La traccia di Cesare Pavese
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La traccia di Cesare Pavese

  1. 243 pagine
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La traccia di Cesare Pavese

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Una riflessione sulla vita e sulle opere di narrativa, di poesia e di pensiero di Cesare Pavese (1908-1950) nel centenario della nascita. Non un libro "su" Pavese. Nemmeno una colta riflessione sui problemi aperti come ferite dal poeta e scrittore piemontese. O meglio, tutto questo, sì. Però soprattutto un libro "con" Pavese: un viaggio per luoghi e per nuclei, ripercorsi con la guida della sua opera, da Santo Stefano Belbo a Brancaleone Calabro, fino al ritorno nelle Langhe e a Torino. Un viaggio interpolato da frequenti e rapide citazioni di versi o brani di prosa - da Il mestiere di vivere, La luna e i falò, a La casa in collina oppure da Le lettere 1924-1950 a Feria d'agosto -, dove è l'opera stessa a guidarci sui suoi luoghi e attraverso gli avvenimenti fondamentali della sua esistenza, fino al suo tragico epilogo.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2011
ISBN
9788858602812
Gianfranco Lauretano
LA TRACCIA DI CESARE PAVESE
INTRODUZIONE
Si viaggia da soli?
Pavese lo sapeva bene, un viaggio non si fa da soli. Per un mucchio di motivi: perché è triste; perché la complessità del mondo soverchia la capacità di vedere di due occhi soltanto; per parlare con qualcuno; perché parlando con qualcuno le cose non corrono più alla solita velocità. Ma per Pavese ci sono almeno due motivi ancora più penetranti per non giustificare la solitudine del viaggio. Il primo è che tutto l’essere fin nelle sue radici grida contro la solitudine, per cui la solitudine stessa è annuncio di un altro, sotto le cui “ali” bisogna stare. Lo dice in una pagina de Il mestiere di vivere, il diario che lasciò come eredità e che è una delle più belle e vaste raccolte di pensieri della nostra letteratura: come il Mestiere rinnova il diario esistenziale e letterario dopo lo Zibaldone di Leopardi, così i Dialoghi con Leucò (una copia del quale fu trovata nello stesso luogo e nello stesso momento della sua morte) ripropongono le Operette morali del poeta di Recanati. Leopardi e Pavese, dunque. Ma ascoltiamo la pagina del diario del 12 aprile 1947:
Tu sei solo, e lo sai. Tu sei nato per vivere sotto le ali di un altro, sorretto e giustificato da un altro, che sia però tanto gentile da lasciarti fare il matto e illudere di bastare da solo a rifare il mondo. Non trovi mai nessuno che duri tanto; di qui, il tuo soffrire i distacchi – non per tenerezza. Di qui, il tuo rancore per chi se n’è andato; di qui la tua facilità a trovarti un nuovo patrono – non per cordialità. Sei una donna, e come donna sei caparbio. Ma non basti da solo e lo sai.
«Non basti da solo e lo sai.» Sì, Pavese lo sapeva bene, e ne ha parlato così tanto da passare per lo scrittore della solitudine. Ma tutta la sua opera afferma il contrario, fugge da questa tristezza e lotta contro questa apparente evidenza della solitudine contro cui deve aver lottato tutta la vita, arrendendosi solo alla fine. È chiarissimo quasi a ogni respiro della sua opera che cercare la verità del proprio viaggio e del proprio destino significa riconoscere che esso non si fa da soli.
Il secondo motivo è che tante volte deve aver sentito la puntura dello scivolamento nella solitudine come quando, spinto da quel pungolo, aveva attraversato camminando strade e piazze deserte; e deve essersi imbattuto più e più volte in quel diaframma di estraneità che sembra tenerci tutti, ultimamente, lontani. Se l’essere insieme, la compagnia è qualcosa che compie la vita, Pavese ne è il poeta, rimanendo insieme il cantore della incapacità sua e nostra di realizzare compiutamente quella comunione tanto anelata. La sua scrittura in certi scatti della poesia o nell’essere brusca nei dialoghi e nei personaggi (anche in questo piemontese, come l’altro suo grandissimo conterraneo, Beppe Fenoglio) sa diventare drammatica e mossa; ma sa anche distendersi con respiro e dettagliata precisione nella descrizione dei luoghi e nel resoconto degli stati d’animo; in tutti i casi ciò che la muove e le consente di scendere nell’interiorità recondita dell’anima e dei sentimenti è questa lotta tra ineluttabilità e rifiuto della solitudine, proprio come accade a Stefano, protagonista de Il carcere:
La solitudine sarcastica cedeva. E se cedeva in quella sera piena di tanti fatti nuovi e improvvisi ricordi, come avrebbe potuto resistere l’indomani? Senza lotta, s’accorse Stefano, non si può stare soli; ma stare soli vuol dire non voler più lottare. (Il carcere, capitolo VII)
Nell’essere non siamo soli, questo insegna Cesare Pavese. E questo è il vero motivo che mi ha spinto a questo viaggio. Una ragione all’inizio solo intuita vagamente, trattenuta dal ricordo di una lettura lontana delle sue opere, compiuta ai tempi dell’università e prima ancora, poi via via più chiara, persino letteraria: non si viaggia da soli, non si scrive da soli (paradossale, no?). Non si vive da soli. Tutto il nostro essere grida, con Pavese, la domanda di un rapporto.
Consistenza del viaggio
All’inizio di questo viaggio, dunque, ripenso agli amici che me l’hanno proposto e a quelli a cui chiedere aiuto: al poeta Davide Rondoni, sodale di una strada che fin dai vent’anni percorriamo vicini nella vita nostra e della poesia, nelle riviste, nei libri (sua è l’idea di questo viaggio); a Marco Antonellini, compagno di questo viaggio, a Laura Vallieri, anche lei insegnante e scrittrice, che ha esplorato i luoghi di Pavese così come si vedono nelle sue parole (sue sono molte indicazioni delle citazioni qui riportate). E ad altri ancora, che man mano incontrerò. L’idea è di compiere un viaggio nei posti di Cesare. Vedere i suoi luoghi, respirarne l’aria, spiarne la luce, sentire le voci delle persone. Incontrerò Pavese? Lo ritroverò o la sua presenza si sarà dissipata per sempre? E i luoghi così come sono sulle pagine – la vigna ben curata, le case vecchie sulle colline, il mare subito dopo una ferrovia – sono ancora quelli?
Oggi molti affermano che il viaggio è bello in sé; la bellezza del viaggio per il viaggio. Sospetto che Pavese ne avrebbe riso. Pablo, il personaggio narrante del suo romanzo Il compagno, afferma:
...e sapere che Linda mi avrebbe aspettato era più bello che dormire con lei. (Il compagno, capitolo X)
E Stefano, ne Il carcere, racconto in cui c’è una continua oscillazione tra la solitudine del confinato politico e quella esistenziale e in cui l’idea che il carcere vero sia la solitudine è più che un sospetto, conferma:
Allora afferrò questo pensiero: si resiste a star soli finché qualcuno soffre di non averci con sé, mentre la vera solitudine è una cella intollerabile.
Solo chi sa che alla fine del viaggio qualcuno lo attende può stare da solo. In certi passaggi, di fronte a questa scoperta, si sprigiona tutta la tenerezza e la rude evidenza che diventano un personaggio di un romanzo e di un dramma e che, si vede bene, è stato prima un incontro avvenuto nella realtà. Spesso i personaggi di Pavese sono ispirati da persone vive e reali, tecnica frequente tra i narratori. Ma ci sono brani, come questo, in cui quel crisma tipico, di affetto e ruvidità, è come perla che emerge dalla trama della pagina:
Io mi ero accorto ritornando a casa che preferivo viver solo piuttosto che Linda scordasse anche me. Mi faceva un piacere carogna pensarci. Se di colpo smettevo di uscire con lei, forse l’avrei mortificata e non mi avrebbe più scordato.
«Io mi ricordo ogni momento che ti ho vista» le dissi.
«Può darsi.»
Era come l’avessi già fatto. Mi tremavano i denti. «Da stanotte ho capito chi sei» dissi piano.
Lei mi prese per mano e diceva qualcosa.
«Dunque l’altr’anno non uscivi» le dissi.
Mi tenne il braccio e mi guardava brusca. «Cosa c’è?»
«Niente» le dissi. «Ma perché fai questo? C’era Amelio, e hai detto ch’eri stata in montagna con lui. Quella sera che avete ballato nel portico...»
«Non si può dirvi una parola» mi fece. «Anche tu.»
Discorremmo così dei suoi anni passati, e mi disse molte cose e divenne malinconica. Dovevamo andare al cinema e non andammo. Ci comprammo le castagne arrostite e passeggiammo in riva al Po. Veniva notte, su quei corsi, e i lampioni erano accesi e avrei voluto che durasse sempre, perché adesso sapevo che l’idea di lasciarci e non rivederci più mi tagliava le gambe. Era come avessi messo radici nel suo sangue. Il suo fianco era il mio. La sua voce era come abbracciarla. (Il compagno, capitolo VIII)
Piccola cronologia
Può essere utile a questo punto, per chiarire il percorso che stiamo per intraprendere sulle tracce di Pavese facilitando la lettura e la collocazione delle opere e dei fatti, compilare una sintetica cronologia della sua vita, situandovi gli avvenimenti e gli scritti principali.
1908
Pavese nasce il 9 settembre a Santo Stefano Belbo. Il luogo è casuale, poiché la famiglia abita a Torino e possiede in paese una casa per la villeggiatura estiva.
1914
Eugenio Pavese, il padre dello scrittore, muore di tumore al cervello. La sorella Maria si ammala di tifo e Cesare frequenta la prima elementare a Santo Stefano Belbo, dove viene mandato per evitare il contagio.
1923
Inizia a frequentare il liceo classico Massimo D’Azeglio e ha come insegnante di italiano e latino Augusto Monti, professore di formazione crociana e ammiratore di Gramsci.
1926
Si iscrive alla facoltà di Lettere dell’Università di Torino. Il caro amico Elico Baraldi si suicida per amore.
1927
Nasce la “confraternita” del liceo D’Azeglio per iniziativa di Augusto Monti. Oltre a Pavese, del gruppo di intellettuali uniti da tendenze politiche e culturali simili fanno parte, tra gli altri, Norberto Bobbio, Leone Ginzburg, Ludovico Geymonat, Federico Chabod, Giulio Einaudi, Vittorio Foa e il suo migliore amico, Mario Sturani.
1930
Si laurea con una tesi su Interpretazione della poesia di Walt Whitman. Scrive il saggio Un romanziere americano, Sinclair Lewis e prende avvio la sua lunga e feconda opera di studio e traduzione della narrativa americana. Il 4 novembre muore la madre e Pavese rimane a vivere con la famiglia della sorella Maria e del cognato Guglielmo Sini. Scrive I mari del Sud, la prima poesia pubblicata.
1931
Da gennaio a novembre traduce Moby Dick o la balena di Melville, pubblicata l’anno dopo.
1933
Si iscrive al Partito Nazionale Fascista nella speranza di poter insegnare nelle scuole di Stato. Giulio Einaudi fonda l’omonima casa editrice.
1934
Diventa direttore della rivista «Cultura», edita da Einaudi, dopo che il precedente direttore, Leone Ginzburg, è stato arrestato.
1935
Viene arrestato e condannato al confino a Brancaleone Calabro. Inizia a scrivere il diario Il mestiere di vivere, pubblicato postumo nel 1952.
1936
Debutta come poeta con la raccolta Lavorare stanca. Riceve il condono del confino e torna a Torino, dove apprende che la donna amata sta per sposare un altro.
1938
Viene assunto dalla casa editrice Einaudi e inizia un’attività editoriale che si rivelerà intensa come quella di traduttore e di narratore.
1939
Finisce di scrivere Il carcere, il romanzo del confino.
1940
Conosce Fernanda Pivano, a cui farà una proposta di matrimonio, ricevendone un diniego. Diventa un punto di riferimento fondamentale per l’Einaudi.
1943
Inizialmente, a causa della guerra, si trasferisce assieme alla casa editrice Einaudi a Roma. Poi si rifugia a Serralunga di Crea, nel Monferrato, a casa della sorella Maria, lì sfollata.
1944
Entra in relazione con padre Giovanni Baravalle, sacerdote conosciuto nel collegio Trevisio dei Padri Somaschi di Casale Monferrato, dove svolge mansioni di assistente educativo.
1945
Dopo la liberazione riprende l’attività di direttore editoriale all’Einaudi. Si iscrive al Partito Comunista. Da luglio abita a Roma. Inizia a collaborare al quotidiano «l’Unità». Grazie anche all’amicizia di Bianca Garufi, inizia a scrivere i Dialoghi con Leucò.
1947
Pubblica il romanzo Il compagno e i Dialoghi con Leucò.
1948
Pubblica il dittico Prima che il gallo canti, che contiene i due romanzi Il carcere e La casa in collina.
1949
Pubblica la trilogia La bella estate che comprende il romanzo omonimo e poi Tra donne sole e Il diavolo sulle colline. Scrive in autunno, in poco tempo, La luna e i falò. A capodanno incontra l’attrice americana Constance Dowling, l’ultimo amore.
1950
Pubblica La luna e i falò e vince in giugno il premio Strega con La bella estate. L’aggravarsi della crisi, dovuta anche all’allontanamento di Constance Dowling lo porta, nella notte tra il 26 e il 27 agosto, alla tragica scelta del suicidio, avvenuto all’Hotel Roma di Torino.
1951
Vengono pubblicate la raccolta di interventi critici La letteratura americana e altri saggi e quella poetica Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, con le poesie scritte nell’ultimo peri...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Occhiello
  3. Frontespizio
  4. PREFAZIONE
  5. LA TRACCIA DI CESARE PAVESE
  6. IL MESTIERE DI PAVESE – Schede tematiche
  7. Sommario