dell’Istruzione alle aree definite «a forte processo immigratorio»: «Alla primaria, con questi soldi si paga alle maestre di ruolo un pacchetto di ore aggiuntivo, destinato soprattutto al supporto linguistico» mi spiega la vicaria Valentina, «per insegnare l’italiano ai nuovi arrivati e offrire un sostegno a chi, pur essendo nato qui, ha problemi con la lingua», magari perché non ha frequentato la scuola dell’infanzia (dove i piccoli stranieri, quest’anno, sono ben 22) o perché i genitori non parlano bene italiano. Con questo sostegno, riescono a mettersi rapidamente in pari e, superato lo scoglio linguistico, talvolta anche a eccellere. Come il piccolo Alexandru: è il primo della classe, il suo quaderno di italiano sembra quello di un bambino di un anno più grande, ed è cittadino rumeno.
«Sono bambini molto bravi, educati, collaborano, hanno tutti 9, figurati!» racconta Rita, la sua maestra, una bella matrona con occhi cangianti da gatta. La sua classe è un buon esempio della mescolanza delle nuove scuole: cinque alunni stranieri, rumeni, albanesi e un marocchino (guarda caso, esponenti delle prime tre comunità di stranieri in Italia, quanto a numero di residenti), e alcuni figli di coppie miste. In assenza di scolari neoarrivati, quest’anno Rita ha potuto destinare parte delle ore di supporto a una bambina la cui mamma non parla italiano, e dunque fa più fatica. Il rapporto nazionale del ministero dell’Istruzione sugli alunni con cittadinanza non italiana, pubblicato nel 2015 in collaborazione con la Fondazione ISMU (Iniziative e Studi sulla Multietnicità, un punto di riferimento per le ricerche in materia di migranti a livello nazionale) si intitolava proprio Tra difficoltà e successi. I bambini stranieri nati in Italia vanno migliorando sempre più le loro performance scolastiche, ma i successi, purtroppo, sono ancora una minoranza, mentre continua a sussistere una disuguaglianza strutturale: secondo il rapporto, già nella scuola primaria «gli alunni con cittadinanza non italiana in ritardo rappresentano il 14,7 per cento (contro l’1,9 per cento degli italiani)».
Gli alunni di Rita sono figli degli immigrati la cui presenza, ad Amatrice e dintorni, è cresciuta a ritmo lento ma costante a partire dalla fine degli anni Novanta. Oggi rappresentano il 7,7 per cento dei residenti (un po’ meno della media nazionale, pari all’8,3 per cento). Circa duecento persone, uomini e donne in misura quasi uguale. Mentre gli italiani cercavano sbocchi professionali altrove, ad Amatrice si sono insediati soprattutto albanesi e rumeni, gli uomini impiegati come edili, le donne a servizio come badanti e addette alle pulizie. La maestra Rita ha insegnato in tutta la provincia di Rieti e ha conosciuto molti di questi migranti, negli anni, attraverso i loro bambini: «Ci sono le eccezioni, è chiaro, ma in tutte le scuole che ho girato la maggior parte ha un grande rispetto degli insegnanti e delle regole» osserva: molto più degli italiani. «Specialmente le mamme rumene – mi sembrano dei generali! Ci tengono tantissimo che i loro figli imparino bene, non vogliono vederli rimanere indietro rispetto agli altri. Ho una mamma albanese che mi fa quasi venire i brividi, “Io lavoro come una matta tutto il giorno perché a mia figlia non deve mancare niente” dice, “ma lei si deve comportare bene, deve imparare, perché io non le faccio mancare nulla”: pensa che pressione per la bambina.» In parte dipende dalla cultura del paese d’origine (la scuola è tenuta in gran conto nei paesi dell’Europa dell’Est), ma ancor più dal fatto che gli immigrati vedono nell’istruzione una grande possibilità di riscatto.
Uscite da scuola, io e Rita chiacchieriamo per le vie del borgo (gli anziani seduti al bar mi fissano con la curiosità severa riservata ai foresti, qualcuno cerca di orecchiare cosa mi stia dicendo la maestra del paese: vita di provincia). «Gli stranieri lavorano tutti, eh?» mi racconta, «padri e madri: non ne vedi uno in giro, fuori dai bar ci stanno piuttosto i nostri ragazzi, “finanziati” dai genitori, magari non studiano, e finché pagano mamma e papà perché fare fatica?», i famosi NEETNot in Education, Employment or Training – in salsa locale.
Eppure gli stranieri mostrano che di lavoro ce n’è. Ma sono lavori umili. Gli italiani non si abbassano: per lei, che nel momento del bisogno si è adattata a fare di tutto, anche preparare le colazioni in uno dei begli agriturismi del posto, è un atteggiamento incomprensibile. Una piccola fotografia molto esatta del mercato del lavoro nazionale: tutta la retorica contro «gli stranieri che ci rubano il lavoro» è mal posta. Gli immigrati hanno tassi d’occupazione più alti degli italiani, soprattutto giovani, perché accettano i famigerati ddd jobs (dirty, dangerous and demeaning, i lavori sporchi, pericolosi e umilianti). Per non parlare del fatto che, come ha ricordato il presidente dell’INPS Tito Boeri nell’estate 2016, gli stranieri ci «regalano» ogni anno 300 milioni di euro – circa un punto di PIL – di contributi sociali.
Ad Amatrice c’è la mamma marocchina che pur di lavorare si porta dietro il bambino quando fa il giro a pulire le scale, perché nessuno la aiuta; quella albanese, incinta al settimo mese, che continua ad andare a pulire il pesce; le tante storie di tenacia dei muratori che si sono messi in proprio e sono riusciti a realizzare il sogno di comprare casa e far studiare i figli. «Abbiamo anche un signore indiano che fa il custode nella villa di una famiglia benestante di Roma» racconta la maestra Rita. «Ma una famiglia nostra di qua, non ci poteva stare? Non lo fanno…» In realtà negli ultimi anni qualcosa è cambiato, a livello nazionale: sempre secondo l’INPS, nel 2015 i collaboratori domestici italiani erano circa duecentotredicimila, con un aumento del 4,23 per cento rispetto all’anno precedente. Nel nostro mercato del lavoro, comunque, permane una netta separazione tra stranieri e italiani. Secondo il Ventunesimo rapporto sulle migrazioni 2015 dell’ISMU, oltre il 70 per cento degli stranieri è impiegato come operaio e meno dell’1 per cento come quadro o dirigente.
I genitori stranieri che ha conosciuto Rita, anche se sono poveri, si fanno in quattro per recepire le indicazioni della scuola: ricorda quando, per incoraggiare i bambini alla lettura, propose di organizzare una piccola biblioteca di classe. Ognuno doveva portare un libro usato: a casa di una bimba albanese, una famiglia dignitosa ma povera, con quattro figli, di libri non ce n’erano, e la mamma si era precipitata subito a comprarne uno. Riconosce in queste famiglie un rispetto per il valore della scuola, della cultura, della lettura, che nella maggior parte degli italiani non si trova più. Rita ci si è scontrata: tempo fa aveva aperto un negozio, edicola, cartoleria e soprattutto libreria, ma non c’è stato niente da fare. La persona che ha rilevato l’attività per prima cosa ha eliminato i libri, «tanto non vendono». Amatrice, insomma, sembra parte integrante di quella provincia italiana dura e pura, ignorante ma senza imbarazzo, che emerge dalle deprimenti statistiche sui consumi culturali.
I «migranti storici» sono inseriti nella vita locale, nessuno sembra farci più caso. «Chi al lavoro ci tiene, alla fine si integra bene. Se non dai fastidio, sei una persona corretta, la popolazione ti accetta» dice Rita. Fino a un certo punto, però. In Italia esiste un fiume sotterraneo di razzismo che periodicamente riaffiora, con esiti talvolta tragici. Come è accaduto a Fermo, nelle Marche, nell’estate 2016: un ultrà della squadra locale ha attaccato briga con la compagna di un richiedente asilo nigeriano, Emmanuel Chidi Namdi. Ne è nata una colluttazione in cui Emmanuel è morto.
Di recente, la composizione del flusso migratorio verso Amatrice è cambiata. Sono aumentati i musulmani, dal Maghreb
e dall’Asia, e la loro presenza crea maggiore nervosismo tra gli autoctoni. «Io non sono razzista, premetto, però loro non si integrano, hanno un’altra cultura, le donne portano il velo… ma qui siamo in Italia»: le considerazioni del gentile funzionario del comune a cui mi rivolgo per informazioni sintetizzano bene gli umori di larga parte della popolazione, non solo ad Amatrice, nei confronti dei nuovi arrivati.
In realtà, anche nei confronti degli altri, gli stranieri «europei», più che d’integrazione si dovrebbe parlare di tolleranza, vivi e lascia vivere. A farne le spese è soprattutto la «seconda generazione», cioè i figli degli immigrati che sono nati in Italia e crescono nelle nostre scuole, ma non sono cittadini italiani.
La vicaria Valentina, che insegna matematica alle medie, lo vede accadere di continuo: i ragazzi «con background migratorio» (un’espressione introdotta di recente per evitare la stigmatizzazione implicita nella parola «straniero»: ci stiamo addentrando anche noi nella giungla del lessico politicamente corretto?) soffrono per l’emarginazione. «Loro sono molto disponibili, partecipi, mentre gli italiani purtroppo sono chiusi.» La geografia del territorio, con le abitazioni disperse tra 49 frazioni, senza veri luoghi d’aggregazione spontanea al di fuori delle scuole, non aiuta. «Ci sono percorsi di grande successo, dal punto di vista didattico» continua Valentina. «Ho avuto alunni con competenze di partenza bassissime che adesso stanno frequentando con successo il liceo, anziché essere dirottati in automatico sull’Istituto Alberghiero, è un grande risultato, per loro è un riscatto; ma da un punto di vista umano non si sentono integrati.»
Anche Valentina è un po’ straniera a modo suo: siciliana, insegna qui da sette anni, ma ambientarsi non è stata una passeggiata. Lo conferma una collega sua conterranea, Chiara, professoressa di musica arrivata da Palermo: «Porto ai ragazzi la mia esperienza di “inclusa” a fatica: sono qui da due anni e ho cominciato a uscire solo sei mesi fa!» scherza. L’anno prossimo si trasferisce ad Abbiategrasso, e non vede l’ora. Chiara ha seguito uno dei molti progetti speciali per l’inclusione attraverso la musica e il teatro «ma, al di là dei progetti specifici, la musica è educazione a stare insieme: è sempre la mia missione» sottolinea. La colpisce come i ragazzini italiani siano in competizione tra loro, si giudichino, non si aiutino a vicenda: ci vuole un grosso lavoro. La vicaria Valentina conferma: «Ci vuole una vocazione, per fare questo lavoro. Non si tratta solo di insegnare dei contenuti, dobbiamo trasmettere loro la capacità di affrontare e risolvere i problemi, entrare in empatia, relazionarsi con gli altri».
Quando mi cade l’occhio sul brillante che porta al dito, Valentina sorride e sospira: il fidanzato lavora in Sicilia, fanno i salti mortali. La vita di tanti insegnanti in Italia è fatta di trasferimenti costosi, migrazioni, fratture e separazioni; il tema viene periodicamente alla ribalta e poi torna nell’oblio. Questo regala a docenti come Valentina e Chiara un’empatia speciale nei confronti degli alunni migranti. Ne capiscono lo spaesamento, il sentirsi corpi estranei in una comunità chiusa, «c’è una ragazza albanese con cui sono rimasta in buoni rapporti» racconta la giovane vicaria, «si sente ancora esclusa. Su quel fronte c’è ancora molto da fare».
Allievi in classe, stranieri in città, s’intitolava per l’appunto un’ampia ricerca sull’atteggiamento degli insegnanti di scuola elementare di fronte all’immigrazione, pubblicata nel 1997. Il problema è ancora attualissimo e, di nuovo, non solo amatriciano: «Per i nati in Italia la questione è quella di garantire loro una piena integrazione formativa e sociale, perché non si sentano stranieri nel Paese in cui sono venuti al mondo» scriveva il ministro dell’Istruzione Giannini nella presentazione del summenzionato rapporto del MIUR Tra difficoltà e successi.
La scuola da sola non può farcela a integrare bambini e ragazzi stranieri. La sua azione non può essere efficace, se fuori dalla classe gli alunni devono vivere da emarginati per mancanza di politiche adeguate a sostegno dell’inclusione sociale.
La scuola non può fare tutto. Però può fare tanto. Mi hanno molto colpito le analisi di un Rapporto sulla scuola della Fondazione Agnelli di qualche anno fa. Mettendo a confronto i risultati conseguiti dagli alunni di tutta Italia, la ricerca sottolineava il persistere di enormi differenze. Secondo il rapporto, il 48 per cento della varianza era legato allo status sociale e alle caratteristiche della famiglia dell’alunno, il 15 per cento dipendeva dalla regione in cui si trovava la scuola, ma ben il 37 per cento era attribuibile alla diversità tra le scuole all’interno della stessa regione.
La scuola può fare una grossa differenza. Per questo, quanto più il contesto è difficile, tanto più deve cercare di fare tutto il possibile e inventarsi strategie nuove per stare sul territorio, deve fare più che semplicemente adempiere alla propria funzione burocratica: è questa la convinzione della dirigente della scuola primaria «Romolo Capranica», Maria Vincenza Bussi.
Devo aspettare un po’ per riuscire a incontrarla: come responsabile di due istituti in contemporanea (quello di Amatrice le è stato affidato in reggenza sei anni fa: in tutta Italia sono circa millecinquecento gli istituti privi di dirigente, affidati a un «supplente») è impegnata dalla mattina presto alle dieci di sera: in tutto segue diciassette plessi (si chiamano così, tecnicamente, i singoli edifici scolatici) dislocati tra monti e valli, incluse alcune scuole superiori, perché i suoi istituti sono «omnicomprensivi»; riesce a essere ad Amatrice un giorno alla settimana. Sta per essere «pensionata d’ufficio» dalla legge Madia dopo quarantasette anni di servizio, ma fosse per lei avrebbe continuato, nonostante la fatica.
«Avevo già maturato i contributi cinque anni fa e ho scelto di rimanere» mi racconta senza preamboli. È una dirigente della vecchia guardia, «quando ho fatto il concorso – era ancora nazionale – eravamo quattordicimilacinquecento, l’abbiamo superato in ottocento e l’abbiamo vi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La scuola salvata dai bambini
  4. Prologo
  5. 1. L’ombelico d’Italia. Amatrice (Rieti)
  6. 2. Scuole di seconda generazione. Milano
  7. 3. Chi ha paura del bambino nero? Brescia
  8. 4. Coltivare la «ghianda». Ancona
  9. 5. Nel cerchio del mago. Genova
  10. 6. Un corpo e una storia. Udine
  11. 7. Poesie all’ombra del muro. Padova
  12. Intervallo
  13. 8. La musica delle nuvole. Torino
  14. 9. Il fascino discreto della normalità. Suzzara e Sermide (Mantova)
  15. 10. Porte aperte. Napoli
  16. 11. People have the power. Roma
  17. 12. L’Europa che verrà. Palermo
  18. 13. La scuola salvata dai bambini. Cittareale (Rieti)
  19. Epilogo
  20. Ringraziamenti
  21. Bibliografia essenziale
  22. Copyright