I nemici della rete
eBook - ePub

I nemici della rete

  1. 271 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub
Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

La rete è la moderna frontiera della libertà e della democrazia. Luogo che apre canali di condivisione e scambio, internet è un diritto irrinunciabile, e la sua tutela l'unità di misura di un Paese civile. Nella corsa al digitale, perÒ, l'Italia è il fanalino di coda dell'Occidente e il ritardo accumulato rischia di condannare i nostri figli a crescere in un Paese del terzo mondo. Ma qual è il freno che ci tiene inchiodati al passato? A chi giova l'ostinazione all'arretratezza che risulta evidente nei rapporti tra potere e web? In un'inchiesta accurata e coraggiosa Arturo Di Corinto e Alessandro Gilioli svelano il lato oscuro di una catena di ottusità e interessi: leggi che sono al limite della censura, una burocrazia che è un pachiderma mangiasoldi, un'opposizione politica maldestra che nasconde la difesa di lobby intoccabili, fondi destinati all'innovazione che restano congelati nelle casse dello Stato, l'astio di una certa casta di giornalisti che vede tremare una tradizione di privilegi. Ma in un'Italia in affanno, gli autori raccontano anche le storie dei pochi illuminati che hanno visto nel web una risorsa, non soltanto per le proprie tasche, indicando così la strada perché il futuro non resti per noi soltanto un'ipotesi

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a I nemici della rete di Arturo Di Corinto, Alessandro Giglioli in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Social Sciences e Media Studies. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
BUR
Anno
2011
ISBN
9788858618165

1. Non è un Paese per internet

Perché il nostro Paese è in fondo
a tutte le classifiche digitali

Sognando le autostrade del web

Secondo l’Istat il 96,1 per cento delle famiglie italiane ha almeno un televisore, mentre soltanto il 47,3 ha un accesso a internet (superato perfino dal vecchio videoregistratore, ancora presente nel 55,7 per cento delle case). Ancora nel 2010, oltre il 50 per cento degli italiani non ha mai messo le mani su un computer connesso alla rete. Tra quelli che invece si collegano – un numero che va da 18 ai 23 milioni a seconda delle diverse statistiche – si contano anche quanti lo fanno molto saltuariamente (perfino una sola volta al mese) o prevalentemente per spedire e ricevere e-mail (79,1 per cento) o che frequentano un numero limitatissimo di siti, vuoi il proprio social network vuoi quelli a luci rosse.
L’Istat rileva inoltre il divario crescente nell’uso del web tra Nord e Sud, tra giovani e anziani, ma anche tra città e campagna, complici le difficoltà di avere un decente collegamento alla rete fuori dai grandi centri urbani. Il commercio elettronico, sia per i sistemi di distribuzione della merce poco affidabili sia per l’antica diffidenza nostrana nell’usare la carta di credito on line, fa registrare dati ancora peggiori: da noi rappresenta solo lo 0,8 per cento degli acquisti totali, contro il 9,5 della Gran Bretagna, il 6,9 della Germania e il 4,9 della Francia. Secondo Internet World Stats, la penetrazione della rete in Italia tra il 2000 e il 2009 è cresciuta in tutto del 127,5 per cento, un risultato che pone il nostro Paese al ventunesimo posto in Europa per penetrazione del web nella popolazione dopo Polonia, Repubblica Ceca, Cipro e Ungheria.
L’analfabetismo informatico denunciato dai numeri è accompagnato da un pesante ritardo nelle infrastrutture: siamo in coda alle classifiche europee secondo tutti gli studi, da quelli dell’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) a quelli di Between, importante società di consulenza nel settore delle telecomunicazioni.
Per l’Istat, le famiglie italiane con almeno un componente tra i 16 e i 64 anni che possiedono un accesso al web in banda larga (quello che consente una qualità di connessione sufficiente per scaricare foto e video) sono il 39 per cento di chi va in rete, rispetto a una media europea del 56. Ma i numeri reali sono anche più bassi, perché quella che da noi viene contrabbandata per banda larga spesso non è tale: ad esempio, secondo l’ultimo rapporto delle Università di Oxford e Oviedo (basato su 24 milioni di test) la velocità reale della nostra banda larga è paragonabile a quella dell’Ucraina, anch’essa nella fascia più bassa della classifica europea. Nella graduatoria annuale del Broadband Quality Index siamo al trentottesimo posto sui 66 Paesi analizzati con una qualità di connessione che è pari a 28,1 punti su una scala da zero a 100: lontano da quei 50 punti considerati indispensabili per utilizzare in modo soddisfacente le applicazioni che si affermeranno nell’arco dei prossimi cinque anni.
Grazie a Wikileaks, il sito che si occupa di far trapelare le iniziative top secret di Stati e governi, è stato reso noto un documento stilato dal superconsulente italiano sulle questioni internettiane, Francesco Caio. Vi si denuncia il pessimo stato della rete in Italia che, non riuscendo più a sostenere la crescente quantità di dati, è «colpita da un processo simile all’osteoporosi». E si sottolinea il bluff di tanta ingannevole pubblicità degli operatori per «Adsl velocissime» che invece si impallano appena provi a scaricare le foto di matrimonio del tuo migliore amico.
Critiche non dissimili vengono da un’altra autorità, il presidente di Agcom Corrado Calabrò: «Nelle ore di picco gli utenti navigano lenti, anche se le loro Adsl promettono velocità favolose». Dati confermati dalla ricerca di Between effettuata con 120 mila test nell’aprile 2010, che rivela come le prestazioni reali dei collegamenti in banda larga siano pari al 55 per cento della velocità dichiarata dagli operatori, che è sempre quella massima: i sette o addirittura venti megabit al secondo promessi quando vendono l’Adsl si trasformano in due o tre megabit al secondo reali, a meno che non si navighi quando tutti gli altri dormono (dalle due alle sette del mattino). Più che autostrade digitali, quelle italiane sembrano mulattiere.
Ma non è solo una questione di velocità. Nel suo rapporto Caio spiega che la rete italiana, invecchiando, diventa sempre meno affidabile, meno stabile. Un paradosso, dal momento che comunicazioni importanti – scambi economici, rapporti con ospedali, la pubblica amministrazione, l’ufficio – avrebbero bisogno sempre più di andare su internet.
Inoltre, il consulente del governo punta il dito sul problema della copertura: se otto italiani su dieci sono senza una vera banda larga, un ottavo della popolazione non può nemmeno arrivare al minimo indispensabile (almeno due megabit al secondo) perché abita in aree mal collegate. Nonostante le intenzioni dichiarate, le grandi aziende non sembrano aver intenzione di portare la rete veloce dove non è profittevole, come in molte zone montane che non offrono la certezza dei ritorni in termini di numeri e abbonamenti. Inoltre pur di bloccare potenziali competitor, fanno blocco a livello europeo e italiano per impedire la diffusione di servizi concorrenziali ai loro, come nel caso del Voip (le telefonate via internet, tipo quelle su Skype) e dei cosiddetti «mesh network», quei sistemi che consentono di creare un’ampia area gratuita di connessione da pc a pc, scavalcando in buona parte gli operatori.

Il fantomatico piano Romani

Sino a oggi in Italia nessun governo si è mai occupato dei gravi ritardi infrastrutturali del nostro Paese. E tra i politici pochissimi ammettono che lo scarso sviluppo della rete costituisce un vero problema. Quando vengono interrogati sulla questione, quasi tutti gli esponenti del Palazzo si confessano ignari dell’argomento e rimandano pigramente alle promesse contenute nel cosiddetto «piano Romani».
Il piano prende il nome dal viceministro allo Sviluppo economico con delega alle comunicazioni del quarto governo Berlusconi, Paolo Romani. L’obiettivo dichiarato era di portare entro il 2012 un collegamento di buona qualità (20 megabit) al 96 per cento della popolazione e una connessione decente (almeno i due megabit) alla parte restante. Un progetto minimo, della durata prevista di quattro anni, il cui costo sarebbe così ripartito: 210 milioni di euro provenienti da privati e un miliardo e 160 milioni provenienti da finanziamenti pubblici (di questi, 800 milioni già assegnati dalla Finanziaria 2008 alla banda larga, i restanti stanziati in precedenza dal governo Prodi o costituiti dai Fas, i fondi europei destinati alle aree depresse).
Mai veramente partito, il piano è stato di fatto bloccato nel novembre del 2009 da Gianni Letta, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio: «Quando avremo la certezza che quelle risorse non serviranno per la protezione sociale o per l’occupazione, che sono le nostre principali priorità, allora la prima delle nostre priorità sarà la banda larga. Ci siamo presi un momento di riflessione e di analisi in funzione della diversa scala di priorità che poteva nascere dalla crisi».
A metà del 2010 la «riflessione» dev’essere ancora in corso, perché i soldi per la rete non sono mai stati sbloccati e la montagna ha partorito un topolino: 20 milioni di euro di «incentivi» ai contratti Adsl per i giovani. Una regalia per i provider e spiccioli per gli utenti.
Così tutti i numeri delle ricerche di settore confermano il freno tirato nella corsa al digitale. Nel rapporto del Global Information Technology, pubblicato nel marzo 2010 dal World Economic Forum, l’Italia è al quarantottesimo posto nel mondo per tendenza all’innovazione, tre gradini più in basso rispetto alla stessa classifica dell’anno precedente. Il rapporto analizza il ruolo svolto dall’Ict, l’Information and Communication Technology, nel favorire la crescita economica e lo sviluppo sociale e valuta la preparazione di privati e governi ad abbracciare la rivoluzione tecnologica. Al primo posto, nel 2010, si trova la Svezia, seguita da Singapore e Danimarca. Nella top ten compaiono, nell’ordine, Svizzera, Stati Uniti, Finlandia, Canada, Hong Kong, Olanda e Norvegia. Per quanto riguarda le nazioni europee, oltre a quelle citate, l’Inghilterra si piazza tredicesima, la Germania quattordicesima, la Francia diciottesima, l’Austria ventesima, il Belgio ventiduesimo e l’Irlanda ventiquattresima. In Italia, spiega l’indagine, «sia il mercato sia la cornice normativa non sembrano essere fattori di innovazione tecnologica e di sviluppo e una bassa priorità viene data dal governo all’uso e alla diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione nell’ambito della sua strategia complessiva».
Il rapporto di Assinform, l’Associazione nazionale delle aziende di servizi di informatica e telematica, del 2010 è ancora più esplicito. «Il ritardo tecnologico con gli altri Paesi sta crescendo, a seguito di una contrazione dell’Information Technology tra le più consistenti, pari a meno 8,1 per cento» scrivono i ricercatori. «Tra i Paesi avanzati, il nostro è quello che, nel 2009, ha più aumentato il gap tra Pil e investimenti in Information Technology, rivelando un Paese ripiegato su se stesso, che sembra aver perso coraggio, che ha paura di investire e rischiare.» E ancora: «Il disinvestimento italiano in Information Technology, pari a 1657 miliardi di euro, è un segnale allarmante di arretramento del Paese verso assetti strutturali di basso profilo competitivo, che rischiano di condannarci alla stagnazione. Le istituzioni pubbliche e le imprese appaiono intrappolate da un approccio dal respiro troppo corto, che non riesce a superare l’orizzonte contingente dell’emergenza. Sono arretrati tutti i parametri del mercato: hardware meno 14,8 per cento, software meno 3,6 per cento, servizi meno 6,5 per cento; grandi imprese meno 10,3 per cento, medie imprese meno 7,3, piccole imprese meno 8. L’innovazione, strumento indispensabile per lo sviluppo, sembra sparita dal vocabolario della politica economica e delle misure anticrisi». Commenta Juan Carlos De Martin, rappresentante di Creative Commons Italia e cofondatore del centro di ricerca Nexa di Torino: «In Italia tendiamo a vedere internet come un problema, una minaccia, anziché un’opportunità. La classe dirigente dovrebbe preoccuparsi di alfabetizzare la popolazione italiana, che è tra le più anziane e meno scolarizzate dei Paesi sviluppati, all’era digitale, garantire l’accesso alla rete a tutti e educare all’uso consapevole, a distinguere le fonti, come si impara a guidare l’automobile. Altrimenti l’Italia resterà tra i Paesi sviluppati più arretrati».
Appunto: ancora sviluppati come Pil, ma sempre più lenti come innovazione. È il dato che emerge anche dal Connectivity Scorecard 2010, una ricerca su base mondiale condotta della Haskayne School of Business, dall’Università di Calgary e dalla società di consulenza economica Lecg, che valuta in quale misura i governi, le aziende e i consumatori utilizzano le tecnologie di connessione per migliorare la prosperità economica e sociale. Il risultato è che l’Italia si trova al ventiduesimo posto sui venticinque Paesi analizzati e scivola addirittura di tre posizioni rispetto allo stesso studio condotto nel 2009. «La quantità di popolazione che utilizza frequentemente internet in Italia è meno della metà dei livelli ottenuti da alcune delle nazioni più avanzate» scrivono i ricercatori nelle conclusioni.

Un uovo di Colombo chiamato WiMax

Eppure, se ci fosse la volontà comune di uscire dallo stallo, alcune possibili soluzioni ci sarebbero: una, ad esempio, si chiama WiMax. È la tecnologia che consente l’accesso a reti di telecomunicazioni in banda larga e senza fili, in pratica una «nuvola» di connessione che può arrivare (a seconda delle condizioni) anche a parecchi chilometri e che può renderla utilissima lontano dalle città, dove non c’è cablaggio. Il WiMax è quattro volte più veloce dell’Umts, il sistema oggi usato dagli operatori telefonici per consentire il collegamento alla rete dai telefonini o dalle chiavette nei pc. Pensato inizialmente per le aree urbane e metropolitane, è particolarmente prezioso per battere il «digital divide» (cioè la frattura tra chi è connesso a internet e chi no) dove ci sono ostacoli naturali, urbanistici o archeologici, grazie alla sua particolare modulazione di frequenza.
Inoltre il WiMax non è solo connettività per navigare sul web, telefonare via internet o stare sui social network: proprio per le sue caratteristiche tecniche è adatto ai servizi di videosorveglianza, di monitoraggio del rischio idrogeologico, di scambio di dati fra le amministrazioni sanitarie. E allora perché non lo si usa in Italia?
Le motivazioni della mancata implementazione di questa tecnologia sono diverse, ma fra queste c’è anche l’ostruzionismo dei gestori telefonici, soprattutto quelli che utilizzano un’altra tecnologia (l’Umts appunto) per la comunicazione in mobilità e vedono dunque nel WiMax un pericoloso concorrente per economicità e potenza.
Secondo Alessandro Bordin, uno studioso che ha dedicato diverse ricerche al tema, il problema principale è proprio di fatturato, perché il WiMax non consente gli stessi margini di guadagno agli operatori di rete fissa e mobile rispetto alle tecnologie attuali. Dice Bordin: «Le aziende delle telecomunicazioni hanno investito molto in infrastrutture 3G e 3,5G, e adesso devono coprire i costi e fare grandi margini, in una misura ovviamente ignota al di fuori dei consigli di amministrazione». Morale: «Il WiMax non arriverà finché non ci avranno prima spremuto per bene con tariffazione di connessioni 3G e 3,5G e traffico dati in genere». In altre parole: esiste una tecnologia di connessione alla rete, il WiMax, la cui realizzazione costituirebbe un vantaggio per tutto il Paese, ma che viene di fatto ritardata – se non ostacolata – per interessi di settore.

L’intreccio diabolico

Le cause dell’arretratezza di cui soffre il nostro Paese, tuttavia, sono molte, e di diversa natura, anche se strettamente intrecciate tra loro. Sarebbe sbagliato pensare che si tratti solo ed esclusivamente di una questione di soldi pubblici che non ci sono o che vengono dirottati su altro, e che basterebbe l’implementazione di reti di nuova generazione e l’ammodernamento della rete esistente per mettersi al passo con i tempi.
Un Paese con un’età media alta come il nostro ha inevitabilmente una tendenza all’innovazione ridotta e i problemi di istruzione da cui è afflitto sono gravissimi, anche al di fuori dal web. Basti pensare al nostro 36,5 per cento di analfabetismo funzionale (la media Ue è del 14,9 per cento), cioè persone che a fatica riescono a leggere i titoli dei giornali, gli orari dell’autobus e in generale a capire istruzioni scritte, e che alle poste hanno bisogno dell’aiuto degli impiegati per mandare una raccomandata. Queste, come dice il linguista e studioso di democrazia elettronica Luca Nobile, «difficilmente si metteranno in casa un attrezzo dotato di tastiera Qwerty, per accedere a un mondo dove le cose si cercano scrivendo delle parole».
C’è poi un altro aspetto, che è diverso ma correlato al precedente: l’enorme difficoltà di una vasta fascia della popolazione a emanciparsi dal medium televisivo e quindi una maggiore lentezza nel passaggio verso il consumo di massa della comunicazione via internet. Quasi che vi fosse una resistenza a un passaggio «oltre la tv» che negli altri Paesi sviluppati è già avvenuto o sta avvenendo a una velocità maggiore.
Ma dietro al ritardo italiano c’è anche la paura di una classe dirigente – di un establishment economico – che vede la rete come un fattore di potenziale dinamicizzazione sociale, una sorta di detonatore che rischia di far scoppiare le vecchie rendite di posizione e di rendere troppo mobile la piramide delle classi. C’è poi un ceto politico che in larga misura non ama le disintermediazioni tipiche del web (cioè il «dover rispondere» direttamente agli internauti-cittadini del proprio operato) o che semplicemente ha cointeressenze con una piattaforma mediatica diversa, come la tv. C’è infine una corporazione giornalistica spesso preoccupata dai fenomeni provocati dalla rete nel suo vecchio orticello e dalla mancanza di un valido modello di business alternativo a quello che per decenni ne ha garantito la perpetuazione e talvolta i privilegi.
Insomma, ci sono cause diverse e complesse, a cui bisogna aggiungere anche la difficoltà italiana nell’interiorizzazione di un nuovo concetto di libertà di cui invece molto si parla in altri Paesi: quello della «libertà d’impressione», che sta al nostro secolo come il principio della «libertà d’espressione» stava all’epoca illuminista.
A teorizzare la libertà d’impressione, rovesciando l’articolo 19 della Dichiarazione dei diritti umani dell’Onu, sono stati per primi due scienziati della politica canadesi, Marshall Conley e Christina Patterson. Gli studiosi, nel libro Human Rights and The Internet [Mc Millan, New York 2000] hanno introdotto la formula sostenendo che «la rete, facilitando la diffusione della conoscenza, incrementa […] il valore della cittadinanza». L’accesso al web cioè accresce verticalmente la possibilità di farsi un’opinione e di manifestarla, grazie alla molteplicità di fonti, notizie e punti di vista frequentabili on line.
Quando arrivò sugli scaffali, la visione di Conley e Patterson pareva un po’ troppo pionierista, in un periodo in cui gli utenti del web erano pochi milioni in tutto il mondo. Poi però le cose sono cambiate e oggi i cybernauti sono oltre un miliardo e mezzo, con previsioni di raddoppio entro il 2013, e quindi si sta cominciando a capire che l’accesso a internet è un corollario del diritto alla libertà individuale, perché fornisce quegli strumenti critici attraverso i quali ci si forma un’opinione. La possibilità reale di andare in rete insomma non è più vista come un lusso o un orpello, ma come una condizione per potere esercitare gli altri diritti, come appunto la libertà di opinione e di espressione.
Così quella che sembrava un’utopia da teste d’uovo ha iniziato a essere discussa nelle sedi istituzionali, come l’Internet Governance Forum, il «parlamento» mondiale della rete, che sta cercando di arrivare a definire un «Bill of Rights», cioè una carta che stabilisca gli elementi costitutivi della cittadinanza digitale. L’obiettivo dovrebbe essere poi un riconoscimento formale di questi diritti, magari una convenzione da far firmare agli Stati. Non c’è bisogno di un testo infinito e astratto: basterebbe far proprio il principio enunciato da Hamadoun Touré, segretario generale dell’International Telecommunication Union, secondo il quale «i governi del mondo dovrebbero considerare la rete un’infrastruttura di base, come le strade, lo smaltimento dei rifiuti e l’acqua».
Non si tratta di sole teorie, lontane dai bisogni dei cittadini. Basta pensare che secondo un sondaggio condotto da GlobeScan per la Bbc (con un campione di 27 mila persone in ventisei Paesi diversi) quasi quattro intervistati su cinque ritengono che l’accesso a internet sia un diritto umano. In Giappone, in Messico e in Russia circa i tre quarti degli intervistati hanno dichiarato di considerare la rete una componente irrinunciabile della propria esistenza, mentre per il 96 per cento dei sudcoreani e il 90 per cento dei turchi l’accesso a internet dev’essere considerato un diritto fondamentale.
E, seppur tirata per la giacca, anche la Corte costituzionale francese ha dovuto affrontare il problema. Colpa o merito di Nicolas Sarkozy e della sua battaglia contro i «pirati» di internet, cioè gli utenti che scaricano musica e film in violazione del diritto d’autore. Pe...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. BUR
  3. Frontespizio
  4. Prefazione
  5. Dedica
  6. Capitolo 1: Non è un Paese per internet
  7. Capitolo 2: Il Cavaliere nella rete
  8. Capitolo 3: Inseguendo Obama
  9. Capitolo 4: Dura lex sed Net
  10. Capitolo 5: Il cyberspazio non è Onorevole
  11. Capitolo 6: I nemici di internet
  12. Capitolo 7: E l’azienda è ancora off line
  13. Capitolo 8: Cittadini digitali
  14. Capitolo 9: Fratelli di e-talia
  15. Conclusioni: Sarà un Paese per internet?
  16. Bibliografia essenziale
  17. Ringraziamenti