DALLA BARBARIE ALLA BARBARIE
Prometeo, il creatore della civiltà
È una tragedia di sofferenze esibite e compatite, il Prometeo incatenato attribuito a Eschilo (ca. 525-456 a.C.). Una tragedia sommamente statica nella quale la figura giganteggiante del protagonista – immobile alla propria gogna rupestre – raduna intorno a sé gli impotenti spettatori della sua sofferenza e della sua pazienza. Fin dal prologo, quando il prigioniero è incatenato alla rupe dai tetri agenti del potere divino – Kratos e Bia, il «Potere», anzi, lo «Strapotere», e la «Violenza» – il dio Efesto non può che piangere ed esprimere la propria pietà. Prometeo è il dio buono, è il dio “filantropo” per eccellenza – «caro Prometeo», lo apostroferà con calore un personaggio di Aristofane (Gli uccelli, 1504) – ma è anche il dio perennemente sospeso fra antiche e nuove divinità, fra passato e futuro, fra cielo e terra. Il suo confino nell’immaginaria Scizia, al termine del mondo conosciuto, eterna in una perpetua posa scenica il suo ruolo “liminale” di mediatore. Incatenato all’esordio della tragedia, Prometeo rimarrà immobile per secoli e secoli di incessante fortuna letteraria.
POTERE Siamo all’ultimo margine del mondo:
questo è il sentiero estremo della Scizia, deserto senza
[gente.
È il tuo dovere, Efesto: abbi a cuore gli incarichi che tuo
padre ti ha imposto. Incatenare lui (indica Prometeo)
– che è capace di tutto – alle rupi scoscese sull’abisso,
nei tuoi ceppi d’acciaio, fatti per non spezzarsi.
Perché è lui che ha rubato la tua gemma, lo splendore
[del fuoco,
strumento di ogni arte. Ne ha fatto dono agli uomini. E
[agli dèi
ora deve pagare questa colpa.
Imparerà, così, a gradire il regno
assoluto di Zeus. E smetterà di amare tanto gli uomini.
EFESTO Potere, e tu, Violenza, per quanto vi riguarda è
assolto il compito
che Zeus vi ha dato. Più niente ormai vi obbliga a restare.
Ma io non ho il coraggio di costringere,
con la forza, a una gola di burrasche,
un dio della mia razza. Eppure devo. Devo averne il
[coraggio: le parole
di un padre non è facile ignorarle.
(A Prometeo) Figlio di Temide che pensa il giusto,
[profondissimo figlio,
io non vorrei, tu non vorresti, eppure
ti inchioderò in catene indissolubili
a questo monte dove non c’è vita. Qui né voce né volto
[umano mai
potrai vedere. Immobile, arso al puro
fuoco del sole, sentirai sfiorire
la tua pelle. E la notte, velo d’astri,
calerà così cara su di te, nasconderà la luce:
poi verrà ancora il sole, disperderà la brina del mattino.
Il peso di un dolore sempre vivo
ti sfinirà, senza cessare mai. Chi può salvarti non è
[ancora nato.
E di tutto il tuo amore per gli uomini
questo è il frutto che hai tratto. Sei un dio, ma degli dèi non
[hai temuto
la collera; e dei loro privilegi, contro giustizia, hai
[fatto dono agli uomini.
In cambio starai qui, di guardia a questa rupe dolorosa,
costretto in piedi, insonne, senza piegare mai le tue
[ginocchia.
Quanti lamenti, quanti pianti, tu,
dovrai gridare. Inutili: perché il cuore di Zeus non sente
[suppliche.
Chi da poco comanda è sempre duro.
PO. E dunque, cosa aspetti? Perdi tempo? Perché?
Il dio più odioso a tutti gli altri dèi, come puoi non
[odiarlo?
Lui ha sottratto il tuo bene e ti ha tradito:
[l’ha consegnato
[agli uomini.
EF. È del mio sangue. E lo conosco bene. Questo mi fa
[paura.
[…]
PO. Lo ammetto. Ma disobbedire agli ordini
del padre, è mai possibile? Non ti fa più paura?
EF. Eccoti come sei: non hai pietà. Sei pronto a fare tutto.
PO. Certo, perché compiangerlo non giova.
Non sprecare fatica in cose inutili.
EF. Arte delle mie mani maledetta!
PO. Ma perché maledire? La tua arte non c’entra
[proprio niente
– lascia che te lo dica – nel dolore che vedi.
EF. E, tuttavia, fosse toccata ad altri.
PO. Ma tutto pesa, al mondo, se non essere il capo
[degli dèi:
perché nessuno, a parte Zeus, è libero.
EF. Quel che vedo mi basta per capirlo. Non so cosa
[risponderti.
[…]
EF. (terminato il lavoro). Andiamocene via. Tutto il suo
[corpo adesso è imprigionato.
PO. (A Prometeo). Ora sta’ qui e fa’ pure l’insolente.
[Saccheggia i privilegi
che spettano agli dèi, fanne dono a chi ha vita così breve.
[Di’, credi che potranno
liberarti, gli uomini, da tante
sofferenze? Prometeo, il Preveggente! È così che ti
[chiamano gli dèi.
Nome falso: ora è a te che servirebbe, la preveggenza,
se ti vuoi liberare, in qualche modo, da tanta arte.
(Eschilo [?], Prometeo incatenato, 1-51, 81-87; trad. di F. Condello)
La solitudine di Prometeo
«La desolazione è cosa delicata», dice il Prometeo di Shelley. E desolazione e solitudine sono caratteristiche permanenti del Prometeo sia antico che moderno: dio punito e vessato dagli dèi, dio abbandonato da quegli uomini che egli ha salvato dalla distruzione ma che non sono in grado di aiutarlo, Prometeo giganteggia solitario, legato alla sua rupe. Una rupe spoglia, in un luogo abrotos, «senza uomini» (v. 2), che nell’immaginazione dei moderni finirà per fare tutt’uno con il corpo del Titano, ridotto a una «forma / grigia addossata alla montagna», quando è ormai «cessato il canto / dell’ultima oceanina» (C. Pavese, All’alta rupe sul mare, [1928]). Nel Prometeo antico, a dire il vero, la solitudine del Titano è alquanto affollata: e l’intera tragedia altro non è che una protratta sequenza di visite rese al prigioniero. Che nel suo primo monologo, tuttavia, contempla affannato e insieme orgoglioso il deserto che lo circonda. Nella sua apostrofe a cielo, mare, terra e sole – i quattro elementi, commentavano i glossatori antichi – si riassume una visione cosmica e insieme profondamente umana.
PROMETEO Luce immensa del cielo, ali del vento
velocissime, origini dei fiumi,
sorridere infinito delle onde,
terra che crei ogni cosa: è voi che invoco, e l’orbita
[del sole che sa tutto.
Io sono un dio, e vedete quanto soffro, per mano di
[altri dèi.
Sì, guardate le pene che mi straziano,
che per mille, per mille
anni sopporterò: questo è l’indegno
carcere che per me ha ideato il nuovo
signore degli dèi. E io grido, grido!
Piango per ciò che sto soffrendo e ancora
dovrò soffrire. Verrà mai, è previsto,
un termine per tutto il mio dolore? Ma cosa sto dicendo?
Io so già tutto:
conosco esattamente il mio futuro.
Nessun male mi arriverà inatteso. Il destino deciso
va sopportato meglio che si può, sapendo che la forza
della necessità non si può vincere.
Ma tutto ciò che soffro io non riesco
né a tacere né a dire. Ho offerto doni agli uomini: e per
[questo
porto le mie catene, disgraziato.
Io cerco, io rubo la furtiva fonte
del fuoco, la racchiudo in una canna:
il fuoco che per gli uomini
si è mostrato maestro di ogni arte,
infinita risorsa. È per questo peccato che ora pago,
qui, sospeso, inchiodato a questi ceppi.
(Grida) E ora che voce arriva? Che invisibile
profumo? Dèi? Mortali? Oppure entrambi?
Viene qualcuno fino a questa estrema
terra? Vuole vedere quanto soffro?
O che altro vuole? Eccomi qui, guardate:
un prigioniero, un dio che soffre, un dio
che è nemico di Zeus: mi odiano tutti
gli dèi che adesso sfilano alla corte
di Zeus, perché avrei amato troppo gli uomini.
Ma cos’è questo fremere dell’aria,
come di uccelli, che ora sento? Sibila
il cielo in fitti battiti di ali:
tutto, d...