Introduzione
La guerra non è la continuazione della politica con altri mezzi, ma ne è parte integrante, e mentre viene combattuta, la politica continua a svolgere un ruolo attivo. Lo sapevano bene i russi, se uno dei loro più grandi scrittori, Lev Tolstoj, intitolò La guerra e il mondo (e non Guerra e pace , come viene comunemente tradotto) il suo capolavoro.1 Per Tolstoj non c’è contrapposizione tra la guerra e la vita di una società. Quando comincia, un conflitto si trascina dietro ogni ambito di realtà, che però, nel frattempo, non interrompe la sua storia: la vita muta, ma senza soluzione di continuità. La politica non viene accantonata, quindi, ma portata avanti attraverso contatti tra le parti, tentativi di mediazione, nuove definizioni dei ruoli, mentre sul piano sociale mutano le forze in campo e gli assetti.
L’inevitabilità del coinvolgimento diretto della popolazione civile in un conflitto moderno, d’altra parte, emerse con evidenza nel corso dei processi di Norimberga e Tokyo, celebrati al termine della Seconda guerra mondiale per punire i responsabili dei crimini dell’Asse. Quanto e come questo coinvolgimento sarebbe stato sanzionato in futuro, sarebbe dipeso dai rapporti di forza, dunque dalla politica.
Già durante il conflitto le potenze alleate si erano ripetutamente incontrate per decidere la politica da seguire nei confronti di questo o quel paese sconfitto; nel contempo, abbozzavano i possibili scenari postbellici, che trovarono una sintesi negli accordi di Jalta del febbraio 1945, conclusi quando la guerra era ancora in corso.2 Ci sarebbero voluti ancora quasi tre mesi di combattimenti per prendere Berlino, e sei mesi e due bombe atomiche per piegare la resistenza del Giappone.
Stati Uniti, Unione Sovietica e Gran Bretagna avevano ciascuno una propria strategia e una propria visione di quello che sarebbe dovuto essere il mondo postbellico. Concordavano però sulla necessità di porre in secondo piano le questioni di politica interna relative ai paesi liberati: la priorità andava data alla conduzione del conflitto, orientata al totale annientamento delle forze dell’Asse. Così, mentre da una parte si ragionava in termini di geopolitica, dall’altra si chiedeva alle piccole e medie potenze di attendere la fine delle ostilità per decidere, per esempio, il proprio assetto istituzionale.
Fu su questa linea che l’Unione Sovietica impostò le proprie relazioni con quella che tanto i badogliani quanto i rappresentanti dei partiti antifascisti avevano preso a definire Nuova Italia, riuscendo in pochi mesi a diventarne, seppur solo provvisoriamente, il partner politico più importante. La politica del Partito comunista italiano, che prima del ritorno in Italia di Palmiro Togliatti non aveva dimostrato alcuna capacità strategica, fu un corollario di quella di Mosca e trovò terreno fertile tra i dirigenti come tra i militanti.
Questo libro è dedicato agli avvenimenti che seguirono l’8 settembre e alle posizioni assunte da Mosca nei confronti della nuova situazione italiana, in cui i partiti antifascisti premevano per risolvere la questione istituzionale (repubblica o monarchia) già all’inizio del 1944, dunque a un anno e mezzo dalla fine del conflitto. Finché governavano la Corte, che aveva voluto la guerra, e un alto ufficiale come Badoglio, direttamente coinvolto nel conflitto (aveva avallato l’attacco alla Grecia), gli antifascisti non avrebbero appoggiato l’esecutivo. Ben lontano dal volere l’instaurazione di un regime filosovietico in Italia, il Cremlino agì da mediatore tra le diverse posizioni, al fine di mantenere il più possibile coeso il mondo politico italiano, che doveva condurre la guerra comune contro i tedeschi e portare il paese fuori dal fascismo attraverso una politica di epurazione dei quadri statali più rilevanti. Fu però il governo guidato da Badoglio a cercare i sovietici, e non il contrario; Stalin sostenne l’iniziativa, vedendovi certamente interessanti opportunità, ma mostrando anche cautela verso aperture troppo ampie. Gli altri soggetti coinvolti a vario titolo in queste vicende, come lo stesso Togliatti, incisero marginalmente – se non per nulla – sulle decisioni cruciali.
Nel corso della cosiddetta Prima Repubblica italiana, gli storici legati al Pci , partito di massa con una scuola di formazione politica e storiografica, dedicarono molti studi al rientro di Togliatti in Italia e alla politica della Svolta di Salerno. Alcuni, come Paolo Spriano, pur con tutti i dubbi da lui espressi per l’impossibilità di accedere alla documentazione sovietica, attribuirono a Togliatti la regia della svolta e alla nuova politica da essa inaugurata un ruolo essenziale nella fondazione della Repubblica. Quando cadde il Muro di Berlino (1989), si dissolse l’Urss (1991) e la Prima Repubblica italiana venne travolta da Tangentopoli, si registrarono importanti ripercussioni anche in campo storiografico. Scomparso il Pci , tutto il lavoro di recupero e conservazione della sua memoria e della sua storia venne affidato alla Fondazione Gramsci, guidata da giovani studiosi formatisi negli anni rampanti dell’edonismo reaganiano, mentre parallelamente poterono trovare uno spazio maggiore nel dibattito storiografico studiosi prima tenuti ai margini, sia di formazione marxista ma usciti dal Pci per passare a schieramenti più moderati, sia di altra scuola. La caduta del comunismo, infatti, ebbe tra le sue conseguenze anche la fine dell’egemonia marxista nel quadro della storiografia nazionale, aprendo la possibilità di intraprendere nuovi percorsi di ricerca lontano dalle angustie ideologiche della guerra fredda.
Favoriti dalla «rivoluzione archivistica», ossia dall’apertura degli archivi dell’Urss e degli altri paesi del campo socialista avvenuta all’inizio degli anni Novanta, studiosi come Silvio Pons, Francesca Gori, Elena Aga-Rossi, Victor Zaslavsky, Pietro Di Loreto, Roberto Gualtieri, Carlo Spagnolo, Ermanno Taviani, Elena Dundovich, Giuseppe Vacca, Giorgio Galli, Aldo Agosti, Giancarlo Lehner, Federigo Argentieri e altri si sono quindi occupati del ruolo del Pci e della figura del suo segretario generale, Palmiro Togliatti, con prospettive e approcci diversi.3 Per alcuni di loro, come Aga-Rossi, Zaslavsky (purtroppo precocemente scomparso nel 2009), Lehner o Argentieri, il giudizio sul Pci è negativo: la sua politica sarebbe stata la copertura di un piano d’egemonia dei sovietici, dalle cui mani il partito italiano sarebbe stato manovrato come una marionetta. Il Pci , per questi storici, sarebbe dunque stato un freno per lo sviluppo della democrazia italiana, che in un mondo diviso in blocchi non poté uscire dalla centralità democristiana proprio a causa della forza elettorale dei comunisti sostenuti dal Cremlino.
Diverso è il giudizio di Silvio Pons, direttore della Fondazione Gramsci, secondo cui «nei piani sovietici per gli assetti postbellici dell’Europa, tra il 1941 e il 1944, l’Italia non riveste […] un ruolo e un significato rilevante».4 Lontana da quella di Pons e degli altri storici fin qui citati appare la posizione di Bruno Arcidiacono, studioso di relazioni internazionali, che analizzando il «caso Italia» ne ha fatto un paradigma di quanto sarebbe poi accaduto nei paesi dell’Europa Centro-Orientale:5 con Badoglio, i sovietici avrebbero effettuato la prova generale di una strategia tesa a mettere in piedi governi amici nei paesi liberati da regimi allineati con l’Asse. Come Arcidiacono, anche Ennio Di Nolfo e Giorgio Petracchi, studiosi entrambi di relazioni internazionali, si sono concentrati sugli aspetti diplomatici della guerra e del secondo dopoguerra: uscendo dalla logica stretta del rapporto tra Pci e Urss, hanno trovato nella diplomazia una chiave di lettura diversa per comprendere gli sviluppi delle questioni riguardanti Roma, non trascurando il ruolo giocato dalle istituzioni e dai governi italiano e sovietico.
La ricerca i cui esiti sono esposti in questo libro è nata dalla necessità di superare le posizioni fin qui brevemente illustrate, le une perché sottovalutano troppo il ruolo delle istituzioni statali, le altre perché eccessivamente concentrate su quello della diplomazia e orientate a scartare acriticamente ogni coinvolgimento del Partito comunista. Per cercare di comprendere il ruolo avuto dall’Unione Sovietica nell’evoluzione della politica italiana, si devono stabilire con chiarezza i problemi in campo e la loro origine, le funzioni rivestite dai protagonisti e le condizioni oggettive all’interno delle quali essi agirono, così come estrema attenzione va posta all’uso della terminologia. Appare difficile, per esempio, dare un giudizio esaustivo e sereno sui piani postbellici sovietici senza tenere conto delle conseguenze della Prima guerra mondiale. Al termine del conflitto, infatti, l’allora nascente Stato sovietico si trovò isolato, in Europa, e cinto da una fascia di sicurezza (o cordone sanitario) voluta dalle potenze vincitrici e formata dai cosiddetti Stati successori dei grandi imperi scomparsi nel 1918 – quello russo, l’Ottomano, la duplice monarchia austroungarica e l’Impero germanico – allo scopo di porre un freno al dilagare del bolscevismo nel continente. Senza voler minimamente semplificare il problema, un banale riscontro sulla carta geografica può agevolmente evidenziare la corrispondenza di quella fascia di sicurezza con quello che ancora oggi è chiamato da alcuni, in modo troppo frettoloso, l’ impero esterno sovietico.6
Fabio Bettanin ha dedicato a questo problema un’intera monografia, spendendo moltissime pagine per spiegare i motivi di una scelta terminologica così ardita; gli esempi che egli porta, però, appaiono contraddittori, mentre in almeno un’occasione dimostra di non avere chiaro il momento in cui l’Impero nacque davvero, in Russia, anticipandolo di quasi un secolo.7 Quando Bettanin dice che «la storia della seconda metà del XX secolo sarebbe incomprensibile se non si tenesse conto del ruolo che in essa ha svolto l’impero esterno sovietico [corsivo mio]», oltre a fare un’affermazione pleonastica vista l’importanza avuta dall’Urss nel corso di tutto il Novecento, lascia aperto il problema a livello terminologico.8 Nelle pagine teoriche del suo saggio, infatti, usa il sostantivo sia nella locuzione «impero esterno» sia in quella «impero sovietico», e asserisce che «quando l’analisi storica si concentra sulle analogie fra la storia della Russia zarista e quella degli altri grandi imperi del passato, la parabola storica dell’Urss non può che essere descritta come un’anomalia storica, manifestatasi nella formazione di un impero proprio nel momento in cui gli imperi storici scomparivano, e conclusasi con l’inevitabile frantumazione dell’impero sovietico».9 Al di là di questo come di altri passaggi, a non convincere è l’impalcatura del libro, che si basa sulle definizioni del concetto di impero di autori statunitensi come J. L. Gaddis, che ha scritto: «Mi riferisco, con questo termine, a una situazione nella quale un singolo Stato influisce sul comportamento di altri Stati, direttamente o indirettamente, parzialmente o completamente, mediante strumenti che variano dall’uso diretto della forza, all’intimidazione, dipendenza, incentivo, sino allo stimolo dell’esempio»: ebbene, in questa definizione può starci prati...