Il gioco serio dell'arte
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Il gioco serio dell'arte

  1. 160 pagine
  2. Italian
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Il gioco serio dell'arte

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Il Gioco serio dell'Arte, quasi un ossimoro che traduce in parole il prodigioso stare insieme delle persone e delle cose, magistralmente rappresentato nell'opera d'arte. Ma che cos'è, il gioco serio dell'arte? La domanda contiene già in s? la risposta: è un'interrogazione, intesa come relazione misteriosa tra l'arte e l'uomo. Ed è un viaggio che mette in scena la nostra identità di fronte a otto capolavori, indagati insieme a filosofi e intellettuali di spicco. Per scoprire che l'opera non è solo strumento di conoscenza del mondo e della storia, ma anche di noi spettatori coinvolti. Con contributi di: Vittorino Andreoli, Remo Bodei, Francesca Brezzi, Maurizio Calvesi, Piero Coda, Giulio Giorello, Predrag Matvejevic, Quirino Principe

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858648582
Argomento
Arte
Categoria
Arte generale

INDICE

La verità e la finzione
di Massimiliano Finazzer Flory

F come Fortuna
dialogo con Giulio Giorello

S come Sacrificio
dialogo con Remo Bodei

D come Donna
dialogo con Francesca Brezzi

T come Testa
dialogo con Maurizio Calvesi

P come Padre
dialogo con Vittorino Andreoli

R come Religioni
dialogo con Predrag Matvejević

M come Morte
dialogo con Piero Coda

A come Ascolto
dialogo con Quirino Principe

Note bio-bibliografiche

I dialoghi di questa pubblicazione nascono dagli incontri della rassegna culturale Il Gioco serio dell’Arte e si propongono di restituire la spontaneità e le suggestioni culturali che hanno animato e caratterizzato la manifestazione che si è svolta presso la Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Barberini a Roma nella stagione 2006-2007.
F come Fortuna
La Fortuna è stata oggetto di diverse interpretazioni nel corso dei secoli. Se nel Medioevo essa viene spesso raffigurata come una donna dal grande mantello, simile a una vela gonfiata dal vento, o dai lunghi capelli, che possono essere afferrati, o attraverso l’immagine di una sfera, a indicare la sua instabilità o inafferrabilità, il Rinascimento porrà invece l’accento sulle possibilità dell’uomo di essere artefice del proprio destino e di avere la Fortuna come comes, “amica”. In epoca barocca, la Fortuna acquisisce un aspetto meno rassicurante: lungi dall’essere comes per l’uomo, essa può anzi decretarne la rovina.
L’Allegoria della Fortuna di Bernardino Mei, un fantasioso pittore senese, molto portato per le raffigurazioni allegoriche, costituisce in qualche modo la “summa” teologica della Fortuna nelle sue diverse raffigurazioni. Vi troviamo l’immagine canonica della donna con lunghi capelli e l’ampio mantello, che poggia i piedi su una ruota che gira. Ancor più tipica è la vecchia girata di spalle, che rappresenta la Fortuna nella sua accezione di occasio, occasione, raffigurata con un ampio ciuffo di capelli sul davanti e calva dietro, per dare l’idea della fortuità: se l’uomo non è desto ad acciuffarla, essa si volta, e l’occasione è sfumata.
Il quadro contiene inoltre una lezione morale. Le due Fortune assistono sbalordite al gesto del filosofo cinico Cratete che, aiutato dalla Filosofia, rinuncia ai loro favori e butta in acqua gioielli e ricchezze. Il riferimento è a un episodio della vita di Cratete raccontato da Diogene Laerzio. Nel Seicento, nella Roma dello splendore barocco, la scelta di rappresentare questo aneddoto appare piuttosto coraggiosa e in controtendenza, e potrebbe perfino essere interpretata come espressione dell’indignazione diffusa per il nepotismo di molti papi. In realtà, proprio durante il pontificato di papa Alessandro VII Chigi, nell’ambiente che ruotava attorno al cardinal Flavio Chigi si avviarono meditazioni di ispirazione stoica sul valore di una vita austera e ritirata. Ed è nella sala principale dell’attuale Palazzo Odescalchi, dove il cardinale abitava, che questo quadro si trovava.
— Angela Negro
Bernardino Mei (1612-1676), Allegoria della Fortuna, 1660-1670, olio su tela, cm 179 × 271
Bernardino Mei (1612-1676), Allegoria della Fortuna, 1660-1670, olio su tela, cm 179 × 271
Questo quadro rientra tra le molte opere attualmente conservate nel deposito interno, che si potranno ammirare a Palazzo Barberini quando saranno aperte le sale dedicate al Barocco e alla pittura del Seicento “caravaggesco”. Il Museo possiede infatti la più consistente collezione di opere di caravaggeschi: opere di Caravaggio, ma anche di tutti quei pittori che si rifanno, per vari aspetti, al nuovo linguaggio pittorico da lui inaugurato, un linguaggio violento, contrastato, in cui la luce gioca un ruolo importante e la rappresentazione della realtà è privilegiata rispetto alla pittura ideale di artisti come Guido Reni o Domenichino.
La tela di Orazio Riminaldi è stata acquistata dallo Stato e fa parte di una serie di quadri, tutti delle stesse dimensioni, che si trovavano a decorare la galleria di Palazzo Mattei, nella zona del Ghetto, ed erano stati commissionati da Asdrubale Mattei, personaggio di spicco della cultura romana aperta, “illuminata”, del tempo. Ne faceva parte, tra gli altri, il cardinale Borromeo, particolarmente legato alla cultura caravaggesca, che conduceva una vita di grande rigore, in una prassi quotidiana fatta di severità e privazioni, così come il cardinal Sfondrato, i Mattei, i Giustiniani, il giovane Barberini, che privilegiavano uno stile di vita “controriformato” propugnato in prima persona. Saranno loro a lanciare il caravaggismo e l’amore per la pittura di paesaggio, nella convinzione che la contemplazione di quest’ultima possa muovere alla meditazione e al silenzio.
La figura di Isacco raffigurata in questa tela è significativa, soprattutto se confrontata alle altre rappresentazioni pittoriche dello stesso episodio. A differenza della violenza drammatica del Sacrificio di Isacco di Caravaggio, il quadro di Orazio Riminaldi ritrae un Isacco che sembra non pensare alla morte come a un evento possibile e imminente. E il braccio del padre quasi lo abbraccia, mentre gli tiene la testa. È un modo completamente diverso di rappresentare l’episodio biblico rispetto a quello di Rembrandt e dello stesso Caravaggio. Dalla tela si sprigiona un senso di sospensione e di incredulità, come se i suoi protagonisti non potessero credere a quello che sta per avvenire e che poi, per fortuna, non avviene. Uno sguardo molto intenso unisce l’angelo, che arriva dall’alto a fermare il gesto, e Abramo, che è raffigurato secondo un codice pienamente caravaggesco, col volto coperto di rughe, il naso arrossato e un’aria da vecchio incanutito. Nell’angelo trova espressione, invece, un sentimento più lirico, che è in parte dovuto al periodo in cui la tela fu dipinta, anni in cui il caravaggismo aveva iniziato a stemperarsi e ad assumere toni più teneri. Orazio Riminaldi è del resto originario di Pisa e gli artisti toscani presentano tradizionalmente una componente di maggiore grazia, di minor violenza espressiva rispetto alla vena lombarda e nordica, che sentiamo scorrere in Caravaggio.
— Anna Lo Bianco
S come Sacrificio
Orazio Riminaldi (1593-1630), Sacrificio di Isacco 1625 ca., olio su tela, cm 149 × 229
Orazio Riminaldi (1593-1630), Sacrificio di Isacco 1625 ca., olio su tela, cm 149 × 229
La tela raffigurante Beatrice Cenci e attribuita a Guido Reni ha avuto nei secoli un impatto molto forte sul sentimento comune, fino a diventare un’immagine quasi mitica, come è del resto successo a tante altre opere artistiche, spesso in virtù della grandezza dell’artista che le aveva prodotte, ma non solo. Il meccanismo che ha reso celebre quest’immagine è tuttavia molto più sottile, e allo stesso tempo decisamente appassionante: nonostante Guido Reni sia stato un artista famoso, tanto da essere designato in certe epoche, come nell’Ottocento, dal solo nome, “Guido”, non è la sua fama che può spiegare il successo di questo ritratto.
Il successo dell’opera è tanto più stupefacente dal momento che si tratta di un quadro di piccole dimensioni, non solenne, realizzato con una gamma cromatica piuttosto limitata. Il colore della tela è anzi per certi versi poverissimo, e dominato dal bianco: candido il turbante, così come la tunica che avvolge la figura, molto neutro il fondo, e bianco trasparente anche l’incarnato naturalissimo del volto, come solo Reni e i pittori tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento sapevano rendere. Questo bianco è, del resto, già di per sé un indizio, che suggerisce l’idea della purezza, del sacrificio. Il bianco significa anche candore dell’anima, candore degli intenti. È un’immagine estremamente sobria, che pure si è imposta – forse proprio per la storia a cui rimanda – in modo prepotente, esercitando un’attrazione particolare su quel periodo meraviglioso e cruciale che è il Romanticismo e su tutto l’Ottocento.
La tela è stata restaurata in tempi recenti. Il restauro ha rivelato la mano di un grande artista, che si muove con sicurezza, creando panneggi ampi, sicuri, morbidi, e ha portato alla luce anche alcuni piccoli “pentimenti”, segno che l’autore ha la capacità di abbozzare, guardare, e correggere. Non si tratta quindi di un pittore che copia, ma di un autore sicuro e inventivo. E la qualità del dipinto è molto alta, sia dal punto di vista del disegno, sia dal punto di vista della stesura del colore.
Il dipinto è stato riferito, nonostante i dubbi della filologia attributiva, a Guido Reni. Molto probabilmente non lo è, ma si tratta, in ogni caso, di un pittore vicinissimo al Reni. È stato fatto anche il nome di Elisabetta Sirani, una delle sue migliori allieve. Un’ipotesi affascinante, poiché si tratterebbe di una donna – molto bella, secondo le fonti – che dipinge un’altra donna, e che può quindi aver messo nell’esecuzione una certa dose di identificazione nel personaggio ritratto. Si spiegherebbe forse ancora meglio, così, la componente di esaltazione femminile che avvertiamo nel dipinto, nella dignità senza lacrime del volto e in quel movimento con cui la giovane donna si gira verso l’osservatore, quasi a proferire un’ultima frase, come avviene ai condannati sul patibolo. Possiamo immaginare infinite frasi, dentro al silenzio e alla sospensione in cui il quadro ci lascia.
— Anna Lo Bianco
D come Donna
attr. Guido Reni (1575-1642), Beatrice Cenci, 1599, olio su tela, cm 64,5 × 48
attr. Guido Reni (1575-1642), Beatrice Cenci, 1599, olio su tela, cm 64,5 × 48
Alla Galleria Nazionale è conservata una delle più celebri opere di Caravaggio, Giuditta che taglia la testa a Oloferne. Il pittore si ispira, rimanendo molto fedele al testo, al racconto della Bibbia (Libro di Giuditta, 13, 7 10), in cui è protagonista la giovane vedova ebrea che salvò il suo popolo, minacciato dagli Assiri, ingannando il loro generale con allettanti promesse, per poi introdursi nella sua tenda e ucciderlo.
Caravaggio dipinge un’immagine di terribile efficacia. È la rappresentazione di un attimo, come appare dall’orrendo schizzo di sangue che ancora non ha imbrattato il letto su cui giace il generale. Giuditta, dopo aver afferrato la chioma di Oloferne e invocato Dio per ricevere da lui la forza necessaria, ha appena vibrato il colpo di spada e affonda la lama per recidere la testa. Oloferne, coricatosi ubriaco e sorpreso dal colpo mortale, tenta di girarsi col busto, ma il suo movimento non suggerisce nessun segno di reazione. Lo sguardo è allucinato dalla sorpresa e annaspante; Caravaggio sembra illusivamente suggerirne l’urlo strozzato.
L’episodio biblico è tradizionalmente allegorico della vittoria del bene sul male, della virtù sul vizio, ma Caravaggio lo interpreta in maniera originale. In una scena descritta in modo estremamente essenziale, il pittore conferisce alla luce un ruolo fondamentale: essa è simbolo della Grazia divina, ma serve anche a far risaltare gesti e sguardi dei personaggi. Simbolo e realtà si incontrano, ed ecco illuminati – come avrebbe potuto fare un moderno regista di teatro o di cinema – i macabri dettagli di Oloferne, la smorfia di Giuditta, lo sguardo stupito della vecchia serva che si accinge a raccogliere la testa del generale assiro.
La tela, databile tra il 1597 e il 1600, contemporanea ai dipinti per la cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, è opera fondamentale per comprendere il passaggio dalla pittura giovanile alla nuova visione naturalistica e chiaroscurale. Il quadro fu realizzato per il banchiere genovese Ottavio Costa. Per lungo tempo ritenuto perduto, fu riscoperto nel 1950 e lo Stato lo acquistò dall’ultimo proprietario, Vincenzo Coppi, nel 1971.
T come Testa
Michelangelo Merisi detto il Caravaggio (1571-1610) Giuditta che taglia la testa a Oloferne, 1597-1600, olio su tela, cm 145 × 195
Michelangelo Merisi detto il Caravaggio (1571-1610) Giuditta che taglia la testa a Oloferne, 1597-1600, olio su tela, cm 145 × 195
Mattia Preti studia da apprendista a Napoli, dove si appropria dello stile e de inguaggio caravaggesco, subendo in particolare l’influenza del Caravaggio napoletano, il più contrastato dal punto di vista luministico. Oltre alla dialettica di luce e ombra, assorbe quella che viene definita la “Manfrediana methodus”, dal nome del seguace di Caravaggio Bartolomeo Manfredi, che consiste in un certo gusto per i soggetti pittoreschi, le taverne, i bevitori, l’umanità popolare delle strade, che in particolare a Napoli diventano temi pittorici privilegiati.
La sua formazione prosegue, come per tanti pittori del Seicento, a Venezia, e infine a Roma, negli anni Trenta del Seicento, dove subisce l’impatto della grande statuaria antica. Il contrasto luministico, il naturalismo spinto, si diluiscono allora in una verosimiglianza più serena, e pacata, attraverso cui l’artista veicola i sentimenti dei personaggi ritratti. Enea e Anchise è un’opera particolarmente rappresentativa di questa dimensione sentimentale, soprattutto se paragonata a precedenti illustri come l’Enea, Anchise e Ascanio raffigurati da Raffaello nella stanza dell’Incendio di Borgo in Vaticano, dove prevale la componente eroica. Nella fuga di Enea da Troia c’è, in effetti, un forte senso del destino; l’eroe non sta soltanto mettendo in salvo i suoi affetti, ma si avvia a fondare Roma, e la distruzione di una città prefigura la fondazione dell’altra. La forte componente civile che attraversa il tema della fuga di Enea è stemperata nella versione di Mattia Preti da una tenerezza tutta meridionale. Preti si allont...

Indice dei contenuti

  1. Il Gioco serio dell'Arte
  2. Copyright
  3. Dedica
  4. La verità e la finzione - di Massimiliano Finazzer Flory
  5. F come Fortuna - dialogo con Giulio Giorello
  6. S come Sacrificio - dialogo con Remo Bodei
  7. D come Donna - dialogo con Francesca Brezzi
  8. T come Testa - dialogo con Maurizio Calvesi
  9. P come Padre - dialogo con Vittorino Andreoli
  10. R come Religioni - dialogo con Predrag Matvejević
  11. M come Morte - dialogo con Piero Coda
  12. A come Ascolto - dialogo con Quirino Principe
  13. Note Bio-Bibliografiche
  14. Indice