La fragile concordia
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La fragile concordia

Stato e cattolici in centocinquant'anni di storia italiana

  1. 214 pagine
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La fragile concordia

Stato e cattolici in centocinquant'anni di storia italiana

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Il Risorgimento ha visto, con la nascita dello Stato italiano, l'abbandono forzato del potere temporale da parte del papato: il Vaticano, di fatto parte di Roma e dell'Italia, è diventato un fazzoletto di terra indipendente. Questa svolta ha segnato il ruolo peculiare dei cattolici nella nostra storia politica, inaugurando un rapporto controverso, discusso e spesso travagliato. Un legame che dura ancora oggi, e i cui delicati equilibri hanno dato adito a interpretazioni fortemente divergenti. Tornielli, in un saggio affascinante e scrupoloso, propone finalmente la ricostruzione equilibrata e obiettiva della lunga convivenza: il ruolo di Pio IX durante il Risorgimento, la nascita del Partito Popolare, il rapporto tra Chiesa e fascismo, gli anni della Dc, fino al ruolo dei cattolici nel panorama odierno. Un profilo libero da estremismi che, riconoscendo le luci e le ombre di questa difficile relazione, ci aiuta a comprendere il nostro passato e immaginare il nostro futuro.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2011
ISBN
9788858615676
Categoria
Religion
LA FRAGILE CONCORDIA
Introduzione
Il segnale doveva essere forte, ma forse non è stato percepito in tutta la sua portata. Il 20 settembre 2010, vale a dire centoquarant’anni dopo la breccia di Porta Pia, che segnò la fine del potere temporale della Chiesa, alla tradizionale celebrazione nel luogo in cui i bersaglieri piemontesi entrarono nella città del papa destinata a diventare la capitale d’Italia, a commemorare l’evento, a fianco del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, c’era il segretario di Stato vaticano, il cardinale Tarcisio Bertone. Non era mai accaduto, in quasi un secolo e mezzo, che il capo della diplomazia vaticana, nonché principale collaboratore del pontefice, prendesse parte a tale cerimonia, solitamente rivendicata da gruppi e gruppuscoli caratterizzati da residui dell’anticlericalismo ottocentesco come la grande sconfitta del papato e della Chiesa romana. Nel 1970, in occasione del centenario, Paolo VI – che da cardinale, otto anni prima, alla vigilia dell’inaugurazione del Concilio Vaticano II aveva definito provvidenziale la caduta del potere temporale – decise di mandare alla cerimonia il suo vicario per Roma, il cardinale Angelo Dell’Acqua. Ma il vicario è un vescovo italiano, che fa il vice del pontefice nella diocesi romana. Una presenza significativa e importante, tuttavia non paragonabile a quella del segretario di Stato.
Il cardinale Bertone è intervenuto a Porta Pia ricordando la famosa «benedizione all’Italia» di papa Pio IX, il pontefice regnante al momento della breccia, che concluse i suoi giorni considerandosi «prigioniero in Vaticano», in un palazzo, quello apostolico, del quale all’epoca aveva l’usufrutto ma non la proprietà. Non è un caso che la presenza del segretario di Stato abbia suscitato le reazioni indignate, e in qualche caso scomposte, di esponenti radicali, di dignitari massonici, di anticlericali in servizio permanente effettivo. Come pure, anche se più sommessamente, ha suscitato l’amaro commento di quei settori minoritari del cattolicesimo, per lo più tradizionalista, che avvertono la «ferita» del 1870 come ancora aperta e viva. Come un problema ancora oggi, in fondo, insuperato.
Come leggere, dunque, questi centocinquant’anni di storia unitaria e il contributo dei cattolici, oggi che il presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco, dichiara che «l’unità d’Italia è un bene comune, un tesoro che è nel cuore di tutti»? Non certo con gli occhiali delle nostalgie borboniche o temporaliste: nonostante lo Stato pontificio non fosse affatto la sentina di tutti i mali e sia stato additato come esempio di malgoverno sulla base di ricostruzioni parziali e interessate, spesso poco attente alla realtà dei fatti e soprattutto reticenti nel descrivere le reali condizioni di vita delle popolazioni negli altri Stati contemporanei, non si può non essere d’accordo con lo stesso Pio IX che, pur ritenendo di non potersene disfare, considerava il potere temporale «una gran seccatura». Probabilmente nessuno tra i più accesi critici del processo risorgimentale rimpiange uno Stato governato da ecclesiastici.
E bisogna riconoscere che lo stesso Risorgimento, pur avendo innegabili accenti anticattolici, vide la partecipazione di preti e frati, come pure vescovi illustri che sostennero la posizione conciliatrice, contestando l’atteggiamento adottato dalla Santa Sede. Vi fu, dunque, una dialettica interna alla Chiesa e all’intellighenzia cattolica di fronte al Risorgimento. «Essere preoccupati per la libertà della Chiesa» ha detto Dino Boffo al Forum del Progetto Culturale dedicato all’unità d’Italia «non significava essere automaticamente anti-italiani, anzi. Con ciò, va da sé, non intendo mettere minimamente in dubbio la lacerazione degli animi connessa a quegli eventi; vorrei solo invocare un passo più cauto rispetto a una lettura massiva che in genere ci si concede, quasi che l’emisfero cattolico, comprensivo di quello ecclesiastico, non avessero in quella stagione striature anche diverse.»
Come pure bisogna riconoscere che parte della storiografia moderna, soprattutto quella di matrice laicista, ha dimenticato o minimizzato il fatto che il movimento per l’unità d’Italia, come laboratorio d’idee, è cresciuto all’interno del pensiero politico cattolico e ha ricevuto da quel pensiero politico il suo primo programma d’azione, come ha fatto recentemente notare lo storico gesuita padre Giovanni Sale. Nel processo unitario, insomma, il cattolicesimo non è semplicemente relegabile tra gli oppositori, tutt’altro.
Non si può infatti dimenticare che accanto a Giuseppe Mazzini, e prima ancora di Camillo Cavour, ci sono stati i sacerdoti Antonio Rosmini e Vincenzo Gioberti, che pensarono a un nuovo assetto politico e sociale della Penisola in termini «italiani» e che videro, spiega padre Sale, «nel confluire di culture e tradizioni locali diverse, amalgamate dallo stesso cemento della fede cattolica, le condizioni per la nascita di uno Stato confederale, sul tipo della Svizzera o degli Stati Uniti d’America, sottoposto alla medesima direzione politica ed economica».
Il prete piemontese Gioberti fu uno dei primi a pensare la «nazione» italiana, definendola «una di lingua, di lettere, di religione, di genio nazionale, di pensiero scientifico, di costume cittadino, di accordo pubblico e privato tra i vari Stati che la compongono». Riconoscendo così l’identità comune che univa le popolazioni della Penisola già da secoli. L’unità, secondo Gioberti, sarebbe stata possibile solo attraverso un’alleanza stabile e duratura dei vari Stati presenti in Italia, con il papa come «presidente naturale e perpetuo». In questo modo si sarebbe restituito al nostro Paese quel «primato morale e civile» che in passato aveva espresso su tutto l’Occidente cristiano. Un primato, ha osservato lo storico Giorgio Rumi, che per lo stesso abate Gioberti era soprattutto culturale e spirituale, prima ancora che politico. Un’identità, insomma, da riconoscere come già esistente, che vedeva come sostanziale – oltre che innegabile – il contributo della fede cattolica e della presenza della Chiesa.
Non ci si deve certo nascondere che queste teorie, questi progetti poi dispregiativamente chiamati «neoguelfi», avevano molti limiti. Avevano però anche il merito di immaginare l’unificazione del Paese non solo come costruzione politico-istituzionale, come realizzazione «tecnica» da parte di élite illuminate, ma anche, e soprattutto, culturale e sociale. Si trattava di visioni che cercavano di accordare la vocazione particolaristica dell’Italia dei comuni, considerando proprio il patrimonio di fede e cultura del cattolicesimo come elemento unificante.
E oggi, nell’epoca in cui si discute di federalismo, ci appaiono quasi profetici gli sforzi di Antonio Rosmini per far convivere tutte le realtà presenti nell’Italia di allora all’interno di una cornice statuale unitaria e federale. Proprio nell’ottica di «unità nella diversità», Rosmini, che intendeva salvaguardare i principi, la religione e il popolo di quell’Italia pre-unitaria, parafrasando Alexis de Tocqueville, avrebbe scritto: «L’unità nella varietà è la definizione della bellezza. Ora la bellezza è per l’Italia. Unità la più stretta possibile in una sua naturale varietà: tale sembra dover essere la formula della organizzazione italiana».
Il cardinale Giacomo Biffi, nel saggio Risorgimento, Stato laico e identità nazionale del 1999, ha proposto una lettura cattolica del fenomeno risorgimentale a partire dal concetto di identità culturale nazionale, desacralizzando alcuni miti «laici» della storiografia liberale. E ha sottolineato proprio il fattore culturale, individuato nella fede e nella tradizione cattolica, come principale elemento di coesione e unità nazionale, segnalando invece come «limite più grave del nostro Risorgimento» l’aver sottovalutato il radicamento nell’animo italiano «della fede cattolica e la sua quasi consustanzialità con l’identità nazionale». «Il Risorgimento» scriveva Biffi «non può ricevere, entro la lunga storia d’Italia, una valutazione negativa. Noi anzi […] ameremmo qualificarlo come “provvidenziale”.» Ciò che il cardinale ha criticato era «l’integralismo storico» di quella parte della storiografia italiana che vedeva nel Risorgimento una «rinascita totalizzante», un «passaggio dalle tenebre alla luce», come se prima del 1860 tutto fosse stato squallore e degenerazione, mentre dopo quella data tutto avesse ripreso a fiorire.
Aprendo le celebrazioni per il centocinquantenario dell’unità d’Italia, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha sottolineato la necessità di ricordare la nascita dell’Italia «senza indulgere ad una visione acritica del Risorgimento, a una rappresentazione idilliaca», ma sollecitando come «giusto» un approccio «non sterilmente recriminatorio e sostanzialmente distruttivo, un approccio che ponga in piena luce il decisivo avanzamento storico consentito all’Italia dalla nascita dello Stato nazionale».
Già, pur ritenendo inammissibile la mancanza di prospettiva storica, che fa guardare a taluni al Risorgimento come se non fosse passato un secolo e mezzo, bisognerebbe fare lo sforzo – e questo francamente non appare in agenda – di evitare una «visione acritica» e una «rappresentazione idilliaca» del processo risorgimentale, leggendo la storia con gli occhiali rosa e dividendo il mondo in buoni e cattivi. Certi miti, anche storiografici, meritano di essere rivisti, non per demolire la «sacralità» del ricordo dei padri fondatori, ma per relativizzarlo o almeno per cercare di comprendere le ragioni di un atteggiamento, quello di papa Pio IX, ingiustamente presentato come «anti-italiano», a partire dal momento in cui decise – e fu decisione rivelatasi profetica – di non partecipare alla guerra contro l’Austria, comportandosi così come il pastore e il padre comune e non come un capo di Stato.
Non si può fare finta di ignorare che l’obiettivo dichiarato di molti autorevoli protagonisti del nostro Risorgimento non era soltanto il crollo del potere temporale, ma era la fine del papato stesso, perché si credeva che il pontificato romano, senza più il puntello di uno Stato, avrebbe finito per scomparire favorendo la protestantizzazione dell’Italia, non a caso ancora oggi presentata da qualcuno come il vero elemento che avrebbe permesso la reale modernizzazione del Paese.
Pio IX, che aveva ben presenti i suoi interlocutori, le loro idee, le politiche che avevano già attuato, aveva più di una buona ragione per preoccuparsi dell’affermazione e della diffusione di un modo di vita pubblica, politica e sociale che non soltanto non attingeva più ai principi del cattolicesimo largamente diffusi e condivisi dal popolo, ma lo combatteva apertamente.
Arturo Carlo Jemolo ha scritto di Pio IX: «Chi avrebbe potuto dargli torto, allorché, ricordando tutta la politica di Torino, e pur gli atti più recenti, affermava che la sua coscienza di papa non gli permetteva di porre spontaneamente propri sudditi sotto la sovranità di Vittorio Emanuele? La preoccupazione religiosa – come ben videro i contemporanei del papa… – fu sempre dominante sopra ogni preoccupazione politica».
Come pure non si può dimenticare che la classe politica liberale, in buona parte alimentata dal separatismo ostile alla Chiesa di matrice francese e dall’idea di una religione relegata nel privato – o comunque iscritta nel ruolo che lo Stato ha deciso per lei, perché è questo il senso del «libera Chiesa in libero Stato» di cavouriana memoria – in quanto fenomeno destinato a scomparire, non avvertiva quanto avrebbe dovuto il problema di recuperare il rapporto con il cattolicesimo in quanto realtà sociale diffusa. «Si tratta, con tutta evidenza» ha scritto Stefano Ceccanti «di una frattura che contribuisce a indebolire il radicamento delle istituzioni unitarie e a rendere più difficile per la Chiesa l’elaborazione di un sistema raffinato di criteri per distinguere gli elementi ideologici inaccettabili dalla positiva e liberante separazione istituzionale con lo Stato, le forzature politiche dalle nuove opportunità aperte dalla progressiva espansione del suffragio.»
Sarebbe auspicabile che le celebrazioni dell’unità tenessero conto del fatto che l’Italia non nasce nella seconda metà dell’Ottocento e soprattutto che si valorizzassero, o perlomeno si cercassero di comprendere, le ragioni dei cattolici costretti a scegliere tra la lealtà al nuovo Stato e quella alla Chiesa. Il Risorgimento, così come si è realizzato, «portò a forti lacerazioni nel paese “reale”, che pesarono molto» ha scritto padre Sale «sulla formazione di uno Stato nazionale realmente unitario, e che furono definitivamente sanate soltanto quando i cattolici – dopo la lunga e travagliata vicenda del Non expedit – rientrano a pieno titolo nella vita politica nazionale».
In un momento di sbandamento e di crisi, forse varrebbe la pena di approfondire maggiormente gli elementi fondanti del vivere nel Belpaese, e riconoscere che ben prima e ben di più del tricolore (che pure, a partire dalla Grande Guerra, venne unanimemente assunto come vessillo comune, bagnato dal sangue dei soldati del Nord e del Sud), l’identità italiana si è formata grazie alle sue radici cristiane. Grazie a quel patrimonio di cultura e di arte fiorito nell’humus cristiano.
Claudio Scarpati, intervenendo al Forum del Progetto Culturale sull’unità d’Italia, ha ricordato nel suo contributo che un suo collega professore universitario è solito iniziare «il suo corso di letteratura italiana chiedendo agli studenti di estrarre dalle tasche una moneta da un euro e una da due euro: noi non abbiamo sulle monete volti di regnanti o marianne o aquile imperiali, ma l’uomo vitruviano di Leonardo e un ritratto di Dante. Un artista scienziato e un poeta. È un modo efficace per ricordare agli studenti che quando vogliamo identificare noi stessi dobbiamo ricorrere a una tradizione culturale, letteraria e artistica».
E ancora, forse non sarà inutile, durante le celebrazioni unitarie, ricordare anche i meriti di quel partito unico dei cattolici – oggi quasi vituperato perché identificato come modello del consociativismo – che ha caratterizzato quasi cinquant’anni di storia repubblicana del dopoguerra. Soffermandosi almeno su uno di questi, ricordato di recente da Gianpaolo Romanato nel saggio Dopo 150 anni, i cattolici per l’Italia unita, edito da Vita e Pensiero: «Quello di aver reso la democrazia costume diffuso, pratica accettata e condivisa, di aver superato quella cultura politica delle separazioni e delle contrapposizioni – di classe, di ceto, di interessi, di ideologie – che aveva segnato la storia nazionale tanto nel periodo liberale quanto nel tragico quadriennio prefascista, quanto poi nel ventennio del fascismo.
«Per più di ottant’anni» scrive ancora Romanato «c’erano state due Italie che si erano contrapposte, quella del potere e quella dell’antipotere, democratico, mazziniano, garibaldino, cattolico, socialista, fascista o antifascista che fosse. Il sogno di un’Italia diversa ha alimentato la fantasia di generazioni di italiani. Con i giudizi dei delusi e degli sconfitti – giudizi critici, sprezzanti, frustrati, dolenti, arrabbiati, rassegnati – si potrebbe riempire un’antologia».
La frattura tra le «due Italie» non ci deve dunque stupire. E non deve stupire, in fondo, che essa possa riaffiorare ancora oggi. Ma bisogna anche riconoscere che la lunga stagione dei governi a guida democristiana del dopoguerra, pur con tutti i suoi difetti, ha di fatto sanato quella frattura, contribuendo a rendere più unito, compatto e omogeneo un Paese che fino a quel momento era stato caratterizzato da contrapposizioni, divisioni e discordie invece che da motivi di unione.
Questo libro, che propone un itinerario che analizza la presenza e il contributo dei cattolici lungo i centocinquant’anni della storia unitaria italiana, non ha alcuna pretesa di esaustività e completezza. Pur cercando di ripercorrere per sommi capi tutto l’arco temporale preso in considerazione, procede schematicamente approfondendo alcuni momenti e accennando soltanto ad altri. È dedicato ai miei tre figli, perché siano coscienti del contributo che l’esperienza generata dalla fede cattolica, nella quale sono stati battezzati, ha dato per lo sviluppo e la crescita del nostro Paese.
1
Pio IX e l’unità d’Italia
La Chiesa cattolica ha proclamato beato Pio IX pur specificando, come ha fatto Giovanni Paolo II nel corso della cerimonia, nel settembre 2000, che «beatificando un suo figlio la Chiesa non celebra particolari opzioni storiche da lui compiute, ma piuttosto lo addita all’imitazione e alla venerazione per le sue virtù, a lode della grazia divina che in esse risplende». Come dire che, concedendo l’onore degli altari per papa Mastai, non si intendeva chiudere il dibattito sul Risorgimento o sposare tesi revisioniste. La beatificazione ha acceso i riflettori su uno dei pontefici più controversi della storia della Chiesa, ricordato purtroppo, fino a quel momento, soltanto per la sua difesa del potere temporale – difesa che peraltro, accettando l’elezione nel 1846, egli aveva solennemente giurato di condurre – e per la sua opposizione all’unità d’Italia così come si era andata configurando sotto l’egida del regno piemontese. Grazie alla sua elevazione agli altari, si è finalmente cominciato a comprendere come la figura di Pio IX sia stata davvero decisiva e quanti frutti il suo pontificato, religioso e non politico, abbia portato: basterebbe pensare allo straordinario sostegno alle missioni, al numero impressionante di nuovi ordini religiosi approvati, ai dogmi proclamati, alla profetica denuncia delle ideologie totalitarie che avrebbero tristemente e drammaticamente segnato il secolo successivo. Ma anche all’impulso dato al buon governo dello Stato pontificio, al suo ammodernamento…
La biografia di Pio IX, papa ricordato sempre e soltanto per le sue posizioni antirisorgimentali, merita dunque di essere approfondita. In questa sede, però, ci dovremo limitare al suo rapporto con la storia d’Italia e del processo unitario che compie centocinquant’anni. Anche e soprattutto a questo proposito vorremmo cercare di sottrarre la figura del pontefice dalla logica degli opposti estremismi. Com’è noto, papa Mastai venne inizialmente dipinto come un liberale, strumentalizzando, in alcuni casi volutamente, alcuni gesti dettati da magnanimità, e trasformandoli in direttive politiche. Il mito del papa liberale e antiaustriaco servì per gettare benzina sul fuoco dei moti insurrezionali culminati nei fatti del 1848. Poi, dopo il ritorno del papa re dall’esilio di Gaeta, ecco che Pio IX va assumendo sempre di più il ruolo dell’«anti-italiano» e lo Stato da lui guidato, nonostante la storia ci dica che non vi si vivesse affatto peggio che in altri Paesi, viene dipinto come la sentina di tutti i mali, il baluardo di un potere oscuro e tentacolare da abbattere. Unico vero ostacolo alla realizzazione di quell’unità così tanto agognata e per la quale si erano battuti molti rivoluzionari. Pio IX è stato in realtà vittima di una doppia caricatura, sia quando veniva dipinto come un liberale quasi mazziniano, sia quando ha ritenuto di dover resistere nel conservare lo Stato pontificio di fronte a un regno, quello piemontese, i cui leader promettevano «libera Chiesa in libero Stato», dichiarando dunque lo Stato come fonte unica e unica cornice entro cui si doveva esercitare la libertà della Chiesa, ma nel contempo incameravano i beni dei conventi e le proprietà ecclesiastiche, lasciavano per anni le diocesi senza vescovi ingerendosi nel processo di nomina, volevano esercitare un controllo diretto sulla Chiesa. E in molti casi ritenevano che la caduta del potere temporale avrebbe coinciso con il crollo del papato stesso e con la necessaria protestantizzazione della nazione italiana, fenomeno che ne avrebbe favorito la modernità. Non bisogna mai dimenticare, a nostro avviso, nell’analizzare le decisioni di Pio IX, quali fossero i suoi interlocutori «laici» e soprattutto quali fossero le loro idee.
Il lungo pontificato di Gregorio XVI si conclude il 1° giugno 1846. Papa Mauro Cappellari e il suo segretario di Stato Luigi Lambruschini erano considerati la quintessenza dell’oscurantismo e per questo la fine del regno del pontefice bellunese era stata salutata – osserva lo storico gesuita padre Giovanni Sale nel libro L’unità d’Italia e la Santa Sede – «come una liberazione».
Al conclave che inizia il 14 giugno, nel palazzo del Quirinale, si scontrano due tendenze: quella degli intransigenti, appoggiati dall’Austria, che vorrebbero vedere eletto lo stesso cardinale Lambruschini, nel segno della più totale continuità, e quella di coloro che venivano definiti in modo dispregiativo «politicanti», che propongono la candidatura del giovane vescovo di Imola, il cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti, originario di Senigallia, e già arcivescovo di Spoleto. Mastai era considerato di idee aperte e moderate. Non è verificata la notizia, attribuibile al figlio del conte Pasolini di Imola, secondo la quale il cardinale avrebbe portato con sé a Roma per il conclave libri quali Del primato morale e civile degli italiani del Gioberti, Le speranze d’Italia e Ultimi casi di Romagna di Massimo d’Azeglio, per donarli all’eletto. La circostanza appare piuttosto frutto della successiva mitologia sul «papa liberale». Ciò che conta ed è comunque accertato è che l’arcivescovo Mastai possedeva questi volumi, anche se aveva espresso riserve nei confronti di Gioberti, il quale vagheggiava in Italia una confederazione di Stati sotto la guida di un papato riformato. Mastai non aveva dunque mai realmente abbracciato il programma cosiddetto «neoguelfo». Come ha fatto notare nel suo Il pontificato di Pio IX lo storico Roger Aubert: «Il suo preteso ...

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  1. Cover
  2. BUR
  3. Frontespizio
  4. La fragile concordia
  5. Bibliografia