Il futuro della libertà
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Il futuro della libertà

  1. 196 pagine
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Il futuro della libertà

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I ventenni di oggi sono la prima generazione di italiani ed europei ad aver vissuto davvero in un'epoca di libertà. Sono infatti figli di un evento che ha cambiato la vita degli europei, a Est come a Ovest: la caduta del Muro di Berlino. Sono loro che, alleati in un nuovo patto generazionale con i loro padri e fratelli maggiori, hanno il compito di raccogliere le sfide da vincere perché la libertà possa essere un bene sempre più esteso e diffuso. Sfide che coincidono con i temi caldi del dibattito politico attuale: dalla questione sociale all'immigrazione e alla coesione nazionale; dalla crescita dell'Unione europea alla necessità di mettere di nuovo la persona al centro dei processi economici e politici.Per ognuno di questi temi Gianfranco Fini propone alle nuove generazioni idee, spunti di riflessione, iniziative attraverso le quali guardare avanti e impegnarsi a costruire un Paese migliore.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2010
ISBN
9788858600733

Il futuro della libertà

Introduzione all’edizione BUR

Un anno è passato dalla prima edizione de Il futuro della libertà. I ragazzi dell’89, a cui mi sono rivolto con questa lettera aperta, adesso compiono ventuno anni. Il che non può certo comportare un cambiamento di prospettiva. Le linee che ho indicato conservano intatta la loro forza, anche perché mi sono impegnato per dare al discorso – e, a giudicare dall’accoglienza ottenuta dal volume, penso di esserci riuscito – un respiro ampio e di lungo periodo, nel presupposto che sono proprio i giovani a proiettarsi per primi verso la conquista del futuro.
Comunque un anno è passato. E si tratta di un tempo che, a quell’età, quando si deve concretamente costruire la propria vita, può risultare assai prezioso. Personalmente mi auguro che il maggior numero possibile di ragazzi abbia potuto godere di nuove opportunità, abbia intrapreso una strada o abbia cominciato a guardare con più fiducia al proprio avvenire.
I numeri ci dicono, però, che la situazione generale per gli under trenta rimane difficile. I dati forniti dall’Istat alla fine di agosto 2010 riferiscono, ad esempio, che la disoccupazione giovanile in Italia è salita al venticinque per cento. Non esistono – è superfluo ribadirlo – né ricette né formule magiche. E non dobbiamo nemmeno dimenticare le apprensioni sulle sorti dell’euro che si sono manifestate nei mesi scorsi. Il declassamento dei titoli greci e lo spettro del default hanno costretto i governi continentali a ulteriori restrizioni nelle politiche di bilancio.
Ma l’emergenza finanziaria non deve essere considerata come l’orizzonte unico a cui guardare. Perché non esistono contingenze, per quanto sfavorevoli, che possano impedire a un Paese di continuare a perseguire gli obiettivi di fondo del suo sviluppo e di investire nel domani. La Germania ad esempio non ha intaccato, in questi difficili mesi, l’entità delle risorse destinate alle ricerca scientifica, pur varando una manovra ampia e rigorosa. E investire nella ricerca significa investire nei giovani. L’Italia invece continua, nonostante la diffusa retorica giovanilistica, a mortificare le speranze delle nuove generazioni. Uno dei grandi problemi italiani è proprio il fatto che i giovani si ritrovano nel novero dei soggetti sociali deboli. È una crisi politica, perché segnala il fatto che il nostro Paese, non credendo nei giovani, non crede in definitiva in se stesso. Non scommette, come potrebbe e dovrebbe, sul proprio futuro. Se ciò accade, vuol dire che c’è bisogno di risvegliare le energie della fiducia collettiva, perché l’Italia rimane un grande Paese dalle grandi possibilità.
Un grande Paese – e qui sta il punto – che però da diverso tempo ragiona come un piccolo Paese, impaurito, provinciale e senza vere strategie. Un Paese scivolato, negli anni, in un angusto minimalismo. Un Paese che si percepisce in declino anche quando fa sfoggio di ottimismo e leggerezza. Ecco, direi che il primo compito della politica sia proprio quello di ridestare la voglia di futuro dei cittadini.
Questo libro è nato, tra le sue motivazioni, anche per tentare di rispondere a questa esigenza. Mi sono rivolto in primo luogo ai ventenni, in occasione della storica ricorrenza della caduta del Muro di Berlino. Dalla loro ansia di libertà può venire una grande spinta per il nostro risveglio morale e civile.
Posso dire, dopo un anno, che tale messaggio è arrivato chiaramente all’opinione pubblica. Almeno a giudicare dai tanti giovani che mi hanno scritto e dal dibattito che si è sviluppato sui media. Colgo qui l’occasione per ringraziare tutti coloro che hanno accolto con interesse il mio libro, riservandogli note stimolanti e acute. Quando un volume arriva in libreria non appartiene più soltanto all’autore, ma anche e soprattutto al lettore, che lo arricchisce con le sue considerazioni e riflessioni.
Non sono naturalmente mancate critiche. Mi sarei stupito (e allarmato) del contrario. La critica è il sale del dibattito culturale, così come la dialettica (anche nella forma del dissenso) è il sale della democrazia. Senza critica e senza dissenso ci sarebbero solo conformismo e unanimismo. E, in tal caso, non ci troveremmo davvero a vivere nella migliore delle democrazie possibili. Ringrazio quindi i miei critici, che hanno svolto il loro compito con onestà intellettuale. C’è stato anche chi ha voluto fare mero folclore, ma è una circostanza da mettere sempre in conto in un Paese come il nostro, dove anche la leggerezza può diventare un canone retorico. Se i tromboni sono andati in pensione, sono da tempo comparse varie trombette da stadio. E non si può di certo dire che la cultura italiana ci abbia guadagnato. Le immancabili vuvuzelas non hanno comunque inficiato la serietà delle discussioni che si sono svolte. Vorrei sinceramente rispondere a tutti e a tutte le sollecitazioni che mi sono giunte, ma lo spazio non consente di approfondire gli interessanti argomenti proposti dai recensori.
Su una critica però desidero soffermarmi. Mi è stata garbatamente rivolta da Sergio Romano nel quadro di un articolo peraltro lusinghiero e approfondito. L’editorialista del «Corriere della Sera» rileva che «a questo libro manca una cosa: un breve riepilogo della carriera politica dell’autore». Romano si riferisce al tempo del Msi-Dn, in particolare agli anni in cui sono stato segretario giovanile, prima, e segretario nazionale, poi. E ritiene che se avessi «spiegato, con qualche esempio personale, quali e quanti possono essere i percorsi verso la democrazia», il mio libro «sarebbe stato ancora più attraente».
Rispondo rilevando innanzitutto che evitare il più possibile la personalizzazione è stata una scelta precisa. Inserire una parte autobiografica mi sembrava ridondante e poco in armonia con l’argomento. Aggiungo anche che Il futuro della libertà non è né un libro sul cammino storico-politico della destra italiana né un libro di storia tout court, anche se, naturalmente, della storia del Novecento si parla molto, in modo particolare nei primi due capitoli.
Però, visto che si tratta di un tema comunque interessante, non intendo lasciare, come si suol dire, a «bocca asciutta» né Romano né coloro che ne condividono la curiosità. Anche perché, come avrò modo di spiegare tra un po’, la forza dell’idealità giovanile – laddove è genuina e sincera – continua pur sempre a fornire una grande propulsione al processo di maturazione culturale e politica.
Dunque partiamo dal dato di fatto che i giovani di destra degli anni Settanta non erano certo dei liberali. Ma ciò non vuol dire che non amassero la libertà. Questo sentimento lo esprimevano in una forma analoga a quella dei loro coetanei di sinistra: la ribellione. Si ribellavano al sistema di potere. Si ribellavano soprattutto al conformismo, alla massificazione e al materialismo della società dei consumi. Erano ribelli, ma non erano rivoluzionari, nel senso che non inseguivano – anzi combattevano – l’utopia collettivista. E individuavano nell’Urss e nel comunismo il pericolo reale e incombente per la libertà di tutti. Di qui anche una differenza di non poco conto rispetto alle «mitologie» della sinistra. Se per noi gli eroi e i modelli giovanili erano Jan Palach, i ragazzi praghesi, polacchi e quelli berlinesi che tentavano la fuga all’Ovest, per i nostri coetanei di sinistra i miti erano invece Che Guevara, i Vietcong, i pacifisti americani.
Dov’era il problema o, se volete, la grande contraddizione? Era nell’ipoteca delle ideologie. Al pari dei nostri coetanei di sinistra, gravava ancora sulle nostre spalle l’eredità del Novecento. È un aspetto che nel libro è affrontato laddove osservo che la mia generazione, pur amando in modo smisurato la libertà, non ha dimostrato di possedere idee sufficientemente chiare sulle nozioni di libertà economica e di libertà politica. Si tratta di una considerazione che si può tranquillamente applicare sia ai giovani di sinistra sia ai giovani di destra di trent’anni fa.
L’amore per la libertà era un forte connotato generazionale, trasversale e «prepolitico». Era il prodotto dei giganteschi cambiamenti degli anni Sessanta, che avevano trasformato i giovani occidentali, per la prima volta nella storia, in un soggetto sociale e politico in crescita impetuosa, un soggetto che aveva elaborato una sua autonoma cultura, un suo linguaggio e che nutriva aspirazioni di vita molto diverse da quelle delle generazioni precedenti.
Il dramma specifico di noi giovani di destra era che ci sentivamo estranei all’Italia democratica e costituzionale senza avvederci che era la sola, vera casa che poteva accogliere la nostra voglia di libertà e il solo approdo naturale del nostro cammino politico e umano. C’è anche da dire che il sistema di allora non fece tutto ciò che avrebbe potuto e dovuto fare per aiutarci a risolvere quella contraddizione. La nostra ribellione era, sì, l’orgoglio di chi si escludeva, ma era anche la rabbia di chi era escluso.
Quella sorta di sospensione (non tanto dalla politica quanto dalla storia) non durò comunque a lungo. Perché la nostra formazione civile e politica non era che agli inizi. E sarebbe stata una maturazione lunga, sofferta, ma comunque solida e autentica. Solida e autentica, perché genuino era il nostro approccio alla politica. Ci avevano insegnato che la politica è prima di tutto spirito di servizio e dedizione a un ideale. E ci avevano anche insegnato che non si intraprende un sentiero politico per guadagnarci qualcosa.
In questo orientamento l’ideologia non c’entra, perché si tratta di un’educazione morale che accompagna (o che dovrebbe accompagnare) chi l’ha ricevuta per tutta la vita.
Comunque sia, quell’idea della politica come missione è l’elemento che, più in profondità, ha segnato l’identità dei giovani di destra degli anni Settanta anche nei decenni successivi, anche quando non erano più giovani, anche quando hanno cominciato a lavorare per costruire un’Italia diversa.
Perché, per evolvere nelle idee, per allargare gli orizzonti, e anche per riconoscere (ed emendare) i propri errori culturali, bisogna prima di tutto possedere la dimensione ideale della politica. In caso contrario, sarebbe solo trasformismo o utilitarismo spicciolo. Solo chi ha ideali ha anche la voglia e la capacità di cambiare opinione. Chi invece non ha ideali, oppure li ha dimenticati, non possiede la forza di evolvere. La politica, in questi casi, rischia di diventare un guscio vuoto.
Ed è su questo piano, il piano della dimensione etica, che si misura in definitiva l’autenticità di una maturazione. Perché la politica come servizio richiede impegno. E bisogna sempre essere pronti, se occorre, a scelte coraggiose. Un conto è la saggezza della Realpolitik, che deve essere sempre finalizzata alla realizzazione di un grande progetto. Un altro è la politica della convenienza, che non ha progetti da perseguire ma solo vantaggi da difendere o acquisire. Ritengo che sia questo uno dei principali criteri per verificare se gli ex giovani di destra degli anni Settanta, oggi almeno cinquantenni, sono stati coerenti con il loro percorso politico e morale.
Ma, ripeto, questo non è un libro sulla destra. Anzi, di destra e di sinistra si parla pochissimo. Ritengo infatti che abbia senso parlarne ai ventenni di oggi solo se non risultano due gusci vuoti o, peggio ancora, due richiami «paratribali», ma che siano invece proposte come due categorie della politica capaci di evoluzione e rinnovamento. E ciò nella consapevolezza che le necessarie differenze tra le forze che, rispettivamente, si richiamano alla destra e alla sinistra devono emergere con chiarezza, anche attraverso il confronto aspro, ma sempre nel riconoscimento dei comuni valori della civiltà liberale e democratica, gli stessi che si sono definitivamente affermati in Europa nel periodo che ha preceduto e immediatamente seguito la caduta del Muro di Berlino.
Dunque credo sia questo uno degli insegnamenti politici più alti e fecondi che la mia generazione, nata quando le ideologie erano ancora in piedi, può trasmettere a quella nata nel segno della libertà e della caduta di tante barriere.
Naturalmente, la libertà dall’oppressione deve potersi esprimere, per i giovani di oggi, nella libertà di costruire la propria vita sulla base delle proprie capacità, dei propri valori e delle proprie aspirazioni. E in questo senso, tornando alle ragioni generali del libro, debbo dire che il discorso in esso svolto rimane quanto mai attuale. Chi lo ha già letto un anno fa e lo volesse rileggere oggi, difficilmente troverebbe una parte datata o superata. Se ciò da un lato può farmi piacere, dall’altro mi rattrista. Perché significa che per i problemi che ho sollevato non sono state ancora trovate delle soluzioni. Volendola dire in modo un po’ più crudo e diretto, potrei affermare che l’Italia in questo anno, almeno per quanto riguarda quelle riforme strutturali che tutti dicono di volere, è rimasta sostanzialmente ferma. È rimasta soprattutto ferma – e per certi aspetti ha subito anche un arretramento – sul piano dello spirito pubblico e della civiltà politica. Nel senso che è aumentato il tasso di intolleranza e di faziosità, mentre si sono addirittura rivisti i tristi rituali delle «scomuniche» dell’età ideologica. E in ciò rimando alla cronaca politica di questi ultimi mesi.
Ma la dedizione al bene comune, le speranze dei giovani e di tutti coloro che desiderano vivere in un Paese più giusto, più libero, più moderno e nel quale l’etica pubblica sia realmente rispettata impongono di guardare avanti.
Un grande appuntamento bussa in tal senso alle porte. È il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Mi piace pensare che possa essere un’occasione non semplicemente celebrativa, ma – sia detto senza alcuna enfasi retorica – rifondativa. Se prevarranno, nella politica, il senso di responsabilità e lo spirito di innovazione, il 2011 potrà essere l’anno della «ripartenza italiana», non soltanto economica – come è auspicio di tutti – ma civile, sociale e morale.
In que...

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  1. Cover
  2. Collana
  3. Frontespizio
  4. Copyright
  5. Il futuro della libertà
  6. Indice