La strada
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La strada

  1. 257 pagine
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Informazioni sul libro

Dopo A Cesare e a Dio, Emanuele Severino prosegue la sua analisi della civiltà occidentale allargando in modo decisivo l'orizzonte. Nell'apparente contrapposizione tra ''Cesare'' e ''Dio'' si esprime solo una delle due anime che abitano il nostro petto, quella della follia estrema. L'altra anima nostra è la ''gioia'', intesa non come semplice stato psicologico ma come la gioia del tutto, che è insieme la ''verità'' del tutto, e che sta già da sempre al di là dell'anima dell'Occidente. L'uomo è il luogo della loro contesa, dove forse si prepara il tramonto della follia. Ma che cos'è la follia? Uno dei suoi tratti emergenti è la persuasione che le cose (e quindi l'uomo) nascono e muoiono. Potentemente al di fuori di ogni nichilismo, di ogni sfiducia e lamento sulla miseria della vita, Severino mostra in queste pagine che al di sotto della sua disperazione l'uomo è l'eternità della verità e della gioia. E che la gioia nascosta può diventare manifesta lungo una ''strada'' che differisce essenzialmente da tutto ciò che la nostra cultura ha inteso con questa parola.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2010
ISBN
9788858602614

Prefazione 2008

Il lettore stesso può constatare che, per il carattere dei temi trattati, La strada ha bisogno di “aggiornamenti” ancor meno di A Cesare e a Dio, recentemente ripubblicato nella Bur solo con qualche precisazione iniziale. Mi sembra, invece, che vi sia una maggiore possibilità di comprendere, oggi, la “Prefazione” del 1983 (peraltro contenente spunti che meriterebbero di essere sviluppati). Mi limiterò quindi a un solo chiarimento riguardante l’espressione “piano inclinato”, in essa ricorrente.
Vi si dice: “Il piano inclinato conduce dalla superficie verso il centro della terra”. Il “centro della terra” è una metafora che indica il senso autentico della verità – ossia indica il tema centrale a cui si riferiscono i miei scritti. “La superficie” indica l’Occidente; ma lo indica 1) quale si presenta, prima che si discenda lungo il piano inclinato, e 2) quale si presenta quando si intenda esser coerenti alla sua essenza. L’essenza dell’Occidente è l’alienazione della verità, l’essenza del nichilismo, la forma suprema della “follia”. Il “piano inclinato” conduce dalla follia (ossia dalla dimensione dove i diversi temi sono considerati con l’intento di guardare l’Occidente nella sua forma più coerente; e questo è in sostanza l’andamento di A Cesare e a Dio) alla non-follia – alla “Gioia” –, al cui senso autentico il presente libro si rivolge. Questa precisazione mi è sembrata opportuna perché negli altri miei scritti – ma dai contesti la cosa risulta chiara – l’espressione “piano inclinato” indica invece il punto 2) qui sopra prospettato, ossia il processo lungo il quale l’Occidente si rende coerente alla propria essenza: indica la “tendenza fondamentale del nostro tempo”.
A Cesare e a Dio e La strada tentano dunque di indicare il percorso che conduce alla non-follia – lungo un piano che è inclinato secondo il senso del punto 1) – partendo dalla dimensione costituita dal piano inclinato in cui consiste la “tendenza fondamentale del nostro tempo”.
Emanuele Severino

Prefazione

Questo volume è strettamente legato a quello già edito da Rizzoli col titolo A Cesare e a Dio. Ma ha anche una sua autonomia che gli consente di essere compreso indipendentemente da quello. È opportuno, comunque, tener presente la “Prefazione” di quel primo lavoro, che riporto qui di seguito con alcune variazioni di carattere formale.

Due volumi, questi, che non pretendono dal lettore competenze particolari, ma che nemmeno rinunciano a dirgli ciò che merita di essere chiamato “l’essenziale”.
Il lettore di queste pagine si trova su un piano inclinato. Può accorgersene o no (e non è detto che la colpa sia tutta sua). Nel primo caso, il movimento lungo il piano può essere più o meno veloce. Può anche arrestarsi e tutto finire lì.
Comunque il piano inclinato conduce dalla superficie verso il centro della terra. Il modo in cui queste pagine parlano può anche sviare, invece di indicare la via; ma ciò di cui esse parlano non è una questione tra le altre, ma è la questione di fondo, la questione che sta al fondo, al centro della terra, appunto.
E la questione centrale non è una torre d’avorio, ma contiene in sé tutte le questioni che stanno dinanzi agli occhi di ognuno e stabilisce il loro significato autentico. Scorrendo l’indice, il lettore trova nominate, in modo più o meno diretto, le questioni; attraverso la lettura del testo, la questione può forse balenare. Già nel primo di questi due volumi, ma ancor più nel secondo. Anche se già la parola “questione” – che deriva dal latino quaero, “cerco” – è la meno adatta per esprimere il centro che sta nel sottosuolo di ogni nostra questione. Noi non “cerchiamo” il centro. Lo siamo. Ma siamo anche persuasi di non esserlo e, ormai, che si debba smettere di cercarlo, perché non esiste alcun centro.
Certo, il centro di cui qui si parla non ha nulla a che vedere con la miriade di “centri” che sono andati via via comparendo lungo la storia degli uomini e che hanno preteso ogni volta di raccogliere attorno a sé il senso della “vita”.
Il primo di questi due libri – A Cesare e a Dio – sta dunque all’inizio del piano inclinato. E il secondo tenta di far luce nelle zone d’ombra rimaste. Ma chi abbia ad avvertire l’inclinazione del piano e voglia sondare la profondità delle ombre in cui ci si imbatte percorrendolo, è inevitabilmente rinviato a ciò che l’autore ha scritto indipendentemente dalla preoccupazione di farsi capire da un certo tipo di pubblico: soprattutto a La struttura originaria (1958; 2a ed. Adelphi, Milano 1981), a Studi di filosofia della prassi (1962; 2a ed. di prossima pubblicazione presso Adelphi), a Essenza del nichilismo (1972; 2a ed. Adelphi, Milano 1982), a Gli abitatori del tempo (Armando, Roma 1978; 2a ed. 1981), a Legge e caso (Adelphi, Milano 1979), a Téchne (Rusconi, Milano 1979), a Destino della necessità (Adelphi, Milano 1980).
Oggi è di moda un concetto non nuovo (già formulato da Bertrand Russell, ad esempio), che viene ripresentato in tante formulazioni diverse (si pensi tra gli altri a Karl Popper) che però non ne modificano la sostanza. Si intende cioè la filosofia come la terra di frontiera della scienza.
Là dove finisce il campo di applicazione dei metodi rigorosi della ricerca scientifica, e davanti si apre il mistero, il deserto delle domande che ancora non hanno avuto risposta, là incomincerebbe la filosofia. Dalla linea di frontiera della scienza partono verso l’ignoto avventurosi esploratori senza equipaggiamento adeguato, con molti entusiasmi e poche speranze di ritorno. (Qualcuno è anche uomo di scienza, che però, la scienza, non se la porta dietro.) A volte, di rado, qualcuno ritorna con qualche notizia utile per chi è rimasto. Sempre trovata per caso. Colpi di fortuna. Si organizza allora un corpo di spedizione che costruisce mappe e strade e riesce a strappare al deserto, come si suol dire, un altro lembo di terra. E la scienza “fa un passo avanti”.
Ma la maggior parte dei suoi passi avanti la scienza è convinta di farli anche e soprattutto durante l’assenza di quegli esploratori allo sbaraglio. Il resto è accessorio: quegli esploratori possono essere considerati indispensabili da parte di qualche amico della scienza in vena di generosità, ma più spesso sono guardati con compatimento; li si può decorare sul campo, quando la scienza vuol mostrare di essere di ampie vedute, ma il più delle volte si constata che quando ritornano hanno soltanto abiti sbrindellati e notizie confuse.
In questa situazione capita anche che qualche avventuriero indossi abiti sbrindellati, si sporchi il viso di fango, faccia qualche passo oltre la linea di frontiera, dia sfogo alla sua fantasia inventando banali avventure e torni indietro presentandosi come un “filosofo”. C’è sempre qualcuno disposto a credergli. Si trova così il modo (ma non è certamente il solo) di scrivere libri, e in particolare libri “facili” che chiunque può leggere con piacere perché si accorge che le cose raccontategli dall’avventuriero le sapeva già anche lui. E questo gli dà la possibilità di sentirsi anche lui un esploratore e un “filosofo”.
Ebbene, vorrei dire che questi due libri tentano sì di essere “facili”, ma in un senso del tutto diverso dalla “facilità” di cui si è detto qui sopra. E, questo, non perché l’autore si preoccupi di non passare per un avventuriero, ma perché quel concetto di “filosofia” come esplorazione allo sbaraglio, pur essendo uno dei miti dominanti del nostro tempo, è, appunto, un mito, al quale bisogna levare la maschera per vedere quello che ci sta sotto.
L’alternativa: “O scienza o avventura” (cioè esplorazione allo sbaraglio) è piuttosto recente. Si può dire che è del nostro secolo. Ci si è dimenticati della grandezza della filosofia; anche se – e questo è uno dei punti più difficili a comprendersi (ma su cui si sofferma il secondo di questi due libri) – è stata proprio quella “grandezza” a preparare il destino cui la filosofia è andata incontro. La filosofia ha “meritato” di finire con l’essere considerata esplorazione allo sbaraglio. Ma lo ha meritato per motivi del tutto diversi da quelli avanzati da chi, nella cultura scientifica, assegna decorazioni o guarda con commiserazione gli esploratori allo sbaraglio.
Già Hegel – ma in lui risuona la voce di tutto il pensiero filosofico – aveva tentato di mostrare che tra la razionalità del sapere scientifico e la fantasia gratuita dell’avventura irrazionale (con tutto il suo bagaglio dell’“utopia”, della “speranza”, dell’“immaginazione”, del “desiderio”, del “sentimento”, del “presentimento”, del “cuore”, dell’“intuizione”, della “profezia”, dell’“istinto”, della “fede”, della volontà di agire prima di pensare), già Hegel – dicevo – aveva mostrato che tra quei due campi, o sopra di essi, si stende una pianura – quella che Platone chiamava “pianura della verità” –, dove la filosofia ha la propria dimora. La pianura della vera ragione, della razionalità autentica.
Ma sia Platone, sia Hegel sono appunto protagonisti di quella “grandezza” della filosofia che ha “meritato” di essere travolta dalla comprensione e dominazione scientifica del mondo e di essere ridotta a quella miseria, un aspetto della quale è il concetto di “filosofia” come esplorazione allo sbaraglio.
I grandi pensatori dell’Occidente non sono esploratori che si avventurano nel deserto, muovendo dalle frontiere della scienza. Essi sono voci possenti nate nel deserto. Nel deserto della follia estrema: la grandezza della filosofia è la grandezza della follia estrema che si solleva altissima al di sopra degli errori mediocri degli uomini.
Non solo, ma il grande grido del pensiero filosofico non è rimasto una vox clamans in deserto, inascoltato, ma si è spinto lontano e, nel deserto, ha deposto i semi dell’oasi in cui consiste la civiltà occidentale e la sua storia dalle forme tradizionali dell’Occidente alla civiltà della tecnica. Il vento del grande grido, poi, si è spento. Non perché sia stato smorzato dagli abitatori dell’oasi (anche se questa è tuttora la loro illusione e presunzione), ma perché aveva in sé stesso le uova della morte.
Accade così che, ormai, gli abitatori dell’oasi organizzino accurate spedizioni nel deserto e, imbattendosi nel cadavere frantumato del grande grido, lo scambino per i resti di quegli esploratori che partendo dalle frontiere della scienza sono andati allo sbaraglio.
Questi corpi di spedizione sono ciò che viene chiamato “storia della filosofia”. Equipaggiate avanguardie della civiltà, essi credono di imbattersi nei resti degli sbandati, e non sanno di trovarsi soprattutto davanti ai frammenti del gigantesco cadavere del grido e ai frammenti dell’antenato di tutta l’oasi.
I resti vengono allora disposti in un cimitero comune, dove può anche accadere che qualche becchino faccia festa insieme agli sbandati e ai reduci, e questa festa venga chiamata “rinascita della filosofia”.
Una festa, però, come ogni festa, ha vita breve; e allora si torna alle occupazioni serie, alla “costruzione della civiltà”, al potenziamento della ricerca scientifica e dell’organizzazione scientifico-tecnologica del mondo – e la “filosofia” viene lasciata nei suoi cimiteri.
Questo esito non significa però che l’alternativa: “O scienza, o avventura” sia divenuta insuperabile. Significa solo che è fallito il tentativo sin qui condotto di uscire dall’alternativa.
In quella serie di miei libri sopra richiamata, si mostra il perché di questo fallimento e perché in quell’alternativa non è contenuta l’ultima parola.
Lo si mostra anche in questi due libri “facili”, che sono “facili” (se riescono a esserlo) non perché raccontano al lettore quanto già gli è familiare, ma perché tentano di diradare la nebbia, affinché il più difficile gli baleni dinanzi agli occhi.
Il più difficile, che balena, non è il prodotto teorico di un singolo (io, lui), o di un gruppo privilegiato che comunica agli altri il tesoro della conoscenza. Nel baleno appare ciò che noi già da sempre siamo e ciò che, nel sottosuolo della nostra coscienza, già da sempre sappiamo di essere: il “centro della terra” e cioè, per quanto strana possa sembrare l’espressione, la “gioia del tutto”.
Lo sguardo che vede il deserto – che cioè lo vede come deserto – non appartiene al deserto. Vede anche che l’oasi non si contrappone al deserto, ma che proprio essa, l’oasi, è il deserto che cresce, il frutto del seme che il grande grido della follia ha lasciato nella sabbia.
Lo sguardo della gioia sta già da sempre al di là del deserto e dell’oasi. L’anima della gioia sta già sempre al di là dell’anima dell’Occidente (che ormai è l’anima di tutta la terra). “Noi” siamo il “petto” in cui abitano entrambe, e in cui forse si prepara il tramonto della follia. Lungo una “strada” che guida il viandante con mano infinitamente più incorruttibile e pura delle “dande d’oro” con le quali il “dio Sole”, secondo Hölderlin (cfr. Dichtermut), sorregge la vita mortale dell’uomo.
Le “postille” ai singoli capitoli hanno una funzione molto differenziata. A volte si soffermano su alcuni aspetti particolari e marginali del capitolo corrispondente. Altre volte sottraggono al testo vero e proprio, riservandoli a sé, certi sviluppi che presentano una maggiore difficoltà.
Ma, a volte, proprio in questi sviluppi il discorso trova il suo baricentro. Come accade, ad esempio, nel primo di questi due volumi, nella prima parte delle postille al capitolo quinto e nella seconda parte delle postille al capitolo diciasset...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Biblioteca Universale Rizzoli
  3. Frontespizio
  4. La strada
  5. Indice