Sbirri
  1. 170 pagine
  2. Italian
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Rispettati, temuti, quotidianamente divisi tra il volto pubblico della divisa e la loro personale sensibilità di fronte al male, i poliziotti svolgono un mestiere che è anche un'arte, e di cui spesso sappiamo troppo poco. Prima ancora dei sociologi e degli psicologi, gli 'sbirri ' osservano e sentono i mutamenti della nostra società, i problemi, le nuove debolezze. E ne risolvono gli enigmi, seguendo tracce incerte, ricomponendo i quadri nascosti del crimine, facendo fronte alle minacce che turbano la pace e i fondamenti della convivenza civile. Cinque giornalisti in prima linea ci raccontano i retroscena e le particolarità della vita di altrettanti poliziotti, dalla Omicidi alla Scientifica, dall'Antiterrorismo alla Celere all'Antimafia. Ambiti di azione distinti, che implicano tecniche diverse, professionalità addestrate, ritmi, paure e gratificazioni di volta in volta differenti. Un 'antologia di sguardi su un mondo complesso, per scoprire che la linea di demarcazione tra noi e loro non è dove pensavamo che fosse.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858648704
La donna del Dna
di Elisabetta Rosaspina
Una bambola
Doppio clic: «Non sembra una bambola?». Il vice questore aggiunto Giuseppina Menna apre un file sullo schermo del suo computer. Una barbie nera, dai capelli appena scomposti, la pelle liscia e lucida come se fosse stata oliata, le labbra infantili e piene, color mirtillo, compare coricata sul fianco destro, nell’erba. Erba secca, senza vita, come lei. Che agli occhi di un camionista di passaggio sulla tangenziale ovest di Milano pareva un manichino adagiato ai margini della strada. Così bella, così perfetta, così intatta da non poter essere vera. Tanto meno morta, con quel corpo felicemente riuscito a madre natura.
«Nigeriana», propende Giuseppina Menna, sgranando pixel a ogni colpo di mouse, fino a inquadrare, un po’ sfocata, l’ammaccatura che guasta la perfezione e svela la vulnerabilità della materia: un’ecchimosi violacea sulla gola, nel punto in cui il respiro si è interrotto per sempre, qualche ora prima.
«Mai identificata» si rammarica. «Una prostituta, quasi certamente. Arrivata in Italia da poco.»
Troppo poco.
Quei polpastrelli affusolati, dalle unghie curate e laccate, non hanno fatto in tempo a conoscere il nuovo scanner dell’ufficio del fotosegnalamento, in questura: la prima, e talvolta unica tappa di chi è costretto – come si diceva una volta – a seguire i poliziotti «alla centrale». Per accertamenti.
A Giuseppina Menna ogni tanto non dispiace inoltrarsi a pianterreno, in fondo al lungo corridoio della squadra mobile, a dare un’occhiata ai suoi ragazzi, nello stanzone grigio arredato per metà come uno studio fotografico e per l’altra metà come il gabinetto medico dell’ufficio di leva. Le ricorda i suoi inizi. Perché questa è, in genere, la prima tappa anche per i giovani graduati in camice. Il primo gradino della loro carriera nella Polizia scientifica.
In alcuni di loro, come Jessica Galante, che si è appassionata a questo mestiere e non se ne andrebbe più, Giuseppina Menna rivede se stessa a Brindisi, una ventina di anni fa.
Arrivavano i primi albanesi in gommone e affollavano le spiagge pugliesi. Vinti, spavaldi, supplichevoli, sfuggenti, contrariati: sfoggiavano tutte le facce dell’onta, del dispetto e del disincanto. Tra loro e il mondo di delizie captato dalle paraboliche di Tirana, Scutari, Valona, si frapponevano ormai soltanto questi uomini e queste donne in uniforme. Ultimo e insuperabile ostacolo alla vita facile che certamente scorreva oltre quelle mura. I naufraghi dell’illusione declinavano, in silenzio, le loro generalità imprimendole sui cartoncini bianchi degli schedari di polizia, come le X degli analfabeti di una volta. A nessuno interessava sapere di più su di loro, sulle loro storie. Il traffico degli scafisti non aveva quasi più segreti: prezzi, itinerari, brutalità, corruzioni. La linea adriatica della delinquenza, che altro c’era da scoprire?
Al capolinea dell’inganno, i passeggeri si sottoponevano all’inevitabile umiliazione del fotosegnalamento, che non avrebbe comunque risparmiato loro il rimpatrio, poco dopo. Ma qualche volta notavano un tocco diverso nelle mani guantate che pilotavano i loro polpastrelli. Un gesto meno sbrigativo, uno sguardo meno severo, o perfino dispiaciuto: «Le mie mani da ladro trattate con gentilezza e umanità», cercò di significare la sua gratitudine alla dottoressa Menna uno di loro, usando qualche parola italiana imparata alla tv e assecondando, con un attimo di sincera empatia, il compito della giovane funzionaria. Lei non rispose, non avrebbe potuto. Però non l’ha dimenticato.
Dunque adesso può capire Jessica, quando le spiega che non chiederà il trasferimento o una promozione perché ama il contatto con la gente, qua dentro; e gli occhi ammiccano divertiti, perché il campionario umano che le sfila davanti non è esattamente quello del botteghino della Scala o di una bancarella di filatelia.
Non si parla molto in questa stanza, dove il silenzio è sdrammatizzato da un transistor sintonizzato su una stazione di musica pop. Giuseppina Menna è quasi sempre in borghese, i fermati non le badano, magari la catalogano tra gli assistenti sociali ed evitano il suo sguardo, temendo ci scappi una ramanzina. Ma gli agenti della volante che li accompagnano s’irrigidiscono leggermente quando riconoscono il vice questore: tanto disturbo per una borseggiatrice o un piccolo spacciatore di fumo?
Non sanno che Giuseppina Menna s’interessa a quei lineamenti come un’antropologa: «Un giorno o l’altro dovrò decidermi a raccogliere le foto, soprattutto le più vecchie», si ripropone spesso, senza sapere dove troverà il tempo necessario a scandagliare l’immensa, inesauribile, multietnica tribù degli schedati, nel vecchio archivio della Scientifica. «Certi visi parlano da soli. Quelli delle donne, soprattutto. Che cosa sarebbero i film di Pedro Almodovar, senza quelle straordinarie fisionomie femminili? E poi non è vero che le foto segnaletiche sono brutte. Mi è molto piaciuto il libro di Giacomo Papi: s’intitola Accusare e racconta la storia del Novecento attraverso centinaia di foto segnaletiche di personaggi famosi. Io invece penso a una mostra con volti di gente qualunque. Facce intense, espressioni così autentiche e umane da colpire dritte allo stomaco.»
Ignara, forse, del suo potenziale ruolo artistico, Jessica continua a darsi da fare attorno all’apparecchiatura fotografica, specialmente a fine nottata, quando arriva qualche pattuglione che riempie le celle di sicurezza. Reduci di risse e bevute, clandestini spaventati, tossici intontiti, adescatrici seminude e risentite, aspettano il loro turno davanti all’anagrafe dei poco raccomandabili. Magari non lo sanno, ma per legge la loro attesa non deve durare più di 12 ore, se non sono stati arrestati.
Simile a una dottoressa del pronto soccorso, con il suo lungo camice bianco aperto sui jeans e i guanti di lattice, Jessica misura innanzitutto l’altezza del primo della fila, contro lo stipite della porta. Le tacche più consumate sono fra il metro e 55 e il metro e 70: la statura media del crimine italiano. Qualcuno ha ripassato le cifre divenute illeggibili con il pennarello blu. Poi Jessica installa il suo paziente su una alta sedia di legno girevole, sotto una sequenza di numeri che il computer collegato aggiorna a ogni ospite che appoggia la nuca a un supporto, tra due parole verticali, «Polizia scientifica»: quelle che ne faranno, un giorno chissà, un’immagine da esposizione. Un paio di scatti, di fronte e di profilo, e Jessica inizia a riempire una scheda, mentre la sua collega Monica, seduta al tavolo dall’altra parte della stanza, passa alle domande di routine, e al tu. Pacatamente, come se redigesse una cartella clinica: «Hai cicatrici? Tatuaggi? Segni particolari? Tira su le maniche». Qualcuno anticipa le richieste, perché già le conosce. Jessica incomincia a occuparsi dei rilievi ai polpastrelli. Sono loro gli unici documenti che fanno fede per l’autorità giudiziaria, perché non possono mentire né dissimulare. Serviranno, più tardi, a smascherare gli alias: le identità fittizie che i Mohammed, gli Alì, ma anche i Santo, le Natasha, i Dimitru modificano a ogni controllo, nell’illusione di poter consegnare agli archivi della polizia soltanto sosia inesistenti.
«L’inchiostro non si usa quasi più, ormai», Giuseppina Menna osserva con affetto il vecchio rullo nero, ancora imbrattato, abbandonato in una ciotola, vicino al lavandino. Se lo porterebbe volentieri in ufficio, tra i cimeli della vecchia Scientifica. «Un po’ di antiquariato», si intenerisce lei. Come la boccettina di olio nero Pelikan e il vecchio timbro per la numerazione cronologica dei cartellini fotosegnaletici che le ha lasciato in eredità Bruno Masetto, storico dattiloscopista milanese. Ma l’inchiostro non è ancora definitivamente obsoleto: «Adesso è riservato, di solito, alle impronte di gente perbene. Quelle che devono essere inviate ai consolati, che utilizzano propri cartellini segnaletici, come parte della documentazione indispensabile per ottenere una licenza, mettiamo, per aprire un negozio negli Stati Uniti».
Qui, prima che a Rodeo Drive, Beverly Hills, o sulla Quinta Strada di New York, hanno timbrato il loro personalissimo marchio tattile tutti i grandi stilisti milanesi, generando alcuni dei rari momenti di leggerezza e allegria del reparto. Dove è più comune vedere oscillare una zingarella, all’ottavo mese di gravidanza, un ubriaco che vomita volgarità all’indirizzo delle imperturbabili poliziotte in camice, e un contingente di prostitute rassegnate e provocatorie, come ancora non doveva essere diventata la barbie mozzafiato della tangenziale.
Il computer cattura e proietta sullo schermo i solchi dei polpastrelli («le creste», correggerebbe il dattiloscopista, pignolo per dovere professionale), dopo che i loro titolari hanno premuto malvolentieri le dita sul vetro di una specie di piccola fotocopiatrice collegata. «Gulp!» sembra che sussulti la macchina a ogni pressione. Dieci volte, un dito dopo l’altro. Perché ogni falange lascia una traccia diversa dall’altra anche nello stesso individuo. E poi tocca alle palme intere, perché non si sa mai quale frammento di impronta possa, un giorno, tornare utile all’ispettore Calogero Biondi, che da 21 anni riesce così a dare un nome a un assassino. Oppure a un morto.
Sempre che, prima di una retata, prima di Jessica e di Monica, prima dello scanner e della sedia regolabile, del computer col singhiozzo, dell’ispettore Biondi e della dottoressa Menna, non arrivino le mani di un cliente insoddisfatto o di un protettore imbestialito, che afferrano la disobbediente bambola di ebano per il collo, e poi stringono forte. Una sessantina di secondi, non di più. Finché davvero lei non rimane inerte come un pupazzo, senza più annaspare in cerca di ossigeno, senza più scalciare e graffiare. Senza vestiti, senza documenti, senza un nome, senza qualcuno che si stupisca della sua assenza e venga a reclamarla.
Giuseppina Menna cerca di non pensare alla madre, al padre, ai fratelli che da qualche parte, attorno ad Abuja, Lagos, Ogbomosho o Ibadan, si chiedono perché la più bella della famiglia, quella partita a riscuotere la sua fortuna, si sia già dimenticata di loro: è talmente felice, lassù in Europa, da non ricordarsi di fare una telefonata ogni tanto? Non si sarà ammalata? Mangerà abbastanza?
Meglio per loro, se invece non si preoccupano. Meglio per loro, se non riescono a ottenere il visto consolare, né a pagarsi un biglietto aereo per l’Europa. Meglio se non sanno come arrivare fino in questura, al quarto piano di via Montebello. Tanto meglio se il loro dio o il loro intuito non li guidano a bussare alla porta della vice dirigente del Gabinetto di Polizia scientifica della Regione Lombardia. Perché, a lei, basterebbe una goccia della loro saliva. O un solo capello, per trasformare in un’identità il numero di riconoscimento sul fascicolo della principessa nera. Invece barbie-senza-nome e il suo muto Dna si dissolveranno, giorno dopo giorno, in una fossa anonima di quel paradiso chiamato Italia, per il quale lei non è mai nata e non è mai morta. Tanto meglio per chi continua a crederla viva.
Il delitto della Cattolica
Doppio clic. Il mouse fruga ancora nella memoria, quella più antica, e sceglie un’altra ragazza: anche lei stesa su un fianco. Non sembra una bambola, e neppure addormentata. La lama di un coltello ha fatto scempio di carne, abiti e giovinezza. Quarantadue fendenti, sangue ovunque, segni di lotta. La sua identità non è mai stata un mistero e ancora oggi la ricordano in tanti: Simonetta Ferrero, 26 anni, pugnalata in un bagno femminile dell’Università Cattolica il 24 luglio 1971.
Quell’anno Giuseppina Menna frequentava le elementari a Carate Brianza. Più tardi, all’epoca in cui lei indossava il grembiule blu del liceo scientifico, dalle suore dell’Ordine di Maria Bambina, in via Beato Angelico a Milano, i giornali dedicavano ancora, puntualmente ogni anno, almeno una delle pagine estive di cronaca nera al giallo insoluto dell’Università Cattolica. Soltanto molto tempo dopo, quando Giuseppina Menna era già iscritta alla facoltà di giurisprudenza dello stesso ateneo, in largo Agostino Gemelli, le fatue rivelazioni su nuovi avvistamenti, colpi di scena, testimoni chiave e seminaristi assassini non calamitavano più l’attenzione pubblica. Ma, per Giuseppina Menna, quello stava per diventare un caso da manuale.
«Con i mezzi di indagine attuali, probabilmente ne saremmo venuti a capo», lo sguardo calmo della poliziotta penetra la scena del crimine attraverso le vecchie foto dai colori fasulli che neanche il computer riesce a migliorare.
Se soltanto potesse entrare davvero nello schermo, risucchiata dalla macchina del tempo, saprebbe dove mettere le mani. E con chi intervenire: Cinzia e Federica, magari, le due giovani sopralluoghiste da poco incorporate nella squadra, attente e affiatate, spesso in coppia nelle notti infinite del turno in quinta, quello che va da mezzanotte alle 7 del mattino. Una lunga attesa, interrotta talvolta soltanto da un caffè della macchinetta nel bicchierino di plastica, con il ronzio monotono della luce al neon che fa sembrare il tempo immobile, nel loro ufficio.
Quando arriva finalmente la telefonata dalla centrale operativa, le ragazze sono pronte, chiudono le loro valigette di metallo con il corredo professionale: la serie dei numeri e lettere che fanno da contrassegno, cioè consentono di localizzare nella visione di insieme e nel particolare i reperti – gli adesivi gommosi neri e trasparenti con il barattolino delle polveri ed il pennello per l’esaltazione delle impronte latenti – le provette in vetro con il liquido fisiologico per la repertazione di tracce ematiche – provette e bustine in carta per riporre i reperti organici da portare in ufficio – una pinzetta in plastica per prelevare i reperti balistici – il cucchiaio metallico e l’inchiostro per prendere le impronte ai cadaveri. C’è anche, debitamente sigillato e isolato dal resto, un tamponkit per l’asportazione dei residui di polvere da sparo sulle mani – buste di sicurezza di varie dimensioni per riporre gli oggetti sequestrati – la rondella e le striscette metriche, per misurare tutti gli elementi di qualche interesse presenti sulla scena. E naturalmente le macchine fotografiche.
«Qualche attrezzo per il bricolage non guasta» ricorda Giuseppina Menna, «a volte nell’era dell’informatica ci manca proprio la punta piccola di un cacciavite.»
Pronte. Le sopralluoghiste s’infilano nella Fiat Punto di servizio che Cinzia pilota seguendo le indicazioni stradali di Federica, romana trapiantata da pochi mesi a Milano, assistite dalla fortuna dei giusti. Prima di entrare nel teatro del misfatto, s’infilano le tute bianche protettive, imprecando contro la taglia extralarge, pensata soltanto per i colleghi maschi; coprono i capelli con i cappucci, bocca e naso con le mascherine. Restano fuori soltanto occhi e ciglia, ritoccate con eye liner e rimmel.
Ai campi militari, organizzati dall’esercito e a cui deve partecipare ogni tanto a Rieti, Giuseppina Menna ha appreso, con disappunto, che le tute monouso dei suoi ragazzi sono tecnicamente comprese in una lista di cui occupano il gradino più basso della protezione: «Devono far da barriera, fondamentalmente, soltanto a possibili contaminazioni con sangue infetto e devono impedire che tracce organiche – come il sudore dell’operatore – possano inquinare la scena. Quindi sono di materiale sintetico impermeabile, e non proteggono da agenti aggressivi biologici, chimici o da radiazioni».
È il momento di guardarsi intorno. Senza fretta, ma anche senza indulgere in manovre superflue: «Non è sufficiente rimanere due giorni sul luogo del delitto e di passare al setaccio tutto quello che troviamo, acriticamente. Non si lavora così» raccomanda Giuseppina Menna. «Bisogna riflettere. Ogni atto deve essere dettato da una motivazione logica. Se esaltiamo un’impronta su quel vetro, su quello specchio o su quella maniglia, è perché ha un senso pensare che l’assassino abbia messo le mani proprio lì, e non altrove. Non è la quantità di tracce, ma la loro storia quel che ci interessa.» Perché soltanto quella potrà trasformare un’impronta in un atto d’accusa inconfutabile: «Più vado avanti, più mi accorgo che la prova scientifica è di per sé insufficiente in un processo, senza un’interpretazione e uno sviluppo storico della vicenda. Da sola, non dice nulla. Per esempio, le impronte digitali rilevate nella casa dove è avvenuto un delitto, possono essere irrilevanti se l’omicida è un familiare, un amico o qualcuno che era legittimato a entrarvi». Ma se sono state lasciate sulla bottiglia di vino che vittima e assassino hanno probabilmente bevuto insieme, prima di un litigio fatale, la faccenda cambia: «E, anche se non siamo noi a condurre direttamente le indagini, quando facciamo il nostro lavoro, documentando lo stato dei luoghi, siamo pur sempre poliziotte e, come tali, ragioniamo».
Nel ’71 l’analisi del Dna era fantascienza, buona per la penna di qualche visionario alla Philip K. Dick. Al massimo si discuteva di gruppi sanguigni. Adesso Giuseppina Menna e le sue ragazze avrebbero cura di conservare, innanzitutto, la gonna e la camicetta della studentessa uccisa: «Prima si lascia asciugare l’indumento insanguinato e poi lo si congela. Gli abiti della vittima sono fondamentali per individuare tracce organiche lasciate dall’aggressore, sudore o saliva per esempio», Giuseppina Menna non avrebbe bisogno di spiegare l’abc del genetista-detective alle sue due sopralluoghiste. Doveva fare caldo quel 24 luglio e non si sferrano quaranta coltellate senza trasudare una goccia di Dna. Anche se la studentessa non avesse fatto in tempo a reagire, a rivoltarsi, a trattenere sotto le unghie frammenti di pelle o qualche capello del suo assalitore, una traccia invisibile doveva essere rimasta. Quella stilla di colpevolezza è evaporata, con i segreti che oggi avrebbe raccontato al biologo della Scientifica milanese, Roberto Giuffrida, scelto dal ministero dell’Interno per uno degli incarichi più lunghi e penosi nella storia della sezione criminalistica: l’identificazione delle vittime italiane dello tsunami in Indonesia, nel gennaio del 2006.
Ma nel bagno dell’Università Cattolica Cinzia e Federica, con l’aiuto del laser, cercherebbero le impronte rimaste sulla porta, che il killer non può non aver sospinto per entrare e per uscire: «A quei tempi immagino che avranno usato la polvere tradizionale, ma la superficie di legno pitturato non era idonea ai rilievi con quella metodica, perché non era abbastanza liscia». Giuseppina Menna avrebbe fatto sicuramente cercare le impronte digitali su tutti i battenti, le maniglie e le vetrate, dall’atrio fino al bagno. «Non so se i colleghi di allora abbiano fatto così, nel fascicolo non si dice. Dentro ho ritrovato soltanto le foto e il verbale descrittivo.»
Ma i poliziotti del 1971, soprattutto, non disponevano di uno dei migliori alleati tecnologici degli investigatori: «La vittima, oggi, avrebbe avuto quasi sicuramente un cellulare».
Nessuno meglio di un tabulato telefonico ricorda l’ultima chiamata fatta e ricevuta, il numero da cui sono partiti gli ossessivi controlli di un fidanzato geloso o le insistenze di uno spasimante respinto: «Penso sempre con estrema cautela al movente del delitto. Trarre dalla scena del crimine conclusioni che impegnino risorse investigative a senso unico, non mi pare operazione che dia buoni risultati. Occorre discernere la vicenda, e a ciò contribuisce in modo essenziale il lavoro dei colleghi della Omicidi, con i quali studiamo ciò che abbiamo sotto gli occhi». E che quasi mai è un bello spettacolo.
«A me pesa di più assistere a una sofferenza ancora viva, che esaminare un cadavere. Anche se all’inizio non è stato facile e non lo diventa mai. Le prime fotografie alle ferite, ai tagli nella carne, ai fori dei proiettili, raramente vengono bene. Poi si acquisisce più distacco e riemerge la professionalità», Giuseppina Menna conosce e comprende il malessere dei nuovi arrivati nella sua squadra, e cerca sempre di ammorbidire il loro primo impatto con l’obitorio e con il tavolo dell’anatomopatologo, dove il corpo della vittima, nudo e lavato, viene presentato ai fotografi della Scientifica per ingigantire i dettagli utili, cioè i più macabri.
«Gli anziani affiancano i debuttanti per i primi...

Indice dei contenuti

  1. Sbirri
  2. Copyright
  3. Batman a Trapani - di Francesco La Licata
  4. Nel nome di Tina - di Massimo Numa
  5. La donna del Dna - di Elisabetta Rosaspina
  6. Il sogno di uno sbirro - di Guido Olimpio
  7. Compagno Celerino - di Mario Portanova
  8. Indice