La mia eredità sono io
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La mia eredità sono io

  1. 637 pagine
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La mia eredità sono io

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"So di avere scritto sull'acqua. Ma ciò non mi ha impedito di continuare a scrivere, impegnandomi tutto in quello che scrivo. E se lei trova o cerca qualcosa da invidiarmi, è solo questo che può trovare: la gioia di scrivere sempre le cose in cui, nel momento in cui le scrivo, credo", così rispondeva Indro Montanelli a un suo lettore, in una delle ultime Stanze. Raccolti in questa antologia reportage, corsivi inconfondibili, ritratti e storie di un secolo, il Novecento, che Montanelli ha attraversato quasi per intero. Tappa per tappa, il lungo racconto di una vita intensa e appassionata, quasi un'autobiografia involontaria. Il "diario in pubblico" di un narratore insuperabile.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2010
ISBN
9788858601303

1
Mi chiamo Indro










«… Ho un racconto in testa che non riesco a scrivere, è un sogno che via via che invecchio mi ritorna sempre più frequentemente. Ci sono io, salgo a piedi la collina che conduce alla villa, in mezzo al bosco… Da bambino il bosco, tra i due paduli di Fucecchio e di Bientina, era il mio regno. Arrivo fino al cancello della villa, ormai è un giardino dei ciliegi. Entro, suono il campanello e mi viene ad aprire il me stesso che è rimasto lì. Tale e quale a me, solo più vecchio. Mi dice: “Cosa vuoi?”. E io dico: “Vorrei entrare”. Dice che non ne ho il diritto. “Tu te ne sei andato, hai avuto una bella vita, successi, avventure, donne. Qui sono rimasto io. Vedi le mie rughe? Sono le stesse della villa. Guarda, le tegole cadono, ci sono le crepe nei muri. Sono rimasto solo, non ho mezzi, ma io difendo questo giardino dei ciliegi. Questo è il mio mondo, tu non ci puoi entrare, non appartieni più a questo mondo.”»
da un’intervista a «La Stampa», 1995

Indro

Mi chiamo Indro.
Le ragioni per cui, al fonte battesimale, mi fu impartito questo nome, sono assai complesse e hanno un contenuto politico e sociale. Voglio raccontarvele perché da esse potrete ricavare molti lumi circa la mia origine e l’ambiente in cui sono nato e cresciuto.
Dovete sapere che Fucecchio, mia patria, è un paese di Valdarno, sito a mezza strada fra Pisa e Firenze. È un paese abbastanza antico, sviluppatosi intorno al nocciolo feudale di un castello fiorentino, come sono molti paesi di quella contrada. Il castello, ora, non esiste quasi più: sono rimaste solo una torre piena di gufi e di civette e alcune mura diroccate. Tutto ciò sta in cima a una collina aguzza e a corona di questa cima è la parte antica del paese con le sue antiche famiglie di signori e di servi. C’è la Chiesa della Collegiata, molto grande e anche abbastanza bella, e ci sono alcuni palazzotti, il più famoso dei quali apparteneva appunto alla casata di mia madre, i Dòddoli.
Con l’andar del tempo, il paese si mise a scendere in basso, verso la piana, l’Arno e le strade. Qui si adagiò e prese a ingrossare soprattutto come mercato agricolo. Poiché è buona regola di ogni borgata toscana di dividersi sempre in due fazioni, Fucecchio si divise in «insuesi» e «ingiuesi». Gl’insuesi erano quelli che stavano per in su, cioè nella parte antica, intorno al castello e alla Chiesa della Collegiata; ingiuesi quelli che stavano per in giù, cioè lungo le strade provinciali che menano a Firenze, a Pisa e a Lucca. Al principio di questo secolo gl’insuesi erano già in minoranza rispetto agl’ingiuesi, ma si tenevano ancora forti col prestigio della tradizione aristocratica: infatti il fior fiore del paese era tutto per in su, costituito da proprietari di campagna, i cui cadetti facevano i professionisti. Gl’ingiuesi, dal canto loro, più numerosi e attivi, aspiravano tutti a diventare insuesi, ma non potendolo per via dello spazio limitato, facevano gran baccano per obbligare gli insuesi a venire in giù. Ci furono anche dei casi d’ingiuesi che, fatta fortuna, andarono a stare per in su soppiantando nei loro palazzetti gl’insuesi che si erano mangiato il feudo. Ma, fino alla grande guerra, questi cambi della guardia nelle gerarchie economiche e sociali del paese erano fortunatamente abbastanza rari, eppoi gl’insuesi di Fucecchio non erano per nulla disposti a considerar pari loro gl’ingiuesi arricchiti solo perché avevano comprato una casa per in su. Eh, ci voleva altro! Ci volevano almeno un paio di generazioni e qualche matrimonio ben combinato. Questo dava e dà ancora luogo a molte discussioni. Ma, essendo io un mezzo sangue – insuese di madre e ingiuese di padre – mi sembra di essere in buona posizione per giudicare: e giudico senz’altro molto opportuna questa politica di casta e di resistenza degl’insuesi che, finché furono abbastanza forti per reggere e dirigere la cosa pubblica, lo fecero con poche idee e molta coscienza. Mentre gl’ingiuesi li abbiamo visti, poi, cos’hanno fatto, quando vennero al potere, con tutte le loro idee nuove!
Negli anni che precedettero la mia nascita, la quale avvenne nel 1909, gli odi di fazione fra insuesi e ingiuesi erano al colmo. Gl’ingiuesi avevano ora le scuole elementari e tecniche, avevano il teatro, i negozi migliori, quasi per intero il luogo del mercato (solo una piccola frazione si svolgeva per in su, in piazza della Collegiata) e due delle tre farmacie. Per in su non erano rimasti che la Chiesa e i ruderi del Castello, e a lasciarli fare, gli ingiuesi avrebbero, come diceva mio nonno, fatto franare il poggio per portar giù anche quelli. Quanto al Municipio, resisteva ancora alla meglio, visto che i sindaci erano sempre di razza insuese, ma di concessione in concessione era sceso sempre più in giù e ora si teneva aggrappato appena alle ultime pendici.
La guerra intestina che provocava questa evoluzione verso il basso scoppiava ogni anno, d’estate, come un bubbone, in una specie di palio paesano, che si chiamava la «battaglia degl’insuesi e degl’ingiuesi» e aveva per teatro la scalinata di mattoni (143 gradini, se non sbaglio) per cui, a settentrione, il poggio digrada verso la strada di Lucca. Si svolgeva a base di uova fradicie, fatte infracidire per l’occasione dalle due parti, i cui capitani cominciavano a farne incetta nella campagna un mese e anche due mesi prima dello scontro, ognuno badando ad accumulare più munizioni dell’avversario. L’esercito ingiuese era un esercito, come oggi si direbbe, di leva, un esercito napoleonico o nazionale, ogni cittadino un soldato. L’esercito insuese era un esercito di mestiere, di professionisti o mercenari, pochi, allenati tutto l’anno per la bisogna, a spese dei signori insuesi che nella battaglia vedevano impegnato il loro prestigio.
I signori non vi partecipavano, nemmeno come capitani. Si limitavano a fornire, di sottomano, quattrini e consigli. Il giorno fatale, seminascosti dentro il fogliame dei loro giardini che si allineavano in lunga terrazza digradante a destra del poggio, essi assistevano trepidanti allo scontro. Il piccolo esercito insuese era ammassato in silenzio in cima alla scalinata, composto quasi tutto di artiglieri dall’occhio infallibile, seri, gravi, malvestiti. I vecchi tiratori erano serviti dai giovani apprendisti e combattevano in uno stretto spazio, quello rinchiuso fra il primo giardino, palazzo Dòddoli e il muro della Collegiata. Le donne e i vecchi si aggrumavano in disparte pregando per la sorte della bandiera. L’esercito ingiuese veniva baldanzoso e sterminato lungo la strada di Lucca, fra sventolio di stendardi, canzoni di vittoria, arringhe di demagoghi; e si schierava in fondo alla scalinata. Quelli di su dovevano sloggiare quelli di giù e viceversa. I carabinieri assistevano in disparte perché la pugna non uscisse dall’ambito delle uova.
La battaglia cominciava alle due del pomeriggio e si protraeva, in genere, per due o tre ore. La sua prima fase era vinta quasi sempre dagl’ingiuesi che partivano all’attacco con plotoni di arditi e, lottando con furore, pungolati dal tifo assordante dei sostenitori, guadagnavano qualche decina di scalini. Poi il loro impeto si spegneva e gl’insuesi riguadagnavano a poco a poco terreno. Essi combattevano senza punto entusiasmo, ma con molta serietà professionale, in silenzio, fra le preghiere della popolazione. E quasi sempre vincevano ricacciando gl’ingiuesi che a un certo punto venivano colti dal panico e fuggivano a precipizio, tifosi, combattenti, bandiere e demagoghi mescolati insieme. La vittoria veniva celebrata, la sera, con pochi discorsi e molti barili di vino distribuiti dai signorotti, i quali tuttavia affettavano di ignorare l’accaduto.
Io non ricordo che vagamente queste guerre. Da allora ne ho viste altre – e di più serie. Ma la mia filosofia militare si formò tutta nello studio delle battaglie fra insuesi e ingiuesi le quali m’insegnarono ad apprezzare gli eserciti di mestiere molto più che quelli di leva; a diffidare dell’entusiasmo, a considerare catastrofica l’applicazione della demagogia alla milizia, a deplorare l’inflazione di parole, di applausi e di decorazioni che facevano gli ingiuesi, e a dubitare dell’eroismo degli eroi.
Ma torniamo all’origine del mio nome.
Il matrimonio fra mia madre, insuese, e mio padre, ingiuese, fu uno dei grossi affari della Fucecchio d’anteguerra. Mia madre apparteneva alla famiglia dei Dòddoli che era, come ho detto, una delle più cospicue, forse la più cospicua, delle casate insuesi. Non so di dove venisse con precisione questa casata perché la mia coscienza genealogica non risale più in là di mio nonno. Ma non credo che fosse molto antica del posto. La sua forza veniva più dai quattrini che dalla tradizione. Il palazzo, che era il più fastoso di tutta Fucecchio, era stato comprato da mio nonno Alessandro, che vi teneva un banco per la mercatura all’ingrosso dei cotoni. Alessandro essendo morto nel 1917, quando avevo otto anni e lui settanta, me ne ricordo abbastanza bene: era un bel vecchio, alto, con i baffi bianchi e gli occhi chiari. Non soltanto in famiglia, ma anche fuori famiglia, perfino a Milano, ne ho sentito sempre parlare come di un gran galantuomo con cui era piacevole trattare gli affari. Ma i suoi amici e i suoi figli lo ricordano ancora, oltre che per questo, anche per la sua bonomia e per i trucchi infantili con cui riusciva a concedersi qualche innocuo svago estraconiugale (in genere lo svago consisteva in una girata a Montecatini con gran banchetto di cacciucco e una sbornietta di buon Chianti) alle spalle di sua moglie Rosmunda. Rosmunda è ancora viva, ancora fedele a se stessa e al suo terribile nome, nonostante i novant’anni suonati. Figli, nipoti e pronipoti, la circondiamo più di rispetto che di affetto e, tutto sommato, non deploriamo il colpetto di paralisi che, senza comprometterne la salute di ferro, le ha un poco inceppato la parola e velato la memoria, perché, sino a pochi anni addietro, essa non aveva perduto il vizio di distribuire ceffoni ai suoi rampolli più che cinquantenni e di rimproverarli per un vasetto di marmellata rubato in dispensa quarantacinque anni prima.
Rosmunda – che era una bella donna, di una bellezza fredda e spietata come i suoi occhi – ebbe da Alessandro sette figli, quattro maschi e tre femmine: mia madre Maddalena fu la quinta. Li partorì senza un lamento e li allevò senza una carezza, ben decisa a sacrificare tutte le femmine a tutti i maschi. Per ciò fare, essa rifiutò la collaborazione di Alessandro nell’educazione dei ragazzi e, da buona autoritaria, la sbagliò in pieno. Tuttavia essa non si rassegnò mai a riconoscere lo sbaglio, v’insisté contro ogni evidenza e, rimasta vedova, si lasciò tranquillamente spogliare dai suoi prediletti maschi a detrimento delle tre femmine. Soltanto ora mostra per qualche segno un po’ di resipiscenza, ma lo fa con decoro e a mezza voce soltanto. Però scommetto che, quando prega (Rosmunda prega a testa alta e dirigendo il coro degli astanti col cipiglio di un generale), séguita a pregare per i cari maschi, che Dio li perdoni dei loro peccati e li guarisca dei loro vizi in modo che il nome si tramandi senza macchia. Le femmine, del resto, non hanno bisogno di simili preghiere.
Dei quattro rampolli maschi, due studiarono e diventarono uno avvocato e l’altro medico; e due invece, con gran disperazione di Rosmunda, non ne ebbero voglia. L’avvocato seguì le scuole a Firenze, poi in Svizzera e infine a Pisa. Quando era a Firenze, fu compagno di scuola di mio padre, di cui è giunta l’ora di parlarvi.
Mio padre era ingiuese e di famiglia resa cospicua da un rivoluzionario del ’48 cui i fucecchiesi hanno dedicato un monumento. Ma i Montanelli cui mio padre apparteneva erano di un altro ramo, il ramo povero evidentemente, e mio nonno Raffaello era piuttosto in difficoltà. Io non l’ho conosciuto perché morì prima che mio padre si sposasse. Dicono che gli somiglio e, siccome aggiungono che era un bello e brav’uomo, non ho niente da obbiettare. So che non faceva nulla dalla mattina alla sera, che era malinconico e taciturno e che gli piacevano i bei vestiti. Era sua moglie Edvige, detta Eduige, che mandava avanti la famiglia composta di quattro figli: una femmina e tre maschi.
Dei maschi, mio padre Sestilio era il più promettente, studiava bene e con ottimi risultati; perciò su di lui si concentravano le speranze e le risorse della famiglia che decise di farne un professore di lettere. Sestilio fu infatti mandato a dozzina da sua sorella Maria andata sposa a un cancelliere di tribunale a Firenze, e qui fece il ginnasio, il liceo e l’università a furia di zuppe di fagioli e di dieci in pagella. A scuola fu compagno di Alberto Dòddoli che, intelligentissimo e sfaticato, si lasciava fare i compiti da Sestilio. A quest’ultimo, tornato per le vacanze in paese, l’amicizia con Alberto consentì di ascendere palazzo Dòddoli e di conoscervi mia madre. Il resto ve l’immaginate.
Ma non v’immaginate, invece, la guerra che Rosmunda fece a Sestilio il quale, per ingraziarsela, riuscì a furia di ripetizioni a far prendere la licenza liceale a Curtatone, il settimo dei figli Dòddoli. Un po’ questo, un po’ l’intercessione del sindaco e dell’arciprete, permisero finalmente a mio padre d’impalmare mia madre. Prima però egli dovette fare solenne abiura alle sue professioni di fede politica che era di tinta vagamente socialista. Poi, alla fine, l’unione fu decisa fra lo scetticismo di mia nonna Rosmunda la quale non si riprometteva nulla di buono da un «matrimonio d’amore» e l’orgoglio offeso di mia nonna Edvige che vedeva così poco considerato il suo rampollo professore.
Questi, che insegnava allora alle tecniche del paese, si portò la moglie per in giù, in una villetta con giardino, e, ottenuta la grazia, riabbracciò in pieno le sue idee sovversive. Poco dopo mia madre rimase incinta. Subito Rosmunda calò dal poggio a riprendersi la figliola perché l’erede nascesse per in su. Infatti nacqui per in su, il 22 aprile 1909. Ma poco dopo, essendosi Rosmunda ammalata, mio padre venne a riprendersi la consorte e la prole e, per vendicarsi, si mise con ostinazione a cercare per me un nome che non fosse né nella famiglia, né nel calendario.
Lo trovò.

(1939)
da Gente qualunque

«La Nazione»

Il mio più lontano ricordo della «Nazione» è la testata iscritta su un portacenere di maiolica, su cui mio nonno non ammetteva che si posasse altro sigaro che il suo. Se lo teneva sulla scrivania, fra il calendario e il calamaio; e quello di pulirlo con cura, la sera prima di uscire, tenendolo a lungo sotto la cannella, era uno dei compiti del «giovane di studio» che aveva settant’anni, le cateratte, e un amore a suo modo felice per la «cucitrice in bianco» di casa, una vedova che gli aveva promesso di sposarlo quando tutt’e tre le sue figliole si fossero accasate. Purtroppo, l’ultima aveva avuto la paralisi infantile, era rimasta sciancata, e quindi un marito non lo trovò mai.
«La Nazione» non era il solo giornale che circolasse per casa. Uomo d’affari, mio nonno era abbonato anche al «Secolo» e al «Sole» per meglio seguire l’andamento della Borsa di Milano. Ma li consultava per ragioni tecniche, e basta. Al più, essendo grande amatore di opere liriche, e specialmente di Puccini, suo amico di caccia, vi cercava il resoconto di qualche «prima» alla Scala. Ma, non fidandosi molto del gusto dei milanesi e trovandolo troppo facile, credeva sì e no a quel che leggeva. E il suo scarso affetto ai due quotidiani lombardi era dimostrato dal fatto che sui rispettivi portacenere regalatigli come abbonato (l’unico di Fucecchio) consentiva che anche gli altri posassero il sigaro o la sigaretta. Anzi, li teneva sul tavolo davanti al canapè, per i visitatori.
«La Nazione» arrivava in villa la mattina alle nove, portatavi in bicicletta dal postino Armando, che fino a settantacinque anni continuò a fare questo mestiere, sempre di pedale, rifiutandosi pervicacemente di applicare un motorino. E la sua prima tappa non era lo studio di mio nonno, che se ne riserbava la lettura per dopo colazione, ma il salottino privato di mia nonna che, sebbene alzata da più d’un’ora, dichiarava ufficialmente inaugurata la giornata solo dopo aver scorso gli annunzi mortuari. Anche lei aveva il suo giornale supplementare: «Il Corazziere» di Volterra, sua città natale. Ma giungeva con incredibili ritardi, anzi spesso non giungeva affatto, perché il viaggio a quei tempi era lungo. Bisognava, se ben ricordo, andare prima in carrozza a Cecina e di lì in treno a Saline, per poi raggiungere in corriera la capitale del vento e delle balze.
Ai miei orecchi di bambino, tuttora impegnato in una sorda guerra con le aste, le notizie della «Nazione» giungevano così a rate. La precedenza l’aveva il morto se, fra quelli elencati, ce n’era uno di conoscenza. In questo caso però, prima di procedere nella lettura, mia nonna faceva il giro della casa per avvertire tutti e prendere le deliberazioni del caso. Bastava un telegramma, oppure ci voleva una lettera, o addirittura una corona di fiori e la partecipazione ai funerali? Io speravo sempre nell’ultima soluzione, perché essa comportava la mobilitazione del landò, cui il cocchiere Virgilio mi permetteva di collaborare attivamente, e una partenza in massa che mi avrebbe consentito di mangiare in cucina, com’era nelle mi...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Biblioteca Universale Rizzoli
  3. Frontespizio
  4. Sommario
  5. 1 - Mi chiamo Indro
  6. 2 - Quasi un secolo
  7. 3 - Figure e figuri
  8. 4 - L’anti-italiano
  9. Postfazione