Rapaci
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Il disastroso ritorno dello Stato nell'economia italiana

  1. 280 pagine
  2. Italian
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Il disastroso ritorno dello Stato nell'economia italiana

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Un fantasma si aggira per l'Europa: quello del nuovo statalismo. Spinto dal vento della crisi che soffia dagli Stati Uniti, ha investito la Gran Bretagna, la Francia, l'Olanda, la Germania. E l'Italia? Nel nostro Paese quel fantasma è sempre stato di casa. Trasformandosi, negli ultimi anni, in una manomorta pubblica che ammorba l'economia. A cominciare dalle migliaia di imprese locali, controllate dai Comuni, dalle Regioni e dalle sempre più inutili Province. Società per fare autodromi di Formula uno, per amministrare le eredità lasciate ai ciechi, perfino per comprare agenzie di pompe funebri dai privati. Imprese locali dai bilanci traballanti che sponsorizzano profumatamente squadre di basket. Aziende comunali per gestire casinò e gioco d'azzardo. Per non parlare dello Stato centrale. Dove in vent'anni si sono sperperati più di 5 miliardi dei nostri euro nell'Alitalia. Dove si resuscitano società morte e sepolte soltanto per piazzare amici e famiglie. E ne nascono di nuove a ritmo continuo: per distribuire soldi pubblici allo spettacolo, per fare la carta d'identità elettronica, per realizzare centri benessere, perfino per affidare consulenze senza gare. Il tutto con la presenza, incombente e oppressiva, della politica nelle imprese pubbliche: migliaia di posti da occupare nei consigli di amministrazione, manager scelti in base alle parentele partitiche e stipendi d'oro indipendenti dai risultati e dal merito. Dimenticatevi le liberalizzazioni e le privatizzazioni che avrebbero dovuto spazzar via la politica dal mercato e offrire servizi migliori e più economici ai cittadini. Sulla ricca carcassa del nostro Paese volteggiano avidi i Rapaci delle vecchie e nuove famiglie del potere.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2010
ISBN
9788858601648

1
La primavera dei nuovi boiardi

Come resuscitare una società defunta e vivere felici

L’unica cosa che rimaneva da fare era un dignitoso funerale. Seguito da una pietosa sepoltura. Con una lapide: «Qui giace Italia Previdenza spa. Società nata inutile, inutilmente sopravvissuta a quattro governi, e soppressa dopo aver preso atto della sua inutilità. Consiglieri e sindaci, sgomenti, ringraziano per i gettoni di presenza inutilmente riscossi». Invece no. Quando il cadavere, già benedetto, stava per essere calato nella fossa, ecco una resurrezione bipartisan da far morire d’invidia Lazzaro.
Ed è qui per voi, signori contribuenti, un’Italia Previdenza spa come nuova. Trattasi di una società per il 65% di proprietà dell’Inps e per il restante 35% dell’Ipost, l’istituto previdenziale dei postini. Era stata creata nel 2001, dieci giorni prima delle elezioni vinte da Silvio Berlusconi. Doveva servire per partecipare al grande affare della previdenza complementare, di cui i politici discutevano da anni. In attesa, la tenevano in vita con l’alimentazione forzata: qualche incarico di studio, qualche consulenza e poco più. Poi però l’Inps è rimasto tagliato fuori dai fondi pensione integrativi. Ragion per cui l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano e l’ex presidente dell’Istituto della previdenza sociale, l’avvocato varesino Gian Paolo Sassi, amico del ministro leghista Roberto Maroni, ne avevano decretato la sacrosanta chiusura.
Ma senza aver fatto i conti con Antonio Mastrapasqua. E neppure con Giovanni Ialongo. Chi sono? Il primo è un ex consigliere di amministrazione dell’Inps in quota a Forza Italia, promosso alla presidenza dell’ente pubblico dopo le elezioni rivinte nel 2008 da Berlusconi. Il secondo è un ex sindacalista già segretario dei postali della Cisl, organizzazione potentissima nelle Poste italiane e che tradizionalmente esercita il controllo sull’Ipost. Del quale Ialongo è stato anche presidente prima di ricevere, sempre dopo le elezioni del 2008, un premio alla carriera consistente in un prestigioso incarico pubblico. Quale? Nientemeno che la presidenza delle Poste.
Il bon ton della lottizzazione vuole che la maggioranza lasci qualcosa anche all’opposizione. In questo caso, poi, Berlusconi ha preso tre piccioni con una fava. Cioè ha fatto entrare il sindacato moderato nella stanza dei bottoni di una grande impresa pubblica e insieme ha accontentato il centrosinistra salvando pure la faccia. Ialongo non è un politico di mestiere, ma la sua fede nel Partito democratico è indiscussa, come il suo legame con uno dei massimi esponenti del centrosinistra: l’ex presidente del Senato Franco Marini, ex segretario generale del sindacato di ispirazione cattolica.
Ma torniamo a questa fantomatica Italia Previdenza, che in gergo chiamano Sispi. Sassi e Damiano, dunque, ne decretano la fine. Ma si tira per le lunghe. Anche perché il presidente e l’amministratore delegato della Sispi non hanno alcuna intenzione di chiudere. Chi sono? Ialongo e Mastrapasqua. Il tempo passa. Finalmente Sassi e Damiano tolgono il disturbo. Come d’incanto la società risorge. Il 19 dicembre si nomina il nuovo consiglio di amministrazione e il 15 gennaio 2009 vengono designati il presidente e l’amministratore delegato. Chi sono? Ialongo e Mastrapasqua, neanche a farlo apposta.
Con un dettaglio sbalorditivo che riguarda la posizione di Mastrapasqua nel Guinness dei Primati. Il presidente di uno dei più importanti enti pubblici ha infatti una quarantina di altri incarichi. Tre presidenze, oltre a quella dell’Inps, in società del gruppo Equitalia, l’esattore pubblico delle imposte, controllato dall’Inps al 49%. Tre vicepresidenze, in altrettante società del medesimo gruppo esattoriale statale. Ci sono poi posti da consigliere semplice, presidente di collegio sindacale, sindaco effettivo, sindaco supplente, liquidatore. Fra i suoi innumerevoli incarichi professionali non mancano quelli in gruppi titolari di pubbliche concessioni, come Autostrade, Telecom e Aeroporti di Roma. E in altre imprese statali, come alcune aziende controllate da Finmeccanica, Italia Lavoro, Coni e Sviluppo Italia.
Per finire: quali miracoli può fare la creatura resuscitata da Mastrapasqua e Ialongo che l’Inps non sia in grado di realizzare con le proprie strutture? Mistero. Intanto, cosa più importante, la resurrezione della Sispi s’è portata dietro cinque posti da consigliere di amministrazione, uno da segretario (retribuito) del consiglio, un collegio di tre revisori effettivi e due sindaci supplenti. Con l’immancabile politico trombato: Luigi Fabbri, ex capogruppo di Forza Italia nella commissione Lavoro, presentatosi senza fortuna alle Politiche del 2008. Era troppo indietro nella lista.
Cose già viste, anche se non con una simile completezza di gamma. Politica, sindacato, burocrazia, magari l’ombra di qualche piccolo ordinario (ordinario per l’Italia, naturalmente) conflitto d’interessi. Non manca proprio nulla. Ma può esser considerato normale tutto questo?

La «manomorta» dei Rapaci

In tre mesi il Regno Unito ha stanziato cento miliardi di sterline per salvare le banche. Il governo britannico ha rilevato anche la maggioranza della Royal Bank of Scotland, il quinto istituto di credito del mondo. Il cancelliere tedesco Angela Merkel ha presentato un disegno di legge per nazionalizzare le banche in crisi. Il presidente francese Nicolas Sarkozy ha imposto la fusione fra i due gruppi mutualistici Caisse d’Epargne e Banque Populaire, attirandosi l’accusa di aver trasformato l’Eliseo in «una banca d’affari» mossagli dal quotidiano «Le Monde». In un anno e mezzo negli Stati Uniti sono state fatte 450 nazionalizzazioni. La Casa Bianca è diventata il principale azionista di Citigroup, che prima della catastrofe finanziaria era la maggiore banca del mondo. Fatti sconvolgenti, che hanno strappato a un grande vecchio della finanza come Antoine Bernheim questo tagliente commento: «Quasi quasi l’Italia sembra più liberale».
Naturalmente è soltanto un’impressione. Il fantasma dello statalismo che ora si aggira per l’Europa da noi è sempre stato di casa. Ma con un piglio decisamente meno nobile. Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha giudicato le nazionalizzazioni bancarie «una delle soluzioni giuste, ma fatta nel modo sbagliato», ha sostenuto che «entrare nelle banche nuoce gravemente alla salute di quelli che ci entrano», ha argomentato che l’intervento pubblico «dev’essere transitorio, strumentale» e «solo se è necessario». Indiscutibilmente la crisi è stata affrontata all’inizio dal governo italiano con un atteggiamento meno interventista che altrove. Anche perché, diciamo la verità, non ce n’è stata la necessità. Le nostre banche non sono fallite a raffica e le grandi imprese non sono state travolte, come negli Usa, dall’ondata di piena della crisi. Ma che la presenza pubblica nell’economia in Italia sia meno pervasiva che altrove è semplicemente una barzelletta.
Nel maggio del 2008, pochi giorni dopo l’insediamento del governo Berlusconi, Tremonti aveva annunciato l’intenzione di «affiancare» alla legge finanziaria «un piano di liberalizzazioni, di semplificazioni e di privatizzazioni, un piano vasto e organico di riduzione della manomorta pubblica».
Parole sante. La «manomorta pubblica», quella delle mille e mille Sispi, per intenderci, è il vero problema del Paese. Il torbido impasto fra gli interessi dei partiti di destra e di sinistra, quelli del sindacato, le indomite resistenze al cambiamento della pubblica amministrazione, che produce clientele e sprechi. Perché le une senza gli altri non potrebbero esistere. Non si preoccupino i banchieri: lo Stato non ricomprerà le banche. Non tutte, almeno. E stiano sereni anche gli industriali: lo Stato non ricomprerà le imprese. Non tutte, almeno. In compenso, però, l’azionista pubblico non abbandonerà le migliaia di aziende locali. Il governo si terrà care le proprie partecipazioni. Gli enti inutili continueranno a prosperare. Le società pubbliche morte per consunzione rinasceranno per offrire nuove opportunità di impiego ai politici e ai loro famigli. E gli uomini di partito, a legioni, avranno sempre poltrone di sottogoverno da occupare.
Conosciamo a perfezione tutte le obiezioni verso chi si ostina a mettere il dito in questa piaga. La più ricorrente: sono cose che incidono in modo irrilevante sulla spesa pubblica. Allora provate a fare il conto, sempre che ci riusciate. Le aziende create dagli enti locali sono ormai migliaia e spuntano come i funghi. Nel marzo del 2009 erano più di 4000 e avevano 38.000 fra consiglieri, sindaci e altri amministratori. Le società e gli enti delle Regioni, che sono per la stragrande maggioranza inutili, sono circa 600. Poi si devono aggiungere i cosiddetti enti «intermedi», che il deputato di Forza Italia Mario Valducci ha proposto di sopprimere per legge. Un dedalo inestricabile di ambiti territoriali, consorzi di bonifica e altri strani organismi, come parchi naturali e aree protette, per un numero impressionante: 1099. Infine, centinaia di enti pubblici e società ancora controllate dallo Stato. Quindi l’eredità dell’Iri, raccolta da Fintecna, holding che controlla ancora un centinaio di società, con centinaia di partecipazioni a valle. Immobiliari, aziende di trasporto, imprese industriali. E lo sterminato cimitero delle grandi liquidazioni: Sir, Finsider, Iritecna…
Un sistema che inoltre garantisce la sopravvivenza di quelli che si chiamavano i boiardi di Stato e che ora si preferisce chiamare più asetticamente «manager pubblici». C’è chi si trasferisce da un’azienda statale all’altra, come l’ex amministratore delegato della Finmeccanica Giuseppe Bono, passato al vertice della Fincantieri. Chi invece viene indirizzato verso altri incarichi governativi, come l’ex numero uno di Fintecna e per un breve periodo di Alitalia, Maurizio Prato, ex altissimo dirigente dell’Iri messo da Tremonti alla guida dell’Agenzia del Demanio. E chi da un quarto di secolo ha il monopolio della stessa poltrona, come l’amministratore delegato della Tirrenia di navigazione, Franco Pecorini. Pochi di loro sfuggono a una regola pressoché generale: che i manager pubblici sono ben più pagati di quanto non lo fossero i loro predecessori. Tanto per fare un esempio, quale capo dell’Anas, prima dell’ex direttore finanziario dell’Iri Pietro Ciucci, percepiva una retribuzione annua di 750.000 euro, ossia il vecchio miliardo e mezzo di lire? E per quale boiardo delle vecchie Partecipazioni statali, una volta perduto il posto, si apriva il dorato paracadute di qualche ricca azienda locale? Quanti hanno avuto le occasioni di Tomaso Tommasi di Vignano, ex amministratore delegato di Telecom riciclatosi nel sistema delle municipalizzate fino a occupare la poltrona di presidente di Hera, la grande società quotata in Borsa controllata dai Comuni di Bologna, Ferrara, Modena, Imola, Cesena, Forlì, Rimini e Ravenna? Oppure la fortuna di Elio Catania, nominato da Berlusconi amministratore delegato delle Ferrovie, rimosso da Prodi e ripescato dal sindaco di centrodestra di Milano, Letizia Moratti, come factotum dell’Atm, l’azienda di trasporti del Comune meneghino, con uno stipendiuccio da 480.000 euro l’anno?
Uscito formalmente dal settore finanziario, lo Stato si appresta a farvi pesantemente ritorno con la Cassa depositi e prestiti, la banca del Tesoro che controlla già quote consistenti di Enel, Eni, Poste e Terna, la società della rete elettrica. Questa volta l’obiettivo è rilanciare le infrastrutture e l’economia reale, fornendo risorse alle piccole e medie imprese, il tessuto produttivo italiano, utilizzando la massa gigantesca del risparmio postale: 100 miliardi di euro. Tremonti ha affidato la missione di risvegliare quello che lui stesso ha definito «un gigante addormentato» a un avvocato di Parma refrattario alla politica, Massimo Varazzani. Una mosca bianca: è stato l’unico amministratore di una società pubblica, l’Enav, Ente per l’assistenza al volo, rimosso dai politici perché voleva far risparmiare lo Stato restituendo al Tesoro 350 milioni di euro che non servivano. A lui il compito di fugare tutti i pregiudizi che si sono ammassati su questa operazione, a opera di chi sospetta che la Cassa depositi e prestiti sia la pietra angolare di un nuovo Iri. Prima le infrastrutture, poi magari le banche in difficoltà, le grandi imprese, la rete telefonica… chissà.
Ma anche se Varazzani riuscirà nell’impresa, non vi illudete. La «manomorta pubblica» spendacciona e clientelare è destinata a sopravvivere. A dispetto dei più nobili propositi.

La moltiplicazione delle poltrone

Il 18 dicembre del 2008 Mauro Mainardi, imprenditore con un debole per il Popolo della libertà, e Paolo Dalla Vecchia, avvocato, esponente di Alleanza nazionale, che già aveva tentato invano nel 1995 di conquistare la Provincia di Venezia, sono entrati nel consiglio di amministrazione di Arcus, società governativa affidata al ministero dei Beni culturali. Entrambi accomunati dal medesimo destino. Candidati al Senato in Veneto, rispettivamente al decimo e al tredicesimo posto, per un soffio non ce l’hanno fatta. Ma ora potranno mettere la loro passione, congiunta, al servizio dell’arte e della cultura. Esattamente come Giacomo De Ghislanzoni, già parlamentare di Forza Italia, ex presidente della Commissione agricoltura della Camera: anche lui nominato nel consiglio di amministrazione di Arcus. Il terzo consiglio in soli cinque anni, durante i quali si sono alternati anche tre commissari. Una specie di assurdo record mondiale, giustificato soltanto dall’alternanza dei governi e dei ministri. Il primo consiglio di amministrazione, insediato da Giuliano Urbani, si dimise in massa al tempo del suo successore ai Beni culturali Rocco Buttiglione (centrodestra). La nomina del secondo consiglio venne subito seguita da un primo commissariamento, con l’arrivo del nuovo ministro della Margherita Francesco Rutelli. Quindi un secondo commissario, Arnaldo Sciarelli, che si dichiarò subito candidamente «un vecchio socialista iscritto ai Ds e tra i più grandi sostenitori del Partito democratico». Ancora un terzo commissario nominato da Sandro Bondi (centrodestra), e infine un terzo consiglio di amministrazione: per metà composto da politici in servizio permanente effettivo nella maggioranza uscita dalle urne nell’aprile 2008.
Per statuto, Arcus deve finanziare progetti nel campo culturale e dello spettacolo. Ed esegue alla lettera, come dimostra la vicenda seguente. Il 26 gennaio del 2007 il commissario nominato da Rutelli approva un progetto di restauro e manutenzione dell’Auditorium Conciliazione, a Roma. Seicentomila euro. Il contributo è destinato a una società privata: I Borghi srl. Il 17% è di proprietà di Lorenzo Cesa, segretario dell’Udc. Il 25% è posseduto da Gian Marco Innocenti, in quel momento vicepresidente dell’Atac, società del Comune di Roma. E un altro 25% fa capo a Francesco Carducci Artenisio, all’epoca amministratore delegato della società del Tesoro Cinecittà holding, nonché ex assessore al Turismo del Comune di Roma nella giunta Rutelli ed esperto di spettacolo della Margherita. Cesa terrà a precisare: «Sono orgoglioso di aver restituito alla città una struttura che versava in stato di completo abbandono. Per farlo ho personalmente firmato ...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Dedica
  4. 1. La primavera dei nuovi boiardi
  5. 2. La compagnia aerea più pazza del mondo
  6. 3. Patrioti con le ali
  7. 4. Privatizzazioni all’italiana
  8. 5. Vizi privati, pubbliche virtù dei monopoli
  9. 6. Lo Stato banchiere ha cambiato pelle
  10. 7. Tutti gli affari del governatore
  11. 8. L’ente più inutile corre in autostrada
  12. 9. Il Paese dei Campanili spa
  13. 10. La festa di notai, avvocati e consulenti
  14. 11. Quando l’azionista è il partito
  15. Ringraziamenti
  16. Indice dei nomi
  17. Indice