Capitolo 1
La natura del merito e della colpa
I Beatles erano infuriati quando sospettarono che qualcun altro si stesse prendendo il merito per l’ottavo album che avevano pubblicato, lo psichedelico Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band1. Ritennero di non aver ottenuto il dovuto riconoscimento perché la rivista Time l’aveva descritto come “il nuovo album di George Martin”, il produttore del disco2. Come era unanimemente riconosciuto, Martin aveva svolto un ruolo fondamentale nella definizione del suono della band e in questo nuovo disco aveva sperimentato tecniche di missaggio audio che avevano contribuito a renderlo straordinariamente innovativo. Nonostante l’album entrasse poi nella storia come uno dei migliori mai realizzati, il caso illustra quanto siano cruciali le questioni di merito e di colpa. Persino i Beatles, malgrado la fama e il successo di cui godevano, fecero fatica a spartire i loro meriti con altre persone.
In tutte le culture, e durante tutta la storia dell’uomo, riservare un’attenzione specifica a colpe e meriti è sempre stato considerato un fatto cruciale. Molte religioni prevedono un sistema di “contabilità divina” o un “registro della vita” in cui le divinità tengono il conto delle buone e cattive azioni dell’individuo per determinare se merita una ricompensa o una punizione, sia durante la sua esistenza terrena sia nell’aldilà. Anche per chi non crede in un simile giudizio divino, cosmico o karmico, il principio secondo cui dovremmo ottenere il giusto riconoscimento per le nostre buone intenzioni o azioni, e non essere colpevolizzati ingiustamente, esercita un forte richiamo.
L’ALTO PREZZO DEL MERITO
Il nostro desiderio di ottenere il riconoscimento che ci spetta è così forte che a volte lo esigiamo anche a costo di pagare un prezzo considerevole. Una mia amica, che chiamerò Pria, mi invitò un giorno a pranzo per chiedermi qualche consiglio professionale. Si stava preparando a una riunione con il suo capo Larry, in cui avrebbe discusso del suo futuro nel centro studi dell’azienda no profit per cui lavorava. Per tutto l’anno precedente aveva lavorato sodo e sapeva di essere sottopagata per il ruolo che occupava. Le dava inoltre fastidio avere la stessa qualifica delle due persone che riportavano a lei. Mentre discutevamo sul piano da attuare, Pria mi disse che pensava di iniziare la riunione esprimendo insoddisfazione per la sua qualifica professionale, per poi passare a dimostrare con argomenti inappuntabili che meritava una promozione. Infine avrebbe parlato della sua retribuzione, che, da un’approfondita ricerca su aziende simili, aveva scoperto essere di circa 20.000 dollari inferiore a quella dei suoi omologhi del settore.
Durante la nostra discussione, mi fu subito chiaro che Pria teneva chiaramente più al titolo che al suo stipendio. Quando le posi una domanda diretta in proposito, lo confermò immediatamente, aggiungendo: “Perdo credibilità agli occhi dei clienti, perché ho lo stesso titolo dei colleghi che riportano a me”. Io, però, rimasi scettico. La conosco da oltre vent’anni e il suo carisma e il suo intelletto colpiscono chiunque l’abbia incontrata, sia a livello personale sia professionale. In una qualunque conversazione il suo titolo non sarebbe mai stato altro che una semplice nota a margine di poco conto. Decisi di insistere su questo punto chiedendole se poteva citare una sola situazione in cui aveva perso credibilità. Dopo averci riflettuto per qualche istante, Pria ammise di non poterlo fare. A quel punto le chiesi se si sentiva stimata da Larry. Rispose di getto: “No, non mi stima”. Pur facendo molto affidamento su Pria come ghostwriter di articoli e discorsi, Larry non aveva mai riconosciuto pubblicamente che le riflessioni e le ricerche che alimentavano il centro studi da lui fondato scaturivano in gran parte da lei.
Il vero motivo per cui Pria voleva quella promozione aveva poco o nulla a che fare con la presunta “visibilità” agli occhi di persone esterne all’azienda. Riguardava piuttosto la sensazione che il suo ruolo fosse sottovalutato da Larry, che un tempo l’aveva assunta sottraendola a una prestigiosa società di consulenza per il settore privato. Le chiesi allora di compiere una scelta ipotetica: avrebbe preferito un nuovo titolo professionale, più autorevole, o un aumento che la equiparasse maggiormente ai suoi omologhi? In altre parole, avrebbe “comprato” una promozione se ne avesse avuto la possibilità? Riflettendo, Pria si rese conto che in realtà avrebbe avuto più vantaggi da una retribuzione maggiore invece che da un nuovo titolo. Fino a quel momento, Pria aveva “sub-ottimizzato”, preoccupandosi soprattutto del significato percepito di qualcosa – in questo caso, il riconoscimento del “merito” che una promozione avrebbe simboleggiato ai suoi occhi – a scapito di un suo concreto e tangibile interesse economico. Il suo caso è un esempio efficace di come questa tendenza a voler vedere riconosciuti i nostri meriti agisca nella vita professionale e nei rapporti con i nostri superiori. Lavorare per un capo che riconosca i meriti che riteniamo di avere è un privilegio per cui siamo disposti a “pagare” in vari modi. Secondo le mie esperienze, un buon rapporto con il nostro capo – definito soprattutto in base all’equità con cui egli dispensa i meriti e le colpe – è importante quanto una differenza retributiva del 25%. Molti, insomma, preferiscono rinunciare a una retribuzione più elevata per lavorare per qualcuno che li fa sentire stimati e rispettati. Spesso sfido i miei clienti – così come ho fatto con la mia amica Pria – a immaginare di dover scegliere tra aspetti simbolici e realtà concrete. Per molti di noi è tuttavia difficile distinguere tra ciò che ha un valore solo simbolico e ciò che rappresenta una realtà tangibile e concreta, e questo è un limite dovuto a una confusione quasi innata, frutto della nostra evoluzione.
Il SENSO INNATO DI GIUSTIZIA
Tutti noi rischiamo di cadere nella trappola dell’attribuzione di meriti e colpe, perché, nonostante consideriamo cruciale l’equità di giudizio, i disaccordi su chi deve essere premiato o punito rappresentano la norma e un consenso unanime è l’eccezione. Perché accade questo? Buona parte delle nostre azioni e reazioni istintive possono essere spiegate facendo riferimento all’evoluzione.
Recentemente, la psicologia evoluzionistica ha compiuto notevoli progressi nel chiarire i modi in cui l’esigenza di sopravvivere che governava la vita dei nostri primi antenati ha determinato il nostro modo di pensare e comportarci: ad esempio, si è capito perché ci rimpinziamo di cibi grassi e dolciumi; perché spesso valutiamo erroneamente i rischi che corriamo, come nel recente caso dei mutui subprime; e perché il razzismo continua a perdurare anche se ci consideriamo illuminati paladini delle pari opportunità. Molti dei nostri comportamenti e modi di pensare hanno radici che risalgono alla savana africana, compresa la tendenza a peccare di un eccesso di zelo nel computo dei meriti e delle colpe.
Questa abitudine a “tenere il conto” sembra essere infatti una caratteristica profondamente radicata nel regno animale. Pensate alla ricerca su alcuni primati, scimpanzè e scimmie cappuccine, condotta da due biologi dello Yerkes National Primate Research Center di Atlanta, Sarah Brosnan e Frans de Waal, e incentrata sulle reazioni di questi animali alle ingiustizie3. I due ricercatori svolsero una serie di esperimenti in cui le scimmie dovevano consegnare alcuni “gettoni”, come pietre o pezzi metallici, per ottenere del cibo. Mentre alcune scimmie ricevevano come ricompensa pezzi di cetriolo o sedano, altre ottenevano più appetitosi chicchi d’uva; un po’ come se un vostro collega ricevesse una promozione o un aumento e voi… solo un pezzo di cetriolo. Le scimmie ricompensate con cetriolo o sedano, quando si accorgevano che altre ottenevano grappoli d’uva, voltavano letteralmente le spalle a successive offerte di pezzo di cetriolo. Alcune, in un accesso di ira, giunsero addirittura al punto di gettare addosso al ricercatore il loro pezzo di cetriolo.
Oltre alle evidenti analogie fornite da questo modello di comportamento dei nostri “cugini” primati con il modo in cui ci relazioniamo ai nostri superiori e reagiamo di fronte alle ricompense, possiamo anche trarre vari insegnamenti sulle nostre modalità di interazione con i colleghi da un membro inaspettato della vasta famiglia dei mammiferi: il pipistrello. Alcuni ricercatori hanno studiato il comportamento di questi animali e hanno scoperto che, proprio come gli esseri umani, tengono il conto delle reciproche interazioni sociali. È stato condotto uno studio su una specie di pipistrelli molto opportunamente classificata come “vampira”, i cui esemplari vivono in diverse zone dell’America centrale e si cibano di notte del sangue di animali di grandi dimensioni4. Se uno di essi è costretto a saltare il pasto, può tuttavia contare sull’aiuto dei suoi “colleghi”. Una volta rientrati nella loro tana, ogni notte, quelli che hanno avuto la sorte di trovare un po’ di cibo rigurgitano parte del sangue ingerito nella bocca dei compagni meno fortunati. L’aspetto più interessante è che i pipistrelli vampiri sembrano avere un senso innato della giustizia e della reciprocità e ricordano chi è stato generoso e chi ha peccato di avidità. Se uno di essi non ha ottenuto il favore richiesto, questo si rifiuterà in futuro di spartire il cibo con chi si è dimostrato avaro. Come vedremo più in dettaglio nel Capitolo 4, anche noi facciamo molta attenzione alle interazioni sociali reciproche e teniamo conto di come i nostri colleghi attribuiscono meriti e colpe.
Anche gli esseri umani reagiscono all’ingiustizia. Negli anni Sessanta, John Stacey Adams, psicologo comportamentale ed esperto nelle dinamiche dell’ambiente lavorativo, sviluppò la “teoria dell’equità” per spiegare in quali occasioni, e per quali motivi, i lavoratori si sentono trattati ingiustamente, e per prevedere le loro reazioni a una presunta ingiustizia5. Adams scoprì che i lavoratori cercano di mantenere l’equilibrio tra gli input che essi forniscono (tempo, energia, sacrifici personali e così via) e gli output che ricevono dal datore di lavoro (come retribuzione e riconoscimento del merito). Secondo la sua teoria, il nostro senso innato della giustizia è influenzato significativamente dal raffronto tra i nostri input/output e quelli delle persone che ci circondano. Se lavoriamo sodo e non otteniamo la promozione che pensiamo di meritare, ma al tempo stesso vediamo che un collega scansafatiche viene premiato con un’ottima posizione, è assai probabile che faremo qualcosa di simile a voltare le spalle o a gettare un pezzo di cetriolo addosso al nostro capo.
Quando percepiamo assenza di equità, “tirchieria” o mancanza di reciprocità da parte dei nostri colleghi e dell’azienda in cui lavoriamo, siamo meno disposti a mostrarci collaborativi e più propensi a trovare modi per aggiustare i torti che secondo noi sono stati commessi nei nostri confronti.
È TUTTA COLPA DEL CERVELLO
A causa delle minacce alla sopravvivenza a cui erano esposti i nostri antenati, ben più gravi e numerose di oggi, il nostro cervello si è evoluto in modo da prendere decisioni rapide e inconsce. Si è anche evoluto in modo da semplificare le cose per permettere di reagire rapidamente di fronte a un eccesso di informazioni. Con l’andar del tempo la nostra specie si è abituata a prendere scorciatoie mentali, ad esempio basandosi sulle esperienze passate per prevedere eventi futuri, e il risultato è che le nostre percezioni sono influenzate da ciò che gli psicologi definiscono “illusioni cognitive”. Si tratta di costrutti mentali subconsci di cui non siamo neppure consapevoli, ma che spesso ci impediscono di operare valutazioni corrette o razionali. Siamo molto meno in grado di controllare i nostri pensieri e le nostre azioni di quanto non tendiamo a credere. Come scrive lo psicologo Daniel Gilbert nel suo Stumbling on Happiness: “Ci sentiamo come se stessimo seduti comodi nella nostra mente e guardassimo fuori attraverso le finestre degli occhi, osservando il mondo per come veramente è. Tendiamo invece a dimenticare che il nostro cervello è un abile falsario, capace di tessere una tela di ricordi e percezioni i cui dettagli sono altamente convincenti ma la cui inautenticità viene raramente rilevata”6.
Siamo anche molto meno padroni dei nostri pensieri e delle nostre azioni di quanto tendiamo a credere. Uno studio illuminante ha persino mostrato che quando abbiamo l’impressione di prendere una decisione conscia, il nostro pensiero inconscio ci ha già preceduto notevolmente. I ricercatori hanno scoperto di poter prevedere se un soggetto avrebbe premuto o meno un bottone addirittura sette secondi prima che egli dichiarasse di aver preso la decisione7. Anche se gli esperimenti di questo tipo non hanno ancora chiarito le modalità con cui inconsciamente prendiamo decisioni riguardo al merito e alla colpa, le implicazioni sono chiare: spesso è il nostro subconscio a occupare il posto di guida del cervello.
Il cervello che abbiamo è lo stesso dei nostri antenati e può essere spinto a percepire e agire senza riflettere. È per questo che in una situazione particolarmente complicata o emotiva, come un’imminente tornata di licenziamenti, noi e i nostri colleghi possiamo comportarci esattamente come se ci trovassimo nell’Età della Pietra.
Uno dei modi in cui il nostro bagaglio evolutivo ci porta fuori strada è che l’affidabilità e l’equità sono diventate così importanti che ormai diamo la priorità a quest’ultima anche quando è in conflitto con i nostri interessi “razionali”. Ciò è dimostrato efficacemente dal cosiddetto “gioco dell’ultimatum”, un esperimento concepito da alcuni economisti tedeschi nel 19828. A due giocatori viene affidata una somma di denaro e si chiede loro di spartirla. Uno dei due ha la facoltà di dividere i soldi e decidere quanti assegnarne all’altro. Il secondo giocatore può decidere se accettare o respingere l’offerta, ma se egli la respinge, nessuno dei due ottiene alcunché. Da un punto di vista razionale il secondo giocatore dovrebbe accettare qualunque offerta, perché così facendo riceverà perlomeno qualcosa. Conducendo questo esperimento innumerevoli volte in diversi Paesi del mondo, i ricercatori hanno tuttavia scoperto che quando l’offerta è squilibrata – 80/20, poniamo, invece di 50/50 – essa viene respinta. Proprio come la scimmia cappuccina che getta via il suo pezzo di cetriolo dopo aver visto offrire uva alla sua vicina, gli esseri umani preferiscono non ricevere un bel niente piuttosto che accettare un patto iniquo. Il nostro bagaglio emotivo di primati prevale sui nostri interessi economici razionali.
Un altro modo in cui il nostro cervello distorce percezioni e comportamenti è quello di indurre ad attribuirci più meriti del dovuto in caso di successo e a minimizzare le nostre colpe in occasione di un fallimento. Questo tratto comportamentale è stato descritto dallo psicologo Anthony Greenwald9 con il termine beneffectance, che deriva dalla combinazione di beneficence (“beneficenza”, letteralmente, “fare bene”) ed effectance (efficacia o competenza). Egli lo ha descritto come “la tendenza a prendersi il merito dei successi e negare ogni responsabilità per i fallimenti”. Vari studi hanno mostrato che le persone, specie in Occidente, si attribuiscono meriti eccessivi per ogni genere di cosa, dai contributi che forniscono ad attività collettive alla propria capacità di parlare in pubblico o alla misura in cui si sentirà la loro mancanza durante un evento sociale a cui non possono partecipare. Le ricerche hanno inoltre evidenziato che se si chiede a ogni membro di un gruppo di lavoro di stimare la percentuale con cui ha contribuito al risultato complessivo, alla fine – come le azioni fittizie vendute nel famoso musical di Broadway The Producers – la somma totale supera ampiamente il 100%.
La maggior parte di noi ha anche una visione estremamente ottimistica del futuro che la porta a credere – grazie alle proprie capacità di gestione dei rapporti interpersonali e alle proprie abilità intellettuali – di avere maggiori probabilità dei suoi pari di avere un matrimonio felice o una carriera di successo. Gli psicologi definiscono questo tratto caratteriale “superiorità illusoria”, ovvero il pregiudizio cognitivo che porta a sopravvalutare le virtù e sottovalutare i propri difetti. È forse meglio conosciuto come “Effetto del Lago di Wobegon”, dal nome che Garrison Keillor diede a quella città immaginaria in cui “tutti i bambini sono superiori alla media”. Il punto che Keillor intendeva così evidenziare era che tutti tendono a considerarsi superiore alla media, cosa che in realtà risulta piuttosto improbabile dal punto di vista statistico. Come scrive lo psicologo Steven Pinker in Tabula rasa:
Le persone sopravvalutano costantemente la propria competenza, onestà, generosità e autonomia. Sovrastimano il proprio contributo a un’iniziativa di gruppo, imputano i successi alle proprie capacità e i fallimenti alla sfortuna, e quando devono scendere a un compromesso pensano sempre che l’altra parte sia quella maggiormente avvantaggiata. Rimangono aggrappate a tali illusioni distorte anche quando sono attaccate a ciò che credono sia un’infallibile macchina della verità. Ciò dimostra che non stanno mentendo al ricercatore, ma a se stesse. Da decenni ogni studente di psicologia impara i meccanismi della “riduzione delle dissonanze cognitive”, grazie a cui le persone cambiano qual...