La pena di morte italiana
Nel sangue eterno
a Niki Aprile Gatti, ucciso dallo Stato il 24 giugno 2008
Per il tuo sangue, hai ucciso. Stato Sangue. Esangue, un ragazzo è stato trovato morto nella cella. Incensurato. Operatore informatico. Niki Aprile Gatti. 26 anni. Stato Sangue. Per il tuo sangue, hai ucciso. Stato sangue. Lo hai ucciso. Operatore informatico molto, moltissimo, esperto. Niki Aprile Gatti lavorava per la Oscorp SpA da un anno e mezzo. La magistratura di Firenze indaga su Oscorp SpA. Inchiesta Premium. 19 giugno 2008. Il titolare della Oscorp SpA viene arrestato. Anche Niki è tra gli arrestati. Con altre diciotto persone della Oscorp. Niki non ha niente da nascondere. Vuole parlare con i magistrati. Tutti gli altri diciotto arrestati vengono sottoposti a carcere domiciliare. Niki è nel carcere di massima sicurezza di Sollicciano. Muore poco prima di parlare con i magistrati. Il 24 giugno 2008. Massima sicurezza. Di morire. Per il tuo sangue. Stato Sangue. Per una persona incensurata esiste un Protocollo nella carcerazione. Per Niki Aprile Gatti no. Per una persona incensurata non esiste il carcere di massima sicurezza. Niki Aprile Gatti era in un carcere di massima sicurezza. Alla madre dicono che il figlio è in carcere a Rimini. Stato Sangue. Cosa aveva visto Niki? Operatore informatico esperto. Oscorp SpA vede Niki? Cosa sapeva Niki? Cosa avrebbe potuto dire ai magistrati? Stato Sangue sapeva? La madre di Niki chiede la verità al presidente Napolitano. Presidente Napolitano tace. Grazie presidente. Adesso sappiamo con chi stai. Stato Sangue. Come eterno trafitto, inflitto. Una madre muore. Un padre muore. E tu taci. Un ragazzo muore. E i tuoi silenzi dicono eterno sangue. Chi copri? Chi ti paga? Chi sei? Stato Sangue. Eterno il dolore. Se muore un figlio. Eterno un non sapere. Eterno il nostro essere piccoli. Noi non saremo mai grandi. Stato Sangue. Tu lo sai. Cerco la casa di Niki. È stata svuotata. Derubata. Non c’è nessuna traccia. Non c’è niente. È vuota. Non c’è il suo computer. Non ci sono le sue lettere. Vuota. Come la tua vena. Stato Sangue. Per questo uccidi. Nutriti finché puoi. Stato Sangue. Perché sono qui. Ad avvelenarti.
Giuliano Bugani
operaio, giornalista, poeta
16 maggio 2010
La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
(articolo 2 della Costituzione italiana)
È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà.
(comma 4, articolo 13 della Costituzione italiana)
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
(comma 3, articolo 27 della Costituzione italiana)
Nessun individuo potrà essere sottoposto a trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti.
(articolo 5 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo)
Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti disumani.
(articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo)
Ogni accusato ha diritto di difendersi personalmente o avere l’assistenza di un difensore di sua scelta e, se non ha i mezzi per retribuire un difensore, poter essere assistito gratuitamente da un avvocato d’ufficio, quando lo esigono gli interessi della giustizia.
(comma 3, articolo 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo)
Prefazione
In Italia, come tutti sanno, non esiste la pena di morte. C’è, è vero, ancora la libertà di tortura, in quanto il nostro codice penale non la contempla e qualcuno se ne approfitta, come durante il G8 di Genova a Bolzaneto e alla scuola Diaz.
Ma la pena di morte non esiste più dal 1° gennaio 1948 come recita la Costituzione italiana.
Ragion per cui in carcere le sentenze capitali sono eseguite con discrezione, senza dare nell’occhio. Il pestaggio si chiama infarto o emorragia cerebrale.
Lo strangolamento è sempre un suicidio, spesso con i lacci delle scarpe con cui non si impiccherebbe neppure un criceto. Si muore in cella e, durante l’agonia che può durare ore, come per Aldo Bianzino o per Stefano Cucchi, non è presente nessuno, il secondino è immancabilmente altrove, il medico di servizio in ritardo.
Quando arriva, rassicurante, con la borsa, non nota mai i segni delle percosse, dei lividi, delle ferite. Il decesso è naturale. Le diagnosi fotocopia dei medici attestano lesioni autoinferte. Si fanno sempre male da soli. Il detenuto era depresso, non ha retto.
I segni del male oscuro che affligge i carcerati defunti sono le lettere-testimonianza inviate ai parenti, in particolare alle madri poco prima della loro morte.
Sono annunci funebri, di ragazzi che gridano in una grafia incerta, disperata, che stanno per morire ammazzati.
Le madri chiedono un colloquio, un trasferimento a un altro carcere, che vengono però negati fino alla morte, come nel caso di Niki Aprile Gatti. Il carcere, il luogo per definizione più sicuro e custodito del mondo, è un braccio della morte che si estende lungo tutta la penisola, da Genova, a Firenze, a Rovereto.
Ogni anno muoiono in carcere circa 180 detenuti. Un terzo sono suicidi. Chi si toglie la vita è di solito un ragazzo alla prima detenzione. Nel 2009 vi sono stati sessantanove suicidi, un record storico, un tasso superiore di ventuno volte a quello della popolazione italiana non detenuta. Si potrebbe pensare che sia normale che ciò succeda, in Italia come altrove. Invece il Canada ha un tasso quattro volte più basso di quello italiano e il ministro della Giustizia polacco si è dovuto dimettere a causa di un suicidio. In galera chi sopravvive e non si suicida o viene suicidato diventa un delinquente abituale, un pericolo per la società quando ritorna in libertà. L’affidamento ai servizi sociali è stato di fatto eliminato.
L’affidamento è una misura di rieducazione a tutela della sicurezza dei cittadini. I detenuti affidati ai servizi sociali, infatti, quasi mai compiono altri reati e ritornano in carcere: solo tre su dieci. Chi sconta tutta la detenzione in carcere invece continua a delinquere: ben sette su dieci.
Questo libro è un coro dolente di voci che ci racconta di gironi infernali dove la pena di morte è inflitta senza sentenza, senza colpe, senza testimoni e soprattutto senza colpevoli. Il carcere, come la divisa, non si processa e chi finisce dietro le sbarre è solo un numero senza più diritti. La pena di morte non è mai stata abolita, si è evoluta. Chi, con sorpresa generale, viene trovato morto nella sua cella, con la faccia tumefatta, gli organi interni devastati, è solo un «diversamente suicida».
Beppe Grillo
Introduzione
La giustizia non si è fermata
Siamo nell’inverno del 1944 in un paese del Centro Italia, c’è l’occupazione nazista, la popolazione vive di stenti e sofferenze, esiste il mercato nero. Una giovane infermiera di diciannove anni di nome Clotilde presta servizio presso l’ospedale psichiatrico1 della città a dieci chilometri dal suo paese. In quegli anni nevica parecchio, e le condizioni di vita sono terribili.
La nostra infermiera lavora nove giorni consecutivi e ha un solo giorno di riposo. Dura è l’esistenza di questa ragazza rimasta orfana di padre a sei mesi di vita, con la madre che lavora a Roma. Allevata dai nonni materni che la crescono con amore e la educano al rispetto dei valori dell’onestà e all’osservanza delle leggi. Ma all’età di nove anni muore anche la nonna, lei resta con una sorellina più grande di due anni e con nonno Luciano, che deve fare da padre, e ora anche da madre. La vita difficile, l’usurante lavoro, i turni massacranti. La sua esistenza scorre così.
La nostra infermiera è fidanzata con un giovane falegname, anche lui dipendente del presidio ospedaliero psichiatrico. Il suo sogno di ragazza è sposare la persona che ama. Con enormi sacrifici riesce a mettere da parte qualche soldo per acquistare un minimo di corredo e le cose necessarie per mettere su casa.
Un giorno torna al suo paese, dopo avere concluso i nove giorni di servizio, va a casa di sua zia che l’aveva cercata, lì trova un gruppetto di persone. Oltre la zia ci sono tre ragazzi, uno dei quali è suo cugino figlio della sorella di sua madre, tutti diciassettenni e un’altra «zia» (una donna adulta che viene chiamata così per rispetto). I cinque stanno visionando della biancheria: lenzuola, federe, coperte. A prima vista sembra biancheria usata. Suo cugino la invita a scegliere. A quell’invito Clotilde esclama: «Mica l’avete rubata?». Prontamente il cugino risponde: «Ma come ti viene in mente, mica posso ingannare mia cugina?». Clotilde replica che non è interessata a quella «roba». Nella discussione entrano anche le due signore adulte che la rassicurano e la convincono ad acquistare qualcosa, in previsione del matrimonio, e con la penuria di beni necessari. Lei insiste: «Zia, sei sicura che questa biancheria non sia frutto di qualche azione poco lecita?». E sua zia con una risata bonaria e una pacca sulla spalla le dice: «Ma se l’ho acquistata anch’io. Questa è la biancheria di “Francuccio” che non si sposa più, e avendo bisogno di soldi la vende, mica è rubata!».
La giovane rassicurata dalla zia inizia a scegliere qualcosa, qualche lenzuolo, una coperta, un asciugamano. La cosa che però continua a non esserle chiara è che il prezzo lo stabilisce suo cugino. Sempre più scettica paga quelle poche cose 1500 lire, una somma non esigua considerando il suo stipendio. Saluta e torna a casa. Lascia quelle quattro cose sul baule di fronte al letto e va a cena. L’indomani torna al lavoro di infermiera partendo prestissimo con la carrozza alla volta della città, visto che di mezzi a motore ne circolano pochissimi per via del razionamento del carburante (serve a più nobili cause).
Verso l’ora di pranzo arriva trafelato suo zio Ermanno anche lui in servizio presso lo stesso ospedale. «Sono passati i carabinieri sia a casa tua che a casa di tua zia, perché tuo cugino e i suoi due amici hanno parlato!»
Clotilde viene assalita da una vampata di calore che le brucia le labbra e il viso: «Perché, cosa hanno fatto?».
Zio Ermanno: «Tuo cugino e quegli altri disgraziati quella biancheria l’hanno rubata alla villa dell’avvocato, quello che vive a Roma, e sono stati arrestati benché minorenni».
Alla notizia Clotilde resta di sasso, e le torna in mente quella frase che ha esclamato di getto il giorno prima: «Mica l’avete rubata?».
Viene convocata in caserma per essere ascoltata.
A suo favore però c’è il rapporto dei carabinieri che sottol...