L'Italia degli anni di piombo - 1965-1978
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L'Italia degli anni di piombo - 1965-1978

La storia d'Italia #19

  1. 368 pagine
  2. Italian
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L'Italia degli anni di piombo - 1965-1978

La storia d'Italia #19

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Tra il 1965 e il 1978 un vento di tensione percorre il mondo: le Guardie rosse di Mao, il colpo di Stato dei colonnelli in Grecia, la Guerra dei sei giorni e quella del Vietnam, l'assassinio di Martin Luther King, il Watergate, il "maggio francese". In Italia le manifestazioni alla Cattolica di Milano innescano una spirale di violenze che va dalle contestazioni studentesche al cosiddetto "autunno caldo" dei grandi rinnovi contrattuali. La marea delle rivendicazioni sociali sale sempre più impetuosa, mentre un governo troppo debole la osserva inerme. Ad annunciare la lunga notte della Repubblica arriva, il 12 dicembre 1969, la bomba di piazza Fontana. Gli opposti terrorismi e la "strategia della tensione" fanno dell'odio il fil rouge di questo periodo. L'attentato di piazza della Loggia e l'Italicus, il Piano Solo e lo scandalo nel Sid, Ordine nuovo e le Brigate rosse: la nazione - devastata anche da disastri come il terremoto del Belice - vive un crescendo di orrore che culmina con il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro. Montanelli - gambizzato dalle Br nel '77 - e Cervi tracciano la storia del momento più buio nel nostro dopoguerra. E cercano, al di là dei semplici giudizi, di fare luce sui molti interrogativi che ancora cercano risposta.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858642955
Argomento
Historia
L’ITALIA DEGLI ANNI DI PIOMBO
AVVERTENZA
Questo degli Anni di piombo è stato, per Cervi e per me, il capitolo insieme più facile e più difficile da ricostruire. Il più facile perché, avendolo entrambi vissuto in prima persona e in qualità di cronisti e di commentatori dei suoi vari episodi, non abbiamo avuto bisogno di consultare molti testi e documenti: bastava la nostra memoria. Il più difficile perché questi episodi sono talmente aggrovigliati che il dipanarli ci ha costretto ad un giuoco di anticipazioni e rievocazioni che rende arduo seguire il filo del racconto.
Un’altra difficoltà è stata, per noi che ci siamo stati dentro fino al collo, prendere dagli avvenimenti la distanza necessaria a rappresentarli col dovuto distacco. Degli anni di piombo noi non siamo stati spettatori neutrali. Fondammo un giornale apposta per intervenirvi, e l’abbiamo fatto giorno dopo giorno, con quanta più incisività potevamo, e da posizioni in pieno contrasto con quelle assunte, più o meno scopertamente, da quasi tutta l’altra stampa, quotidiana e periodica, nazionale. Fu una battaglia dura e difficile, che ci ha lasciato addosso parecchie cicatrici, e non parlo soltanto di quelle materiali. Per tutti gli anni Settanta, e per i primi Ottanta, noi fummo indicati alla pubblica esecrazione come i fascisti, i golpisti, in una parola i lebbrosi. E forse saremmo ancora nel ghetto in cui ci avevano relegato, se a trarcene fuori dandoci completa ragione non fossero sopravvenuti i fatti.
Spogliarci di questo passato e parlarne come se non ci avessimo partecipato è stato, per Cervi e per me, lo sforzo più grosso. Speriamo di esservi riusciti: nei limiti, si capisce, di quell’angolatura da cui nemmeno lo storico più obiettivo e imparziale può prescindere. Per noi gli anni che vanno dalla strage di piazza Fontana all’assassinio di Moro non sono affatto «formidabili» come li dipingono certi commentatori e memorialisti di sinistra per giustificare i propri trascorsi di fiancheggiatori del terrorismo. Per noi quei «formidabili» anni furono quelli del sopruso di una minoranza ubriaca di mode e di modelli d’importazione (Marcuse, Mao, Che Guevara) su una maggioranza succuba anche perché priva di una voce che la rappresentasse. Noi fummo questa voce. E non possiamo prescinderne anche se abbiamo fatto di tutto per dimenticarcene.
Secondo noi, il bilancio di quei «formidabili» anni è tutto in passivo. Essi non si sono lasciati dietro che lutti, galere, e quella cosiddetta «cultura del sospetto» che seguita ad inquinare la nostra vita pubblica, continuamente scossa da scandali più o meno pretestuosi che proprio in quei «formidabili» anni hanno la loro origine e radice.
Ma il nostro, intendiamoci, non è un libro di denuncia. Le denunce le sporgemmo via via che i fatti ce ne offrivano il destro. Oggi che la storia ha emesso il suo verdetto, la denuncia sarebbe anacronistica e ingenerosa. È alla storia che noi abbiamo voluto dare il nostro modesto contributo. E credo che sia tempo di farlo prima che i Grandi Delusi della sinistra si approprino, come sempre fanno, anche di quella e la stravolgano a profitto delle loro sbugiardate e ridicolizzate tesi.
Se abbiamo assolto il nostro impegno, lo giudicheranno i lettori, e specialmente quelli che, come noi, hanno vissuto quel periodo. Per aiutarli a ricordare, noi crediamo di avere fatto del nostro meglio.
I.M.
CAPITOLO PRIMO
GLI ANNI DI GOMMA
Gli anni che precedettero quelli di piombo furono piuttosto anni di gomma. La situazione politica era insieme statica e friabile, con maggioranze parlamentari ognuna sempre simile alla precedente e sempre pericolanti, con governi protesi a parole verso ambiziosi traguardi e nella realtà impegnati a risolvere quotidiani bisticci di meschina bottega. I partiti maggiori erano affidati a leader di non consolidato e contestabile prestigio, tranne uno: il PSI con Pietro Nenni. Lo scriviamo pur avendo piena consapevolezza della leggenda postuma creata attorno alla figura di Aldo Moro, e in qualche modo legittimata dalla sua fine tragica.
Moro era nella primavera del 1965 – da quell’epoca riprendiamo il filo della narrazione interrotta con L’Italia dei due Giovanni – Presidente del Consiglio: e guidava un governo di centrosinistra, il suo secondo, che sarebbe stato di durata inversamente proporzionale a quella dei suoi discorsi. A fianco di Moro come vicepresidente era Nenni. Ministro degli Esteri Amintore Fanfani, recuperato dopo burrascosi incidenti. I due «cavalli di razza» della DC trottavano – l’uno diffidente se non svogliato, l’altro scalpitante ma con il morso stretto – nello stesso governo, e la carenza d’adrenalina dell’uno avrebbe dovuto essere compensata dall’abbondante dotazione dell’altro. Gli accennati infortuni inducevano Fanfani a una inconsueta prudenza, e Moro dedicava ogni sua fatica al rapporto con i socialisti.
Era un rapporto tormentato perché la DC aveva l’esigenza di non impaurire, con iniziative traumatiche, il suo elettorato moderato – di gran lunga più numeroso degli iscritti al partito – nonché le correnti che s’erano battute contro il centrosinistra; mentre, all’opposto, il PSI era smanioso di dimostrare ai massimalisti del partito – quelli rimasti dopo la scissione del PSIUP – e ai concorrenti comunisti che gli annunci di cambiamento non erano chiacchiere.
Se Moro, professionista insuperabile della divagazione e del rinvio, aveva la responsabilità dell’esecutivo, Mariano Rumor reggeva la segreteria della DC con il suo stile emolliente. L’unico decisionista, Fanfani, era di regola fuori porta, alla Farnesina o in viaggio, a covare propositi di rivincita: per il governo, per il Partito, per il Quirinale, per tutto.
Sulla sponda socialista, il settantaquattrenne Nenni era disincantato e stanco, anche per travagli familiari (in particolare la malattia dell’amatissima moglie Carmen). Nel novero dei politici di questo periodo Nenni era senza dubbio – con Saragat issato al Quirinale – quello che aveva più valide credenziali di coerenza e di coraggio, più solido prestigio internazionale, più vasta popolarità. Nelle sue scelte strategiche, era incappato in errori madornali: come quello di impegnare il Partito socialista nel Fronte popolare con i comunisti, e di votarlo non solo alla sconfitta del 18 aprile 1948, ma a un ruolo subalterno, da allora in poi, nei confronti del PCI. Convertito, aveva poi giuocato tutte le sue carte per conseguire due obiettivi: l’ingresso dei socialisti nell’area del potere – con la costituzione di governi organici di centrosinistra – e la riunificazione socialista. Gli riuscirono entrambi, il primo stabilmente, il secondo fuggevolmente. Per raggiungerli, dovette tuttavia rassegnarsi a molti compromessi con i suoi residui slanci populisti, e con le frange irrequiete d’un partito che, almeno fino a Craxi, consacrava le sue migliori energie alle lotte fratricide: d’accordo su niente e indeciso a tutto ancor più e ancor meglio (o peggio) della Democrazia cristiana.
Lasciata la segreteria del PSI per entrare nel governo, Nenni l’aveva trasmessa in eredità a Francesco De Martino, un napoletano cinquantottenne, professore di diritto romano, che nei comportamenti privati dava prova di molta bonomia e tolleranza. Ma nell’attività politica portava invece l’intransigenza rissosa che accomunava tutti gli ex militanti del Partito d’azione. Anche lui – come con più aggressivo vigore Riccardo Lombardi – ripeteva di volere molto e subito, e si atteggiava a fustigatore dei socialdemocratici, secondo lui troppo timidi nell’anelito al nuovo. «A nostro giudizio» diceva «i partiti socialdemocratici hanno abbandonato la lotta per il socialismo, sostituendovi una società di benessere, mentre noi vogliamo continuare a batterci per la trasformazione radicale della società.» Era, la sua, una visione velleitaria, ed estranea – quali che fossero i bla-bla-bla dell’intelligenza di sinistra – alle esigenze più autentiche e profonde d’una grande maggioranza di Italiani. Nella concezione di De Martino, che assimilava il benessere a una colpa, si aveva un singolare intreccio tra puritanesimo azionista e massimalismo socialista d’altri tempi: e nello stesso tempo la disponibilità a tollerare e razionalizzare le fughe nell’utopia che sarebbero venute, con il ’68 e oltre.
Nel Partito comunista non affioravano, malgrado la scomparsa di Togliatti, segni evidenti di divisione. Luigi Longo era approdato alla segreteria per successione burocratica, senza suscitare entusiasmi o contrasti. Non era del resto uomo che ispirasse sentimenti calorosi, con quella sua rudezza sbrigativa da sottufficiale piemontese. L’età – era sui sessantacinque anni, che sono pochi per un Papa, ma parecchi per qualsiasi altro incarico – non gli accreditava un lungo periodo di comando. La naturale scontrosità, che rendeva poco piacevole la sua frequentazione, lo isolava.
Anche se il suo pedigree di esule e di «moscovita» somigliava in più d’un punto a quello di Togliatti, il temperamento era profondamente diverso. Non per nulla Longo aveva impersonato il «vento del Nord» con le sue istanze rivoluzionarie, e Togliatti il PCI duttile, cinico, compromissorio della «svolta di Salerno» e dell’approvazione all’articolo 7 della Costituzione, che dava ai Patti lateranensi tra Mussolini e Pio XI il solenne riconoscimento della Repubblica antifascista. La statura intellettuale di Togliatti era senza dubbio un palmo al di sopra di quella di Longo, che aborriva le sottigliezze dottrinali e non si compiaceva delle citazioni erudite, care a Togliatti. Come Togliatti, Longo affermava che «nel Partito comunista non si può fare del dibattito un pretesto per una lotta contro il partito e la sua ideologia, motivo di rottura della necessaria unità di azione, elemento di paralisi e di disfattismo»: e non temeva di scrivere che «la verità ai fini dell’azione immediata la fissa il partito, secondo il metodo del centralismo democratico, salvo a controllarla continuamente sulla base dell’esperienza ed eventualmente a rivederla». Erano schemi rigidi che Longo ribadiva perché ci credeva, mentre Togliatti li aveva ribaditi perché gli servivano. In definitiva mancava alla ribalta politica italiana un protagonista solitario, anche se Giuseppe Saragat, che sempre s’era ritenuto tale, era stato rafforzato in questa sua ferma convinzione dall’ascesa al Quirinale. Si agitavano invece sullo sfondo molti comprimari, alcuni di presenza incisiva, altri flebili fino all’evanescenza.
Questa dirigenza a bassa caratura enunciava progetti magniloquenti, come il piano quinquennale che nel marzo del 1965 fu presentato dal Ministro del Bilancio, il socialista Giovanni Pieraccini (e che la sinistra del suo partito, infallibile nel rinunciare all’uovo di oggi per non avere la gallina domani, bocciò subito come inadeguato: senza capire che sarebbe stato un miracolo se fosse approdato a qualcosa, pur nella sua modestia). Nel giugno dello stesso anno Luigi Preti, Ministro senza portafoglio per la Riforma burocratica, annunciò che il personale direttivo della pubblica amministrazione sarebbe stato ridotto del venti per cento in breve volgere di anni. Com’era inevitabile, non se ne fece niente. La pletora dei laureati in legge sfornati dalle università meridionali premeva perché i posti pubblici fossero aumentati, non ridotti. Lo Stato continuò ad ingaggiare futuri inutili dirigenti generici, mentre già trovava difficoltà a reperire ingegneri o ricercatori scientifici ben altrimenti utili. L’amministrazione accentuava le caratteristiche corporative per le quali ogni provvedimento – deliberato dalla debole classe politica ma sollecitato dalla potente burocrazia – soddisfaceva le esigenze degli addetti all’amministrazione stessa, non quelle dei cittadini.
Nella fioritura di scandali che contrassegnò quel periodo – e ogni altro del dopoguerra italiano in un inquietante crescendo – ve ne furono alcuni che colpirono grands commis dello Stato in vena d’efficientismo e di sganciamento da eccessive sudditanze partitiche; come il professor Felice Ippolito del CNEN (Comitato nazionale per l’energia nucleare) o come il professor Domenico Marotta dell’Istituto superiore di Sanità. Entrambi avevano vagheggiato di far procedere gli enti in cui agivano con una certa snellezza, svincolandoli in qualche modo – ed erano modi illegali, secondo l’accusa – da complesse, dilatorie e a volte demenziali pastoie regolamentari.
Altri scandali furono più consueti: maggiore tra tutti, perché comprometteva un ex Ministro delle Finanze democristiano, lo scandalo dei tabacchi. Esso investì Giuseppe Trabucchi, notabile DC, presidente della Banca cattolica del Veneto, senatore. Nel maggio del 1965 egli fu rinviato a giudizio dalla Corte d’Appello di Roma per abuso di potere: ossia per aver consentito traffici e speculazioni sospetti nell’importazione di certi tabacchi messicani, che erano coltivati laggiù da società italiane, e che erano stati importati con autorizzazione speciale del Ministro, nonostante l’opposto parere dei suoi consiglieri tecnici. Trabucchi si giustificò sostenendo d’aver dovuto consentire l’importazione perché una malattia della pianta aveva falcidiato la produzione nazionale.
L’accusa sosteneva invece che Trabucchi – noto nel mondo politico perché non portava quasi mai la cravatta – avesse voluto favorire due società concessionarie dell’importazione di tabacchi di cui era azionista un altro democristiano influente, Carmine De Martino (niente a che fare con il De Martino socialista), salernitano, già sottosegretario di Stato e leader d’una corrente moderata, quella dei «vespisti», che aveva avuto una certa notorietà.
Il bubbone era scoppiato su denuncia di ditte concorrenti della SAIM e della SAID, che a Carmine De Martino facevano capo. In un primo momento la commissione inquirente, cui l’istruttoria era stata trasmessa dalla magistratura ordinaria, aveva prosciolto Trabucchi: che fu egualmente portato davanti ai due rami congiunti del parlamento perché il giudizio contro di lui era stato chiesto dalla metà più uno dei parlamentari (socialisti, comunisti, liberali, repubblicani, social-proletari, missini). Vale a dire che la sola Democrazia cristiana era rimasta a far quadrato attorno all’imputato. Al voto conclusivo, il 20 luglio 1965, 461 deputati si pronunciarono per la messa in stato d’accusa di Trabucchi, 440 per la sua assoluzione. Fu scagionato, per un motivo meramente tecnico. Il quorum richiesto era della metà più uno dei componenti le due assemblee, 476. Di sì la mozione ne aveva raccolti, a causa delle assenze, quindici in meno. Anche se la maggioranza del parlamento era contro di lui, Trabucchi usciva dunque indenne dal «processo». La scena che seguì non fu edificante. Attorno a Trabucchi si strinsero gli amici di partito, prorompendo in gridi di «viva» al suo indirizzo, al che Giancarlo Pajetta sbottò: «Dategli una medaglia». Poi i comunisti scandirono «ladri-ladri-ladri», e i democristiani replicarono «assassini-assassini-assassini». I «laici» stavano a mezza strada, diffidenti, e alcuni anche sinceramente indignati. In questa circostanza – come nell’altra, che verrà a distanza di alcuni anni, dello scandalo Lockheed – la DC si sentì assediata, e reagì con una baldanza difficilmente distinguibile dall’arroganza all’accerchiamento degli altri partiti.
La verità vera è che in quei remoti scandali finanziari, come in altri che sarebbero seguiti, la classe politica non è mai stata in grado di giuocare a carte scoperte. Ogni casa partitica aveva nei suoi ripostigli, se non innumerevoli scheletri, certo innumerevoli code di paglia. Taciuta ma incombente era la convinzione dei partiti di governo, a cominciare dal partito che più d’ogni altro meritava questa qualifica, la DC, che malversare o incassare tangenti per il partito non fosse un reato, ma una buona azione. Posto così il problema, la discriminante non era più tra gestione onesta e gestione disonesta del denaro pubblico, ma tra gestione disonesta a fini di partito e gestione disonesta a fini privati. Il grande equivoco spiegava gli indecenti applausi a chi – pur graziato da un marchingegno tecnico – era stato bollato dalla maggioranza del parlamento; così come avrebbe spiegato altre appassionate difese. Non solo di democristiani a sostegno di democristiani, sia chiaro. Allo stesso modo i comunisti avevano tranquillamente incassato quattrini provenienti da Mosca, e lucravano percentuali sull’export-import con i Paesi dell’Est. Che poi nell’arraffa arraffa pubblico potessero trovar posto anche colpi di mano lesta privati era immaginabile, e inevitabile. Impinguato e ammorbato dal metano, inquinato dal tabacco, o dalle banane, o dagli aerei, il Palazzo non era e non fu mai di vetro, né allora né dopo.
Nei quotidiani gonfi di titoli a tutta pagina per lo scandalo dei tabacchi o per la guerra del Vietnam – che aveva riverberi continui sulla politica interna – meritò rilievo assai più modesto un avvenimento che pure stava ad indicare molte cose, sul piano economico e sul piano politico: la firma, il 4 maggio 1965, dell’accordo tra la FIAT e la dirigenza della pianificazione sovietica per la costruzione sul Volga di una grande fabbrica di auto.
Più che ottantenne, il presidente della FIAT Vittorio Valletta chiudeva con quell’ultimo successo un itinerario manageriale non privo di errori, ma ricco di intuizioni audaci, soprattutto in rapporto agli umori dominanti nel mondo imprenditoriale. Valletta non aveva intravisto i pericoli del gigantismo di Mirafiori, né i problemi che sarebbero stati creati dalla calata su Torino d’una mano d’opera meridionale ansiosa di trovare un’occupazione purchessia, ma presto – almeno in parte – frustrata dal traumatico cambio d’ambiente, dai ritmi rigorosi del lavoro di fabbrica, dal gelo d’una città che la respingeva o la emarginava. Capì invece, Valletta, che l’ingresso dei socialisti nel governo era un fatto inevitabile, e che le sparate massimaliste di alcuni tra loro erano sfoghi verbali, non concreti programmi d’azione. Nel suo pragmatismo spregiudicato egli badava alla sostanza, non alle chiacchiere. Durante una visita agli stabilimenti della FIAT, Kossighin, uno dei grandi del Cremlino, gli aveva detto: «Abbiamo molte cose da imparare da voi». Tranquillo, Valletta aveva ribattuto: «E noi abbiamo da imparare da voi come si fa a impedire gli scioperi». In effetti Valletta, nominato senatore a vita nel novembre 1966, e morto l’estate dell’anno successivo, non ebbe modo di assistere al dilagare di scioperi e di turbolenza operaia del decennio successivo. Il suo paternalismo illuminato sarebbe stato messo a dura prova da quella tempesta, che gli fu risparmiata. Fu poco sensibile al rumoreggiare di terremoto che stava sotto la superficie stagnante dell’Italia. Percepì invece molto bene quanta stanchezza vi fosse in URSS per i sacrifici che venivano chiesti in nome di future e, stando alle mai mantenute promesse, più fortunate generazioni. Il compagno Ivan esigeva qualcosa subito.
Citiamo dal diario di Nenni, in data 2 settembre 1966: «Ricevuto la visita di Valletta sulla entità e le prospettive dell’accordo con l’URSS per la costruzione sul Volga di una azienda automobilistica capace di produrre duemila vetture al giorno, la metà della produzione della FIAT. L’accordo è stato molto contrastato dalla Francia per ragioni di concorrenza; non dall’America, almeno non dal governo americano. Il tipo di vettura prescelto è la 124 FIAT con a...

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