L'Assedio. Costantinopoli 1453
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L'Assedio. Costantinopoli 1453

  1. 400 pagine
  2. Italian
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L'Assedio. Costantinopoli 1453

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1453: da più di mille anni le mura di Costantinopoli proteggono la capitale del glorioso impero romano d'Oriente, ultimo avamposto della Cristianità. Ma le armate turche hanno circondato la città, i loro poderosi cannoni sono puntati contro i bastioni, e nessuno verrà in aiuto degli assediati: l'ultimo esercito crociato è stato distrutto nella pianura del Kosovo. Mentre si prepara la battaglia finale, tre figure cercano di imprimere il proprio sigillo sugli eventi: il giovane sultano Maometto, appena tornato dall'esilio e voglioso di dimostrare la sua grandezza; l'orgogliosa principessa bizantina Sofia, estremo baluardo della gloria passata; il coraggioso diplomatico e generale italiano Giovanni Longo, che ha anche ragioni molto personali per combattere fino alla morte. Dalla loro sfida, in un crescendo di complotti, doppi giochi e tradimenti tra gli assalitori turchi e nella corte imperiale, dipenderà il destino di un mondo, e un delle grandi svolte nella storia dell'umanità.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2010
ISBN
9788858613115
L'assedio
Costantinopoli 1453
Per Cate
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Ottobre 1448. Le pianure di Kosovo
Longo giaceva immobile sotto i corpi di due soldati morti. Aspettava che le ultime truppe turche fossero passate. Dopo aver annientato la crociata cristiana, ora il nemico camminava intorno a lui sul campo, affondando gli stivali nella terra inzuppata di sangue. Udiva, in lontananza, i corni dell’esercito cristiano che aveva rotto le fila dandosi alla fuga, e il contraltare delle grida e dei tamburi dei turchi lanciati all’inseguimento. Alla fine calò il silenzio, interrotto soltanto dai gemiti dei feriti e dal gracchiare stridulo dei corvi che cominciavano ad arrivare sul campo per il loro festino. Uno si posò su un cadavere vicino a Longo e si mise a becchettare la carne tenera del viso. Se c’erano i corvi, allora la battaglia era davvero finita. Aveva aspettato abbastanza.
Si alzò, indolenzito dopo tutto il tempo trascorso sul terreno freddo e bagnato. Diede un calcio al corvo che volò via, gracchiando, poi sfoderò la spada, una lunga lama sottile di acciaio color fumo. Anche se la battaglia era conclusa, Longo non aveva smesso di combattere. Scrutò l’orizzonte: vide in lontananza dei soldati nemici che facevano opera di sciacallaggio fra le migliaia di morti. Li ignorò, non erano loro la preda che lo interessava. Lui cercava un uomo ben preciso. Un turco dagli occhi grigio chiaro, con un’orribile cicatrice sul lato destro della faccia che correva dalla tempia alla mascella.
All’apice della battaglia, Longo aveva visto il suo uomo dietro le linee turche. Portava una cotta di maglia coperta da una tunica scarlatta e cavalcava sotto uno stendardo dorato dal quale pendevano tre code di cavallo: il segno distintivo di un visir. Longo aveva appena fatto in tempo a scorgerlo quando i soldati cristiani avevano rotto le righe ed era stata suonata la ritirata. Nel caos che ne era seguito, Longo aveva finto di essere morto. Da anni cercava quell’uomo, e adesso che finalmente lo aveva trovato non se lo sarebbe lasciato scappare.
Scavalcando i cadaveri, procedette a grandi passi verso l’accampamento turco. Si stava avvicinando alle prime tende quando ne uscirono cinque soldati turchi. Erano cenciosi basci-buzuk, contadini reclutati dalle campagne a difesa dell’Islam ogni volta che l’Impero ottomano entrava in guerra. Due erano armati di pesanti asce, più adatte a tagliare la legna che a combattere. Uno impugnava una spada, i restanti due reggevano rudimentali mazze di legno tempestate di chiodi acuminati. Si precipitarono verso Longo urlando Allah! Allah! Allah!, il loro grido di battaglia, ma Longo non li sentiva. Udiva soltanto il sangue pulsargli nelle orecchie mentre si teneva in posizione, pronto con lo scudo e la spada.
All’ultimo istante fece un balzo a sinistra per aggirare il gruppo in modo da dover affrontare solo un uomo. Sviò con lo scudo la mazza del primo e lo fece stramazzare con un fendente. Poi si lanciò deciso in mezzo agli altri: a distanza ravvicinata le mazze e le asce sarebbero state meno efficaci. Schivò un colpo d’ascia maldestro e ruotò di lato in un unico movimento fluido, squarciando il volto dell’attaccante per poi buttarsi sul successivo. Lasciata la spada conficcata nel petto del turco, Longo trasse un pugnale dalla cintura, si girò e lo lanciò contro il penultimo avversario, trapassandogli la gola. La mazza scivolò dalle mani dell’uomo ferito a morte, che cadde a terra in un lago di sangue.
Longo sentì sul fianco il potente impatto di una lama parzialmente neutralizzato dalla cotta. Si voltò giusto in tempo per alzare lo scudo e stornare un altro affondo, questa volta diretto al suo viso. Arretrò, disarmato, e fronteggiò l’ultimo assalitore, un turco gigantesco dalla lunga barba. L’uomo ghignò, esibendo una fila di denti giallognoli, marci. «Adesso muori, infedele!» tuonò, roteando l’arma per centrarlo al petto. Longo fece finta di voler bloccare il colpo, poi si abbassò e passò sotto l’arco disegnato dalla spada, colpendo violentemente il turco sul viso con lo scudo. L’altro barcollò all’indietro, con il sangue che gli sgorgava dal naso rotto, quindi girò sui talloni e si diede alla fuga.
Longo recuperò la spada e con una smorfia di dolore si tastò l’ammaccatura sul fianco. Era stato fortunato. Uno spadaccino più esperto lo avrebbe ucciso. Rivolse una preghiera di ringraziamento alla Vergine mentre penetrava nell’ombra della tenda più vicina e scrutava l’accampamento. I cuochi erano affaccendati attorno a dozzine di fuochi da campo per la preparazione del pasto, ma si vedevano relativamente pochi soldati e non c’era traccia della sua preda.
Aveva quasi abbandonato la speranza quando udì alle sue spalle un nitrito. Si voltò. Il visir cavalcava attraverso l’accampamento, circondato da un paio di dozzine di giannizzeri in armatura nera. Longo, pensando soltanto al suo insopprimibile bisogno di vendetta, alzò la spada e caricò. I giannizzeri lo videro arrivare e, impugnando le lance, formarono quadrato attorno al visir. Longo si gettò contro le guardie. Con lo scudo deviò una lancia e ne spazzò via un’altra prima di attaccare e stendere uno dei giannizzeri, riuscendo a evitare appena in tempo un’altra lancia. Colpì con foga fino a spezzare in due l’asta, poi s’inoltrò nella mischia e si aprì la strada verso il suo obiettivo, ruotando a destra e a sinistra e sferrando fendenti con febbrile frenesia, conquistandosi con il sangue e la morte ogni passo avanti.
Una lancia rimbalzò sullo scudo di Longo e gli si conficcò nella spalla. Ignorando il dolore, la impugnò e con uno strappo trascinò in avanti il giannizzero, quindi gli assestò un fendente facendolo stramazzare a terra. Con la coda dell’occhio colse un baluginio e per un soffio schivò un colpo che l’avrebbe decapitato. Si voltò rapido, roteando forsennatamente la spada nel tentativo di tenere a bada i giannizzeri. Le armi nemiche gli rimbalzavano sulla cotta, lui però non se ne curava. Una lancia lo ferì alla gamba. Longo cadde su un ginocchio, ma continuò a combattere, a vibrare un colpo dietro l’altro urlando di rabbia e di dolore. Ormai solo pochi metri lo separavano dal visir. La sua faccia scarna era solcata di rughe, barba e baffi si erano fatti grigi dall’ultima volta che l’aveva visto, molti anni prima, ma i suoi occhi chiari e la cicatrice che Longo gli aveva lasciato sul viso erano inconfondibili. Si trascinò verso di lui, ma un giannizzero gli si parò davanti, bloccandogli la strada. Longo stava per trafiggerlo quando qualcuno alle sue spalle gli afferrò il braccio e gli strappò la spada.
Longo alzò gli occhi e vide incombere la morte: un giannizzero con il lungo yatagan sollevato sopra la testa, una lama ricurva, nera contro il sole sfolgorante. Non provava paura, solo un’amara delusione per aver fallito. Notò un’incisione sulla lunga lama, il levigato cuoio nero del pomo, il braccio muscoloso del giannizzero… poi la sciabola iniziò la sua fatale discesa.
«Fermo!» La spada s’immobilizzò a pochi centimetri dal collo di Longo. «Lascialo a me.»
Le guardie si fecero da parte per lasciar passare un uomo imponente, alto ben oltre un metro e ottanta, che indossava l’armatura nera del giannizzero assortita al mantello bordato di pelliccia e agli stivali gialli di un generale. L’uomo disse qualche parola al visir, che girò il cavallo e si allontanò.
«Andate! Scortatelo dal sultano» ordinò il generale alla truppa mentre sfilava dal fodero uno yatagan incredibilmente lungo. «Questo lo finisco io.» Si avvicinò a Longo roteando con leggerezza l’enorme spada.
Quando gli altri giannizzeri erano ormai scomparsi alla vista il generale ringuainò l’arma e tese la mano a Longo. «Alzati» ordinò. Dopo un attimo di esitazione, lui si aggrappò alla mano e si tirò in piedi, sussultando per il dolore alla gamba ferita. Scrutò il volto dell’altro, cercando di capire. «Non mi hai dimenticato, vero?» chiese il generale.
Longo batté le palpebre scordandosi momentaneamente della ferita per rammentare dove aveva visto prima quel volto. Allora era stato un viso più giovane, più magro, privo di cicatrici. Il viso di un ragazzo. Molto tempo prima, nel campo di addestramento dei giannizzeri dimenticato da Dio, quest’uomo era stato per lui un amico. «Ulu» mormorò.
«Una volta mi hai salvato la vita» disse Ulu con un tono di urgenza nella voce. «Adesso ti ho reso il favore… ma se vuoi cavartela, devi sparire in fretta. Dirigiti a sud e prega Allah che le nostre strade non s’incrocino mai più, perché ora ho saldato il mio debito e la prossima volta che ci incontreremo sarà da nemici. Va’, adesso!» E, voltategli le spalle, si allontanò.
Longo lo guardò sparire nell’accampamento turco. Non più in preda al furore, adesso avvertiva il dolore delle ferite, accompagnato dalla frustrazione di non essere ancora riuscito a compiere la sua vendetta. Si mosse e si allontanò zoppicante, verso sud. Se si fosse affrettato, forse avrebbe raggiunto i suoi uomini. In caso contrario, sarebbe stato un lungo, solitario cammino fino a Costantinopoli.
PARTE PRIMA
1
Novembre 1448. Costantinopoli
Sofia Dragases, principessa dell’Impero Romano d’Oriente, stava percorrendo i bui corridoi del palazzo dell’imperatore a Costantinopoli, affrettandosi per stare dietro a Giovanni Dalmata, il comandante della guardia imperiale. Passando accanto a una finestra, gettò uno sguardo all’esterno: sulle acque del porto la luna piena incombeva maestosa nel cielo notturno. Mancavano ancora diverse ore all’alba. Giovanni VIII era ammalato da settimane e le sue condizioni dovevano essere gravissime perché Sofia venisse convocata a un’ora così tarda.
L’anticamera degli appartamenti reali era affollata. Gran parte dei presenti erano inginocchiati sul duro pavimento di pietra e mormoravano preghiere per la salute dell’imperatore. Le pronunciavano in greco, perché, anche se gli abitanti di Costantinopoli si consideravano ancora Romani, da secoli il greco aveva sostituito il latino come lingua dell’impero. Mentre passava in...

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  1. Cover
  2. Collana
  3. Frontespizio
  4. L'ASSEDIO. COSTANTINOPOLI 1453
  5. Indice