Lettera a un amico antisionista
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Lettera a un amico antisionista

  1. 126 pagine
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Lettera a un amico antisionista

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A più di sessant'anni dalla Seconda guerra mondiale, uno spettro si aggira per il pianeta: l'antisemitismo. Oggi però si declina nel dibattito politico e si annida nelle coscienze in modo molto più subdolo, grazie a chi dichiarandosi tollerante e pacifista si nasconde dietro la bandiera dell'antisionismo per condannare sempre e comunque la politica di Israele, con tanto di boicottaggi nei supermercati, nelle università, nello sport. Peccato che nessuno di questi virtuosi censori batta ciglio per i curdi, gli uiguri, gli uzbeki, per i drammi in Somalia, in Ruanda e in Eritrea: se il colpevole non è Israele non vale la pena mobilitarsi. Strano cortocircuito, quello per cui le sbandierate migliori intenzioni sfociano nei peggiori luoghi comuni: le lobby, la violenza intrinseca, il popolo eletto e dannato. Strano controsenso, quello di chi è disposto ad allearsi con i responsabili di violazioni di diritti umani, stragi e genocidi pur di attaccare uno Stato che difende semplicemente il proprio diritto all'esistenza. E che invece è capace di lottare per la pace, anche contro se stesso e le frange interne più estreme, come dimostrano gli scioperi dopo le stragi di Sabra e Shatila, o le proposte d'intesa avanzate dal primo ministro israeliano Ehud Barak nel summit di Camp David. Caro amico antisionista, concedi un attimo di pausa ai tuoi pregiudizi, è ciò che chiede Pierluigi Battista in questa lunga e appassionata lettera indirizzata a tanti antisemiti più o meno inconsapevoli. Perché dietro la buonafede o le belle parole di chi si finge imparziale, dietro l'irresponsabile conformismo, dietro tanta virtuosa indignazione si cela un vecchio cancro ideologico che ha già fatto milioni di vittime.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2011
ISBN
9788858615416
Categoria
Sociology

IV

Nascita di una nazione
A furia di enfatizzare l’unicità del destino ebraico, si finisce poi per cancellare la stessa possibilità che gli ebrei, oltre al destino, possano avere una storia. Una storia «normale», intendo dire. Una storia né santa né demoniaca, ma normale. Popolata di eroi e di mascalzoni, come tutte le altre storie. Ricca di episodi edificanti, ma anche di errori deplorevoli, di piccinerie, di meschinità. Come tutte le altre storie.
Meglio non lasciarsi incantare perciò dagli opposti teologismi che sublimano o maledicono la storia ebraica (e quella sionista, di conseguenza) per farne l’incarnazione di un Destino scolpito nelle Sacre Scritture. Diffidare dei luoghi comuni, soprattutto di quelli che si ammantano d’erudizione, sulla sorte del popolo eletto costretto a rovesciarsi nel popolo dannato. Leggere, ma con la dovuta diffidenza, le considerazioni degli autori ebrei menzionati e condivisi da Barbara Spinelli: da Doron Rosenblum che deplora la mentalità di un «popolo perennemente votato alle sciagure» a Ilan Greilsammer che collega gli errori della dirigenza israeliana alla religione di Mosè in cui l’ebreo avrebbe compulsivamente «la vocazione a esaltare il proprio ruolo di vittima». Insomma: uscire dal cerchio magico dei discorsi tonitruanti sul Destino, dai fumi delle acrobazie dialettiche sull’ineluttabilità dello scambio di ruoli vittima-carnefice nella millenaria vicenda ebraica. Desacralizzare la storia del sionismo e di Israele.
Anzi, visto che sei un antisionista dichiarato, smettila di demonizzare – il contrario della sacralizzazione – la storia del sionismo e di Israele. Prova a considerarla, semplicemente, una storia normale. Una storia profana. Una storia nella Storia, e non nel Divino. O addirittura nel Diabolico, come da sempre sostiene chi è ammalato di giudeofobia.
Sarà così possibile capire che la storia del sionismo e dello Stato di Israele, come tutte le storie, non è quel racconto atroce divulgato con raccapriccio da chi ne contesta la stessa legittimità morale. Non è quel malvagio disegno che con infinito cinismo si sarebbe affermato in un derelitto lembo di terra mediorientale, come sostengono i suoi detrattori, con l’unico intento di mietere nuove vittime, infierendo su di esse per decenni e decenni. È una storia complicata, costellata di gesti meravigliosi e di cattive azioni. Ma non una storia dannata.
Nessuno, del resto, ha i titoli per rivendicare una propria storia senza impurità e tragedie, mondata da ogni errore, libera da ogni crimine. Nessuno. Esprimiamo per esempio gratitudine a chi ha consentito che nella Seconda guerra mondiale non prevalesse Hitler. Ma la coscienza del mondo libero deve fare ancora i conti con le vittime innocenti di Hiroshima e Nagasaki. Ammiriamo l’eroica e caparbia determinazione con cui l’Inghilterra di Winston Churchill tenne testa al nazismo. Ma leggiamo con un certo sgomento, in quello straordinario libro di Winfried Georg Sebald che è Storia naturale della distruzione, le disposizioni in cui Churchill teorizzava i bombardamenti sui civili tedeschi per demolire il morale del nemico, raderne al suolo le città (non le infrastrutture, ma le città con tutti i suoi abitanti), massimizzare il numero delle vittime come finale arma dissuasiva per sbaragliare e annichilire la resistenza non solo di un esercito, ma di un popolo. Eppure sarebbe sciocco liquidare solo come un «criminale» chi ha promosso l’annientamento di Dresda.
Ma se esitiamo a fare i conti con il Male creato e diffuso anche da chi ha avuto ragione nella storia, perché non esitate invece a ridurre a Male, a perversione morale, tutt’intera la storia del sionismo e di Israele? Non c’è una inaccettabile dismisura di giudizio (o di pregiudizio) in tutto questo?
Scendendo più nel particolare, davvero non si riesce ad afferrare la peculiarità negativa di quel moto di rivendicazione nazionale chiamato sionismo rispetto alle vicende, alle mitologie, alle retoriche che hanno scandito e accompagnato in tutto il mondo la fondazione degli Stati nazionali. Siamo davvero così disposti a credere, noi italiani, nell’angelica purezza del nostro Risorgimento, a nascondere gli angoli bui di quell’avventurosa sequenza di eventi che portò all’unità d’Italia e alla nascita di uno Stato unitario? Abbiamo qualche titolo privilegiato per ignorare che l’epopea risorgimentale si macchiò anche di massacri, repressioni feroci, rastrellamenti nel Meridione, vessazioni sulla popolazione civile, talvolta autentici imbrogli? La storia del sionismo e della fondazione dello Stato di Israele – se si ritiene necessario, vista la vostra acredine, inerpicarsi lungo questi accidentati sentieri comparativi – conosce, in proporzione al tempo in cui si è dipanata, molte meno macchie di quella dell’irredentismo italiano. Eppure viene dipinta dai suoi nemici come una catena di crimini, alla cui origine ci sarebbe un crimine primario e imperdonabile: la stessa volontà degli ebrei di costruire uno Stato nelle terre indicate dal testo biblico.
Del resto, è proprio della formazione degli Stati-nazione un rapporto problematico, in bilico tra realtà e fantasia nazionale, con il proprio passato e le proprie origini. Eric Hobsbawm ha insistito, attraverso esempi molto eloquenti, sull’«invenzione della Tradizione» con cui gli Stati ancorano il loro presente a un passato leggendario e largamente immaginario. E non si può dar torto a Donald Sassoon quando osserva che «pochi degli Stati nazionali di oggi sono esistiti a lungo nei loro confini attuali. Territori vengono annessi a Stati per motivi che nulla hanno a che fare con i sentimenti nazionali. Il che non è difficile perché nella maggioranza dei casi i sentimenti nazionali sono stati inventati». In una vicenda così intricata come quella del conflitto israelo-palestinese la questione dei «confini», come è noto, ha una sua importanza cruciale. Tanto è vero che l’analisi di Sassoon, scrutando l’attitudine dei nazionalismi ad accreditare ascendenze che si perdono nella notte dei tempi, include un accenno a Israele: «Noi, si dice, veniamo da lontano, da secoli, forse anche di più (dal 1066, notoriamente, per la Gran Bretagna, dal 966 in Polonia, da Romolo e Remo in Italia, dai tempi di Platone e Aristotele in Grecia, fin dai tempi di Abramo in Israele)».
Però in genere le esagerazioni retoriche di tutti i nazionalismi vengono perdonate, considerate nella peggiore delle ipotesi magnifici orpelli utili a legittimare la propria storia con il racconto delle origini. Per quella particolare forma di nazionalismo che è il sionismo, invece, no: quegli orpelli sono bollati come indegne menzogne, come un pretesto camuffato da storiografia per legittimare un progetto che sin dall’inizio avrebbe pianificato la spoliazione e la sottomissione del popolo palestinese. Un progetto, per usare la definizione di Danilo Zolo, compiutamente e organicamente «razzista e coloniale».
Ecco l’origine del trattamento unico cui viene sottoposta la storia del sionismo e dello Stato di Israele, dall’inizio fino ai nostri giorni (e fino a quando, par di capire, esisterà lo Stato di Israele). Difficile combattere contro un pregiudizio così tenace. Ma per amor di discussione, per accettare un terreno di interlocuzione anche scabroso e a te e a voi più favorevole, voglio provare ad ammettere che l’«invenzione della Tradizione» nella storia sionista sia stata dilatata in misura inaccettabile.
Sfrondiamo pure la mitologia sionista dalle sue esagerazioni retoriche. Diciamo che tutta l’autorappresentazione sionista, sin dai primi impulsi di Theodor Herzl, sia troppo edulcorata, troppo autoindulgente, troppo autopromozionale. Che il mito del deserto arido e infruttuoso trasformato in un lussureggiante aranceto per merito dei pionieri ebrei contiene, appunto, eccessivi elementi di edificazione mitologica per essere integralmente vero. Che sia, almeno parzialmente, infondata l’immagine di una terra spopolata che si ripopola grazie all’attività degli ebrei che vengono a dissodarla e a santificarla (e sciagurato fu chi nella dirigenza sionista coniò la formula: «Un popolo senza terra per una terra senza popolo»). Che le terre acquisite dalle avanguardie sioniste non furono solo il frutto di una pacifica transazione con i latifondisti arabi assenteisti che lucravano su favorevolissimi contratti di vendita. Diamo per buona anche la fantasiosa ipotesi che i pionieri ebrei che si consacrarono con i loro kibbutz in un impegno aspro e totalizzante di rigenerazione non abbiano costruito, come invece è accaduto, una comunità illuminata dai princìpi socialisti del lavoro e dell’eguaglianza, bensì avamposti, come talvolta li dipingete, di una subdola infiltrazione di «oggettiva» ispirazione colonialista.
Ammettiamo tutto questo, a malincuore ma ancora una volta per amor di discussione senza pregiudizi. Tuttavia, anche nella versione meno accomodante con l’autorappresentazione sionista, ciò ti sembra veramente la versione di un criminale progetto «razzista e coloniale»? Ma davvero è credibile, una volta sgomberato il terreno da una raffigurazione demonizzante dei seguaci di Herzl, che i diseredati ebrei della Russia, della Galizia, delle terre dell’Est europeo funestate da sanguinosi pogrom antisemiti, mossi da un’ansia di riscatto e di liberazione per le persecuzioni patite, si siano raccolti nello yishuv, nell’insediamento ebraico che ha preceduto la costituzione dello Stato di Israele, per impossessarsi con la violenza della terra dei palestinesi (il «colonialismo») considerati come razza inferiore (il «razzismo»), e addirittura per prepararne l’evacuazione e la deportazione?
Guarda le fotografie ingiallite dei primi coloni ebrei che, infiammati di spirito messianico, desiderosi di ricongiungersi dopo quasi due millenni alla terra dei Padri, abbandonavano tutto per rinascere a nuova vita nei luoghi dove l’ebraismo venne al mondo: ti sembrano davvero le immagini di conquistatori senza scrupoli, di arroganti colonialisti, di «razzisti» addirittura?
Andarono in Palestina (per la verità bisognerebbe dire: tornarono). Coltivarono la terra. Arida, certo, e anche in larga parte abbandonata quando la Palestina era un frammento marginale e negletto dell’Impero ottomano e non c’era ancora traccia di nazionalismo palestinese: tra l’altro, per paradosso, un nazionalismo di «reazione», nato e cresciuto come frutto contagioso e imitativo dello stesso nazionalismo ebraico. Fondarono università, scuole, centri di ricerca scientifica, orchestre, ospedali. Un sindacato come l’Histradut, sconosciuto in quella zona del mondo. Rianimarono una lingua, diedero vita a una letteratura, un’arte, un’architettura, edificarono villaggi e città. Fecero tutto questo, per giunta non navigando nemmeno nella ricchezza e nell’agio che di solito confortano le gesta dei colonialisti, sulla base di un tenebroso disegno «coloniale e razzista»? Non è credibile. Anzi, è totalmente incredibile.
Ma i palestinesi? Certo, i palestinesi. Che per molti rappresentanti del sionismo non esistevano nemmeno come entità storica e come problema. O venivano considerati un ostacolo. Oppure, peggio ancora, soltanto manodopera a basso costo, di cui peraltro diffidare. Gli stessi intellettuali dell’ebraismo europeo come Gershom Scholem e Martin Buber, fautori di un sionismo più spirituale che nazionale e nazionalista, più legati a un’idea di Sion come luogo della fede e delle radici che non come luogo della storia e della politica, mettevano in guardia i seguaci di Herzl da una sottovalutazione della reazione arabo-palestinese, pronosticando una convivenza difficile se non tempestosa tra i due popoli.
E infatti la tempesta scoppiò, più o meno in coincidenza con la dissoluzione dell’Impero ottomano e con la Dichiarazione Balfour del 1917, in cui venne riconosciuto il diritto a un «focolare nazionale» ebraico (National Home) dai britannici che avrebbero ricevuto dalla Società delle Nazioni il mandato in Palestina. Scoppiarono tensioni, scontri, rivolte sin dal 1921, quando un ebreo venne assassinato ad Haifa, rivelando traumaticamente un’ostilità a lungo compressa. E poi seguì una scia di violenze e uccisioni, sfociate nel 1936 quasi in una guerra aperta tra arabi ed ebrei. Ancora troppo poco per non definirla realisticamente «quasi» una guerra, ma sufficiente per risvegliare l’obbligo di una soluzione che ristabilisse un criterio morale e geopolitico per (allora) due popoli senza due Stati.
Criterio difficilissimo da fissare in un’area che con lo smembramento dell’Impero ottomano aveva appena conosciuto una rivoluzione di confini e la nascita di Stati (dall’Iraq alla Siria fino alla Transgiordania, peraltro abitata da una fortissima componente palestinese) le cui frontiere erano state disegnate con una certa sbrigativa superficialità e persino arbitrarietà dalle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale. Ancora più difficile, però, perché i dirigenti di uno dei due popoli senza Stato, quello arabo-palestinese, non volevano che l’altro popolo, quello ebraico, potesse disporre di un suo Stato sovrano.
Sin dalla seconda metà degli anni Trenta, quando da parte araba si rifiutò qualsiasi trattativa proprio mentre i rapporti tra ebrei e britannici erano burrascosi, prese forma così l’asimmetria fondamentale che è alla base dell’interminabile guerra di cui ancora siamo sempre più impotenti spettatori. Non si poteva laicamente, realisticamente e diplomaticamente parlare di «confini», perché era l’idea stessa di «confine» a non essere accettata (nemmeno accettabile in linea di principio) sul versante arabo.
Fu il punto di svolta, il vero atto di nascita di questa guerra ancora non conclusa: se infatti quell’idea fosse stata accettata, se l’argomento dei «confini» fosse stato messo sul tavolo delle trattative e tutti e due i popoli avessero riconosciuto i due rispettivi Stati, la lunga storia del conflitto israelo-palestinese avrebbe preso tutta un’altra piega.
La tragedia cominciò, dunque, non già quando gli ebrei decisero di andare (insisto: di tornare) in Palestina, secondo l’assunto dell’interpretazione antisionista. Ma quando la guerra tra i due popoli divenne la condizione pressoché inevitabile giacché l’uno decise di non poter riconoscere l’esistenza dell’altro. Il quale a sua volta, se preferite obtorto collo, riconobbe quello altrui (strano atteggiamento, per una potenza coloniale). Una parte, quella ebraica, accettò il principio della spartizione. L’altra, quella arabo-palestinese, non considerò legittima la pretesa ebraica di farsi Stato. Lo identificò come una forza per sempre aliena. Un’entità aliena. «Entità sionista», come infatti i nemici di Israele si ostinano a definirne lo Stato, non meritevole nemmeno di chiamarsi Stato. «Entità», invece, meritevole solo di distruzione.
Questo è l’antefatto, ignorando il quale non si può nemmeno afferrare la chiave di uno dei capitoli più controversi di questa storia. Forse del più controverso: l’esodo nel 1948 di circa 700.000 palestinesi (secondo le stime più attendibili), la riduzione e umiliazione di quel popolo allo status ancor oggi vigente di profughi senza patria. È in corso in Israele un dibattito storiografico appassionante e doloroso, sorretto da un libero accesso alla documentazione storica e archivistica come abbiamo visto del tutto sconosciuto nei Paesi che custodiscono il verbo antisionista. Questa discussione ha messo in luce la fragilità dell’interpretazione ufficiale israeliana di quell’esodo, funzionale a un «mito di fondazione» fatalmente indotto a ridimensionare, se non addirittura a escludere, una diretta responsabilità delle forze armate di Israele, prima e d...

Indice dei contenuti

  1. cover
  2. collana
  3. frontespizio
  4. occhiello
  5. dedica
  6. I
  7. II
  8. III
  9. IV
  10. V
  11. indice