Del vero amore
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Del vero amore

  1. 209 pagine
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Del vero amore

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Informazioni sul libro

'Non esiste pagina del grande filosofo di Ippona che non si riveli illuminante per l'uomo contemporaneo. Princìpi, intuizioni, giudizi e consigli che hanno attraversato i secoli e che in ogni epoca hanno condotto l'uomo verso quel luogo della quiete imperturbabile dove l'amore non conosce abbandoni. Davide Monda propone una scelta di brani in cui l'amore, in tutte le sue accezioni, si fa questione fondamentale, attualissima e urgente.' A cura di Davide Monda

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2010
ISBN
9788858602683

AMICIZIA

In quegli anni, all’inizio del mio insegnamento nella città in cui ero nato, mi ero fatto un amico, che mi era assai caro per essere stato mio compagno di studi. Mio coetaneo, nel fiore dell’adolescenza come me, con me era cresciuto da ragazzo, insieme eravamo andati a scuola e insieme avevamo giocato; però prima di allora non era stato un mio amico, sebbene neppure allora lo fosse, secondo la vera amicizia. Non c’è infatti vera amicizia, se non quando l’annodi tu fra persone a te strette col vincolo dell’amore diffuso nei nostri cuori ad opera dello Spirito Santo che ci fu dato. Ma quanto era soave, maturata com’era al calore di gusti affini! Io lo avevo anche distolto dalla vera fede, sebbene, adolescente, non la professasse con sincerità e convinzione, per volgerlo verso le funeste fandonie della superstizione, che erano causa delle lacrime versate per me da mia madre. Con me ormai la mente del giovane errava, e il mio cuore non poteva fare a meno di lui. Quando eccoti arrivare alle spalle dei tuoi fuggiaschi, Dio delle vendette e insieme fonte di misericordie, che ci volgi a te in modo mirabile; eccoti strapparlo a questa vita dopo un anno appena che mi era amico, per me dolce più di tutte le dolcezze della mia vita di allora.
Chi può da solo enumerare le tue lodi, che in sé solo ha conosciuto? Che facesti tu allora, Dio mio? Imperscrutabile l’abisso delle tue decisioni! Tormentato dalle febbri, egli giacque a lungo incosciente nel sudore della morte. Poiché si disperava di salvarlo, fu battezzato senza che ne avesse coscienza. Io non mi preoccupai della cosa, nella presunzione che il suo spirito avrebbe conservato le idee apprese da me, anziché accettare un’azione operata sul corpo di un incosciente. La realtà invece era ben diversa. Infatti migliorò e uscì di pericolo; non appena potei parlargli, e fu molto presto, non appena poté parlare anch’egli, poiché non lo lasciavo mai, tanto eravamo legati l’uno all’altro, tentai di ridicolizzare ai suoi occhi, supponendo che avrebbe riso egli pure con me, il battesimo che aveva ricevuto, mentre era del tutto assente col pensiero e i sensi, ma che ormai sapeva di aver ricevuto. Egli invece mi guardò inorridito, come si guarda un nemico, e mi avvertì con straordinaria e subitanea franchezza che, se volevo essere suo amico, avrei dovuto smettere di parlare in quel modo con lui. Sbalordito e turbato, rinviai a più tardi tutte le mie reazioni, in attesa che prima si ristabilisse e acquistasse le forze convenienti per poter trattare con lui a mio modo. Sennonché fu strappato alla mia demenza per essere custodito presso di te per la mia consolazione. Pochi giorni dopo, in mia assenza, è assalito nuovamente dalle febbri e spira.
Il dolore avviluppò il mio cuore di tenebre. Ogni oggetto su cui posavo lo sguardo era soltanto morte. Era per me un tormento la mia patria, la casa paterna un’infelicità straordinaria. Tutte le cose che avevo avuto in comune con lui, la sua assenza aveva trasformate in uno strazio immane. I miei occhi lo cercavano dovunque, ma senza incontrarlo; odiavo il mondo intero perché non lo possedeva e non poteva più dirmi: «Ecco, verrà», come durante le sue assenze da vivo. Io stesso ero divenuto per me un grande enigma. Chiedevo alla mia anima perché fosse triste e perché mi turbasse tanto, ma non sapeva darmi alcuna risposta; e se le dicevo: «Spera in Dio», a ragione non mi ubbidiva, poiché l’uomo carissimo che aveva perduto era più reale e buono del fantasma in cui era sollecitata a sperare. Soltanto le lacrime mi erano dolci e presero il posto del mio amico tra i conforti del mio spirito.
Ed ora, Signore, tutto ciò è ormai passato e il tempo ha lenito la mia ferita. Potrei ascoltare da te, che sei la verità, avvicinare alla tua bocca l’orecchio del mio cuore, per farmi dire come il pianto possa riuscire dolce per gli infelici? O forse tu, sebbene ovunque presente, hai respinto lontano da te la nostra infelicità e, mentre tu rimani in te stesso, noi ci muoviamo in mezzo alle prove? Eppure, se non potessimo piangere alle tue orecchie, nulla rimarrebbe della nostra speranza. Come può essere, dunque, che dall’amarezza della vita si colga un soave frutto di gemiti, pianti, sospiri, lamenti? La dolcezza nasce forse dalla speranza che tu li ascolti? Ciò accade giustamente nelle preghiere, perché sono animate dal desiderio di giungere fino a te: ma anche nella sofferenza per una perdita, in un lutto come quello che allora mi opprimeva. Io infatti non speravo né invocavo con le mie lacrime il ritorno dell’amico alla vita, ma soffrivo e piangevo soltanto. Ero infelice e la mia felicità non c’era più. O forse il pianto è una realtà amara, e ci diletta per il disgusto delle realtà un tempo godute e ora aborrite?
Ma perché parlo di queste cose? Non è tempo, questo, di porti domande, bensì di farti le mie confessioni. Sì, ero infelice, e infelice è ogni animo avvinto d’amore alle cose mortali. Solo quando la loro perdita lo strazia, avverte l’infelicità, di cui però era preda anche prima della loro perdita. Così avveniva allora per me. Piangevo lacrime amarissime, e riposavo nell’amarezza; mi sentivo infelice, e avevo cara la stessa vita infelice più dell’amico perduto. Avrei voluto mutarla, ma non avrei voluto perderla in sua vece. Non so se avrei accettato di fare anche per lui come Oreste e Pilade, i quali – secondo la tradizione, se non è un’invenzione – avrebbero accettato di morire l’uno per l’altro insieme, essendo per loro peggio della morte il non vivere insieme. In me era sorto un sentimento indefinibile decisamente contrario a questo, ove il tedio gravissimo della vita si associava al timore della morte. Quanto più lo amavo, io credo, tanto più odiavo e temevo la morte, nemica crudelissima che me l’aveva tolto e si apprestava a divorare in breve tempo, nella mia immaginazione, tutti gli uomini, come aveva potuto fare con lui. Tale certamente era il mio stato d’animo, mi ricordo. Ecco il mio cuore, mio Dio, ecco il mio intimo. Vedilo attraverso i miei ricordi, o mia speranza, tu che mi purifichi dall’impurità di questi sentimenti, dirigendo i miei occhi verso di te e liberando dal laccio i miei piedi. Mi stupivo che gli altri mortali vivessero, se egli, che avevo amato come non dovesse mai morire, era morto; e più ancora mi stupivo che io vivessi se era morto lui, poiché io ero un altro lui. Bene qualcuno definì l’amico la metà della sua anima (cfr. Orazio, Odi, 1, 3.8). Io sentii che la mia anima e la sua erano state un’anima sola in due corpi; perciò la vita mi faceva orrore, poiché non volevo vivere a metà, e perciò forse temevo di morire, per non far morire del tutto chi avevo molto amato.
Oh follia, incapace di amare gli uomini in modo ragionevole! Oh stoltezza dell’uomo, insofferente della condizione umana! Tali erano i miei sentimenti di allora, e di lì nascevano i miei furori, i miei sospiri, le mie lacrime, i miei turbamenti, e l’irrequietudine e l’incertezza. Mi portavo dentro un’anima dilaniata e sanguinante, insofferente di essere portata da me; e non trovavo dove deporla. Non certo nei boschi ameni, nei giochi e nei canti, nei giardini profumati, nei conviti sfarzosi, fra i piaceri dell’alcova e del letto, e infine neppure sui libri e sui poemi trovava requie. Tutto per lei era orrore, finanche la luce del giorno; e qualunque cosa non era ciò che era lui, era triste e odiosa, eccetto i gemiti ed il pianto. Qui soltanto aveva un po’ di riposo; ma appena di lì la toglievo, la mia anima mi opprimeva sotto un pesante fardello d’infelicità. Per guarirla avrei dovuto innalzarla verso di te, Signore, lo capivo, ma non volevo né avevo la forza di farlo, e ancor meno perché non eri per la mia mente qualcosa di solido e stabile, ossia non eri ciò che sei. Un vano fantasma e il mio errore erano il mio dio. Se tentavo di adagiarvi l’anima per farla riposare, scivolava nel vuoto, ricadendo nuovamente su di me; e io ero rimasto per me stesso un luogo infelice, ove non potevo stare e da dove non potevo allontanarmi. Ove poteva fuggire, infatti, il mio cuore lontano dal mio cuore, ove fuggire io da me stesso, senza inseguirmi? Dalla mia patria però fuggii, perché i miei occhi meno cercavano l’amico dove non erano avvezzi a vederlo. Così dal castello di Tagaste mi trasferii a Cartagine.
Il tempo non è inoperoso, e non passa ozioso sui nostri sentimenti. Agisce invece sul nostro animo in modo sorprendente. Ecco, veniva e trascorreva di giorno in giorno, e venendo e trascorrendo insinuava in me nuove speranze, nuovi ricordi con paziente restauro, ove alle antiche forme di piacere cedeva il mio dolore. Ma succedevano, se non nuovi dolori, motivi almeno di nuovi dolori. Perché, d’altronde, quel primo dolore era penetrato con grande facilità nel mio intimo, se non perché avevo versato la mia anima sulla sabbia, amando una creatura mortale come fosse immortale? Massimo conforto e sollievo mi veniva dalla consolazione degli altri amici, con i quali avevo in comune l’amore di ciò che amavo al posto tuo, dell’enorme finzione, della lunga impostura, corruttrice con le sue false carezze, del nostro pensiero smanioso di udire. Per me quella finzione non moriva, anche se uno dei miei amici moriva. Altri legami poi stringevano ulteriormente il mio animo: le conversazioni, le risa in compagnia, lo scambio di affettuose cortesie, le comuni letture di libri ameni, i comuni passatempi ora frivoli ora decorosi, i dissensi occasionali, senza rancore, come di ogni uomo con se stesso, e i più frequenti consensi, insaporiti dai medesimi, rarissimi dissensi; l’essere ognuno dell’altro ora maestro, ora discepolo, la nostalgia impaziente di chi è lontano, le accoglienze festose di chi ritorna. Questi e altri simili segni di cuori innamorati l’uno dell’altro, espressi dalla bocca, dalla lingua, dagli occhi e da mille gesti gradevolissimi, sono l’esca, direi, della fiamma che fonde insieme gli animi e di molti ne fa uno solo.
Questo è ciò che si ama negli amici, e si ama in modo che la nostra coscienza di uomini si sente colpevole, se non risponde sempre all’amore con amore, senza chiedere all’essere amato nient’altro che prove d’affetto. Vengono di qui il lutto per la morte degli amici, le tenebre del dolore, il mutarsi della dolcezza in amarezza, il cuore intriso di pianto e la morte dei vivi per la vita perduta dei morti. Felice chi ama te, e l’amico in te, e il nemico per te. L’unico a non perdere mai un essere caro è colui che ha tutti cari in Colui che non è mai perduto. E chi è costui, se non il nostro Dio, il Dio che creò il cielo e la terra e li colma, perché colmandoli li ha creati? Nessuno ti perde, se non chi ti lascia, e poiché ti lascia, dove va, dove fugge, se non dalla tua benevolenza verso la tua collera? Dovunque troverà la tua legge nella sua pena, e la tua legge è verità, e la verità sei tu.
Confessioni, IV, 4.7-9.14
Un individuo, anche se è tanto forte da sopportare con animo sereno, o tanto accorto da schivare con preveggente perspicacia i tranelli che una finta amicizia prepara contro di lui, non può non essere gravemente afflitto dalla perversità di queg...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Occhiello
  3. Frontespizio
  4. Attualità di un protagonista inquieto della cultura europea, di Pierre de Labriolle
  5. Agostino. Chi era colui? Che resta di lui per il cittadino europeo del Terzo millennio?
  6. Bibliografia essenziale
  7. Nota al testo
  8. Amicizia
  9. Amore di Dio
  10. Amore verso le persone
  11. Condizione umana
  12. Dio
  13. Educazione
  14. Filosofia
  15. Gesù
  16. Matrimonio
  17. Pace
  18. Peccato
  19. Politica e giustizia umana
  20. Virtù cardinali
  21. Virtù teologali
  22. Vita cristiana
  23. Testimonianze sull’universalità di un pensiero decisivo nella cultura occidentale
  24. Indice