Stil novo
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  1. 183 pagine
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Chiedono bellezza i cittadini globali del XXI secolo. Chiedono emozioni e un progetto nel quale credere. Chiedono di essere coinvolti, non ammaestrati con tre slide e due battute. C'è un gigantesco spazio politico che si apre. Ora.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858649541
Stil novo
Per Alessia,
che mi piace pensare ancora
in squadra con noi.
«La bellezza non fa le rivoluzioni,
ma viene il giorno
in cui le rivoluzioni hanno bisogno di lei.»
Albert Camus
Non esiste bellezza senza scopo
Questo strano libro è nato una mattina come tante. Il panorama che si può ammirare dalla riva sinistra dell’Arno, nell’inverno illuminato da un timido sole, è per me la cartolina più bella di Firenze. I monumenti sono lì, fedeli, a portata di clic per i pochi turisti infreddoliti di gennaio. Quasi rassicuranti nella loro bellezza. Mentre torno a stupirmi di tanta meraviglia, improvviso mi assale un dubbio: ma serve ancora la bellezza oggi?
Tutti i media, dal quotidiano locale fino al blog globale, insistono sulla crisi finanziaria. Il cittadino medio, che fino a poco tempo fa ignorava il significato di parole come spread, rating, debito pubblico, oramai ne conversa con disinvoltura. Il futuro non sembra più nelle nostre mani. Dipende da una cancelliera tedesca, da un banchiere europeo, da un investitore americano, da un riccone coreano, da un colosso cinese. Un tempo esisteva il popolo sovrano: oggi di sovrano c’è solo il debito. O al massimo, il fondo cui rifilare il tuo debito.
Un curioso miscuglio di inquietudine e rabbia si impadronisce di me quando penso che tre agenzie di rating decidono il destino di comunità, famiglie, interi Paesi.
E mi girano le scatole. Sono le stesse agenzie che solo qualche mese fa hanno portato al tracollo l’intero sistema finanziario mondiale, continuando a incoraggiare gli investimenti nelle banche americane già fallite. Adesso però ci fanno la morale, facendo scontare alle famiglie le responsabilità delle classi dirigenti.
La politica, del resto, ha le sue colpe. I leader si guardano bene dal rischiare: non spingono lo sguardo verso il futuro, ma al massimo fino alle prossime elezioni, preoccupati solo per la propria poltrona.
Goldman Sachs ha realizzato uno studio per cui nel 2050 nessun Paese dell’euro sarà nella top ten delle economie del pianeta? Non importa. Basta che nessuno ne parli e i cittadini non se ne accorgano. È come quando al computer un avviso ti consiglia di installare l’antivirus e tu schiacci il tasto «ricordamelo più tardi».
C’è chi pensa che si possano rinviare i problemi all’infinito, tanto saremo sempre in tempo. Rassegnati all’impotenza, i politici rinunciano all’idea forte, alla visione di ampio respiro. Vivono alla giornata, senza mettere mano, una volta per tutte, alle regole del gioco. Poi, umiliati e sconfitti, lasciano spazio ai tecnici, chiamati a ricostruire sulle macerie della loro pavidità. E nel frattempo sconosciuti signor nessuno, di fronte al proprio monitor, continuano a decidere per tutti. Anche per te, anche per me.
E che si può dire a questi? Che la bellezza salverà il mondo? Gli mandiamo una cartolina del Ponte Vecchio sperando che intenerisca il loro animo? A che serve insomma Firenze? Il discorso vale ovviamente anche per le altre città, quello scrigno prezioso di relazioni umane, di vicende esemplari, di monumenti artistici, di ingegni creativi che fanno del nostro Paese qualcosa di più che un semplice ammasso di codici fiscali. Non possiamo arrenderci alla tecnocrazia. Io credo che la politica debba adottare un nuovo stile. Uno stile che riporti la passione al centro, che sappia emozionare, che riparta dalla bellezza. Perché mi hanno insegnato che la bellezza non può essere inutile. Non esiste bellezza senza scopo. Provo a domandarmi, allora, cosa possa insegnare a me oggi. Sono il sindaco di una città famosa in tutto il mondo per le sue opere d’arte. Ma quello che mi colpisce e mi rapisce di più è la stramba storia della mia città.
La verità è che i fiorentini hanno realizzato un miracolo chiamato Rinascimento, investendo bene quella montagna di soldi che erano stati capaci di guadagnare. Ecco il primo paradosso: questa bellezza non viene dal caso. Non deriva dalla vittoria al Superenalotto del destino. Nasce dai quattrini, dai soldi, dai prodotti finanziari dell’epoca. Nasce dai fiorini di commercianti e imprenditori, di banchieri e politici. Nasce dalla capacità di innovare di tante persone: certo, tra loro ci saranno stati anche molti corrotti, filibustieri, furbacchioni e ladri matricolati. Ma i fiorentini hanno creato prodotti finanziari che sono serviti a qualcosa. Con quei soldi hanno costruito orfanotrofi e ospedali. Hanno dato lavoro agli artisti ma si sono preoccupati di accogliere i bisognosi. Hanno emozionato il cuore con la letteratura e con il teatro. Hanno incoraggiato le imprese, prestando soldi ma anche accompagnando la sfida all’estero: altro che grandi progetti di internazionalizzazione come vanno di moda adesso. Si decideva e si faceva, insieme. Era un altro mondo, intendiamoci. Allora le banche salvavano gli Stati, come accadde ad alcune famiglie fiorentine con la corona inglese. Oggi invece succede il contrario: gli Stati salvano le banche. E dopo averle salvate neanche si sognano di mettere in discussione gli stipendi vergognosi e ultramilionari di quegli stessi manager responsabili dei fallimenti. Fanno i buchi e spariscono, ma riemergono in tempo per incassare il premio di produttività. Come quella generazione di politici che, dopo aver prodotto la voragine chiamata debito pubblico, pensa di ripresentarsi alle prossime elezioni, facendo finta di niente.
Dalla lingua al telefono, dal calcio al teatro, dai bambini al ruolo delle donne nella società, Firenze regala sorprese. Forse troverete eccessivi alcuni paralleli. Vi meraviglierà scoprire che il catasto fiorentino del 1427 aveva già inventato la riforma fiscale di cui avremmo bisogno oggi; scaricare tutto, scaricare tutti era possibile prima ancora che fosse scoperta l’America.
Forse non avete mai pensato al granduca Cosimo come a un rottamatore ante litteram o ai Medici come a banchieri favorevoli alla patrimoniale. Considerare Dante un modello per la sinistra probabilmente vi stupirà, e di sicuro stupirebbe lui. Qualcuno riterrà fuori luogo il paragone tra il «tecnico» Machiavelli e i tecnici alla Mario Monti, tra la burocrazia ai tempi del Vasari e quella odierna o ancora tra l’Umanesimo e la rivoluzione digitale proposta da Steve Jobs. I puristi si scandalizzeranno. E naturalmente noi ce ne faremo una ragione.
Non è un libro di storia, ovviamente. E del resto non ci basta il passato. Il mio intento è capire infatti se questa città, così unica nel panorama della storia mondiale, può dirmi qualcosa sui nostri tempi. Non credo che usciremo dalle difficoltà solo con una manovra finanziaria. Certo, la questione economica è decisiva. E ancora più decisivo – per i mesi che verranno – è il problema dell’accesso al credito, per famiglie e aziende. Tuttavia abbiamo bisogno anche di altro, qualcosa di più importante. Pensiamoci, che cosa ci tiene insieme, ci fa sognare, ci lega gli uni agli altri? Che cosa ci rende un popolo e non solo un insieme di persone? Che cosa ci costituisce patria della bellezza e non regno della volgarità? C’è una dimensione estetica della bellezza che si afferma in tutta la sua forza a Firenze. Impossibile non restarne colpiti. Tuttavia è la rilevanza etica che la bellezza assume ad aver reso questa terra un luogo speciale nel corso dei secoli. Ci sono monumenti e capolavori artistici. Ma non sono mai slegati dalla dimensione sociale, si tratti di una biblioteca o di un orfanotrofio, di un ospedale o di una chiesa. Non sono opere d’arte fini a se stesse: sono offerte ai cittadini perché possano usarle, sono pensate per la vita quotidiana. Perché, secondo i Medici, la qualità dei governanti si misura dalla cultura dei cittadini.
Il Rinascimento si sviluppa a Firenze anche perché i trovatelli degli Innocenti ricevono la stessa educazione dei figli delle famiglie ricche, perché esiste una cultura matematica da far impallidire le statistiche di oggi, perché c’è un riconoscimento del valore del capitale umano che non ha eguali nell’Europa del tempo. Firenze non diventa bella in quegli anni grazie a un’intelligente opera cosmetica. Diventa bella, bellissima perché è viva e investe tutto ciò che può sul talento. A Firenze prevale chi sa, non chi ha: e non è solo un gioco di consonanti ma un profondo cambio di prospettiva. Questo è il vero capolavoro della Firenze dell’epoca: la possibilità che offre ai cittadini, più che le pale d’altare o gli strabilianti affreschi.
Inutile dire come questo messaggio sia molto attuale. Il primo dramma dell’Italia non è il debito pubblico ma lo spreco di risorse umane. Penso ai quasi due milioni di bambini italiani che partono svantaggiati nella vita perché questo Paese non garantisce loro l’uguaglianza sostanziale prescritta dalla nostra Costituzione e li penalizza in ragione della loro nascita, non dei loro limiti. Penso ai giovani formati, magari cresciuti con il mito della laurea, che ottenuto il foglio di carta si ritrovano a fare tutt’altro. Che spreco di tempo, di denaro, di passione! Penso ai salari, i più bassi d’Europa. Un amico imprenditore che ha un’azienda con sede a Firenze e in Germania mi spiegava che nei due Paesi i lavoratori svolgono gli stessi compiti, e li svolgono bene. L’operaio italiano è qualificato, capace. Per lui l’imprenditore paga tremila euro al mese, ma lui se ne mette in tasca meno della metà. Per il tedesco paga cinquemila euro e lui se ne mette in tasca più di tremila. Qualcosa vorrà dire, no?
In questa strana stagione della vita politica italiana, provo dunque a riflettere su Firenze. Anche sui fiorentini, certo: attaccabrighe e polemici, capaci di farsi spellare per una battuta. Ma innamorati della propria terra e profondamente appassionati delle proprie radici. Del resto se si vuol governare un territorio gli si deve voler bene, come si vuol bene agli amici. Altrimenti si rischia di rimanere semplicemente un grigio funzionario della quotidianità.
Voler bene alla terra che si governa, dunque, è la prima regola del gioco. Ma nonostante questo, scrivere di Firenze è difficile. Forse arrogante. Per qualcuno persino inutile. Poche parole sono abusate come «una terra unica al mondo». Però, dico, trovatemela voi un’altra città che abbia dato i natali a tanti artisti e pensatori, con i suoi pregi e con le sue meraviglie. E pure con i suoi difetti, che non sono pochi, anche se i fiorentini, talvolta, fingono di non ricordarlo.
Scrivo per me, è ovvio. Per rinnovare il senso di ciò che faccio quotidianamente. Fare politica non è mai facile, e in questo periodo a maggior ragione. Ma occuparsi di una città come Firenze è un’impresa eccezionale e ogni giorno lo stupore si rinnova. Scrivo per la mia squadra, perché si ricordi sempre che abbiamo un’occasione straordinaria e irripetibile: possiamo incidere un piccolo segno in una storia molto più grande di noi. Considero un dono la possibilità di prendersi cura di questo luogo: dobbiamo essere animati da una grande umiltà ma anche dalla responsabilità e dalla consapevolezza del nostro ruolo. Scrivo per i non fiorentini, quelli che già conoscono Firenze e quelli che stanno pensando di venirci per la prima volta. Senza «i forestieri» questa città non sarebbe quella che è. Può sembrare un paradosso ma è così: il senso dell’identità di questa terra ci è stato insegnato soprattutto dagli stranieri, non dai cittadini. E scrivo per i fiorentini, perché possano essere sempre più consapevoli che questa città non è un set per turisti ma una miniera di sensazioni ed emozioni vive, presenti, radicate. Ma in verità scrivo soprattutto per i miei figli, perché sappiano qual è il motivo di tanta passione, qual è la causa di tante serate trascorse lontano da loro. Un amore non si giustifica, ma si racconta. O, almeno, ci si può provare.
Firenze incanta e sorprende: ogni angolo nasconde una storia speciale. Anelli di secoli sono tenuti insieme dalle incredibili vicende di personaggi profondamente diversi l’uno dall’altro ma accomunati da un tratto di genialità. Alcune tra le più grandi menti della storia, tutte insieme, nello stesso luogo e nello stesso momento storico. Cos’è successo? Qual è il segreto? In cosa consiste la magica alchimia che ha prodotto un risultato del genere? Camminando per Firenze sembra quasi di calpestare l’eternità.
Ma Firenze fa anche arrabbiare, specie quando la volgarità e la mediocrità tagliano la strada alla bellezza: anche questa città, patria dell’arte e della cultura, si fa spesso raggiungere dalla mucillagine del banale.
Sarei felice se questo libro risvegliasse in voi semplicemente la voglia di tornare a camminare a piedi, ascoltare solo il ritmo dei vostri passi nel cuore della mia città. Per stupirvi e commuovervi, per riconoscervi cittadini del mondo. Il viaggio a Firenze, infatti, non è semplicemente la tappa di un tour obbligato: «Ma come? Non sei mai stato a Firenze?». Deve essere soprattutto una provocazione, una riflessione per avvertire il desiderio di tornare a casa, la vostra, e di riprendere il proprio cammino, ricchi di un’emozione nuova. Ma anche pieni di domande nuove. Partiamo?
1
Farinata e la politica di oggi
Agli inizi del Duecento Firenze non era ancora una delle capitali del mondo e il numero delle sue torri già lasciava interdetti: oltre centocinquanta nella prima cerchia di mura, alte fino a settantacinque metri.
Una sorta di Manhattan ante litteram? Sì e no. Perché è vero che Firenze era la capitale mondiale dell’economia. E in una di queste torri, la torre della Zecca, visibile ancora oggi, si coniava il fiorino, il dollaro dell’epoca. Ma è anche vero che quelle torri venivano erette per un’esigenza di sicurezza.
Le torri erano infatti figlie della paura, simbolo di una città sospettosa, in cui gli uni e gli altri si guardavano in cagnesco: piccole fortezze più che arditi progetti architettonici. E consentivano di difendersi. Non a caso, quando le istituzioni cittadine diventano forti, il primo gesto che impongono è lo scapitozzamento, cioè l’abbattimento di diversi piani delle torri familiari. Perché la torre respinge l’idea di comunità in favore del clan.
Ma se si vuole provare a capire Firenze occorre abbracciarla dall’alto per ammirarla nella sua interezza e non restare ancorati a una visione parziale. Ci sono molte possibilità: la torre di San Niccolò, per esempio, appena riaperta al pubblico, con i suoi centosessanta gradini consente non solo di godere una visuale mozzafiato ma anche di risparmiare un paio di sedute di palestra. Altri scelgono invece di salire sulla collina di Fiesole o ancora a Villa Bardini, con il suo splendido giardino.
Io personalmente ho sempre preferito l’altra vista, quella che si apprezza dalla riva sinistra dell’Arno alle pendici delle colline di San Miniato e Arcetri, e la prospettiva che si ammira da piazzale Michelangelo.
Ci si arriva a piedi, dalle rampe, fiancheggiando il Lungarno Cellini e poi inerpicandosi sulla collina lungo una via panoramica: di solito i turisti ci vengono in bus, ma non sanno cosa si perdono. L’ha progettato nel XIX secolo un architetto fondamentale nella storia di Firenze, Giuseppe Poggi. Adesso è come se fosse la terrazza di casa.
Poggi ha lasciato un segno profondo nella città. È stato lui ad abbattere le mura, lasciando solo qualche porta, qualche piccolo tratto e realizzando un anello di viali sul modello dei boulevards parigini. Accidenti a lui, mi verrebbe da dire; quanto sarebbe scenografica una città come Firenze ancora circondata dalle vecchie mura? Ma quando arrivano gli anni Sessanta dell’Ottocento, il re Vittorio Emanuele II lascia Torino per trasferirsi nella nuova capitale, a Palazzo Pitti, e Firenze pensa di doversi aprire alla modernità. Peccato che il Regno si sia fermato qui solo sei anni e ancora oggi qualcuno rimpianga quella scelta: al posto delle mura, infatti, c’è un muro di macchine che usano i viali come la circonvallazione che Firenze non ha mai avuto.
Da quassù non mancano piccole nicchie da cui godere uno scorcio diverso dal solito. Per me il posto più...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Stil novo
  4. Cronologia
  5. Indice