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La nostra guerra nucleare
Il senso di quello che è successo è troppo grande, troppo profondo per poterlo afferrare, ma qualcosa si può intuire. Le persone hanno capito immediatamente che il nucleare è finito per sempre. Alcuni capi di Stato hanno già preso posizione contro le centrali, sanno che continuare sarebbe la loro fine politica.
La Svizzera ha bloccato l’iter per la costruzione dei nuovi impianti: attualmente ce ne sono cinque funzionanti che producono il 40 per cento dell’energia elettrica del Paese, e altri tre sono in fase di approvazione. I siti avrebbero dovuto essere indicati a metà del 2012. Ma dopo il terremoto il governo ha ritenuto più opportuno fermare i progetti in attesa di rivedere gli standard. «La sicurezza è la nostra priorità» ha fatto sapere il ministro dell’Energia Doris Leuthard.
In Germania sette centrali saranno fermate per tre mesi. L’anno scorso Angela Merkel aveva deciso di estendere la loro vita di dieci anni, fra il malcontento generale. Subito dopo Fukushima, la cancelliera si è affrettata a rimangiarsi tutto e a sospendere la loro attività. Una mossa solo politica secondo molti, ma almeno loro stanno riconsiderando il problema.
Personaggi che finiranno presto nel dimenticatoio del ridicolo con le loro affermazioni nucleariste. La Prestigiacomo è l’unico ministro dell’Ambiente al mondo che vuole nuove centrali nucleari. Prima invita i cittadini a non giungere a conclusioni affrettate sull’onda dell’emotività, poi dice ai suoi: «È finita, non possiamo mica rischiare le elezioni per il nucleare. Non facciamo cazzate. Bisogna uscirne ma in maniera soft. Ora non dobbiamo fare nulla, si decide tra un mese».
Lei, Testa, Veronesi, Berlusconi, Cicchitto, Scaroni, Maroni, Casini, Fini, Frattini e i pennivendoli fusi del nocciolino nucleare sono come i fascisti che giravano in divisa da federale dopo il 25 aprile. Eccezionale la supercazzola di Fabrizio Cicchitto, secondo il quale la posizione del governo italiano sul nucleare «rimane quella che è, non è che si può cambiare idea ogni minuto», o la memorabile sententia di Veronesi, oncologo di mestiere ed esperto nucleare nel tempo libero: «Le centrali sono sicure. Chi è contrario è fermo a una vecchia mentalità ideologica che si basa su presupposti sbagliati».
Il ministro per lo Sviluppo economico Paolo Romani conferma la linea del governo: «Tutti i Paesi europei hanno centrali. Il 19 per cento dell’energia che consumiamo in Italia è prodotta dal nucleare, è inimmaginabile tornare indietro su un percorso già attivato».
Il Parlamento italiano è peggio dei reattori di Fukushima. Il nucleare non è di destra né di sinistra, è un grande affare per tutti. Investito dalle radiazioni provenienti dal Giappone, risvegliato come un novello Paolo di Tarso sulla via dell’atomo, il Pdmenoelle si sta esercitando a fare la faccia scura antinucleare di fronte allo specchio e agli elettori. L’importante è abbaiare, poi nel retrobottega ci si mette d’accordo tra cooperative rosse e bianche e Lunardi, con la Tav di Chiamparino e Fassino, con la costruzione della più grande base militare americana in Europa a Vicenza, benedetta da Bersani, con gli inceneritori e, ovviamente, con le centrali nucleari.
Quel che è certo è che presto, a distanza di pochi giorni o di qualche mese, gente così non potrà più permettersi di sparare stronzate. Le loro dichiarazioni sono da conservare per il futuro, i loro volti, i video, le argomentazioni sono la testimonianza di un preciso momento: l’ultimo.
Peccato che l’elettricità incida solo per il 20 per cento nella produzione di energia e che le emissioni di CO2 derivino principalmente dagli impianti di riscaldamento e dal traffico. Il ritorno al nucleare non risolverebbe nessuno dei problemi presi in considerazione. In compenso ne creerebbe di nuovi: a partire da quello economico – chi pagherebbe i nuovi impianti? – per finire con lo smaltimento delle scorie.
A chi ha cercato di farlo ragionare, Scajola rispondeva caparbio: «Nucleare scelta obbligata per non restare a secco di energia». Pronunciato il diktat, ha indorato la pillola proponendo uno sconto sulla bolletta a chi vive vicino alle centrali. Che dia lui l’esempio con una discarica nucleare nel suo giardino. La bolletta gliela pago io.
I siti ipotizzati per il nucleare sono sempre gli stessi, già messi alla prova dalla prima stagione nucleare italiana: Sessa Aurunca, Trino Vercellese, Caorso, Borgo Sabotino, a cui si aggiunge Montalto di Castro (dove era in costruzione una centrale bloccata dal referendum). Del resto le aree su cui puntare l’attenzione non possono essere molte in un Paese a rischio sismico come l’Italia, con una densità di popolazione di 200 persone per chilometro quadrato. Già quest’ultimo dato dovrebbe escludere a priori il ritorno al nucleare: una tragedia da noi farebbe migliaia e migliaia di vittime perché siamo ammassati come formiche su un lembo di terra.
Ma non è tutto. Una centrale ha bisogno di un enorme quantitativo di acqua per refrigerare il reattore. E deve essere dolce, perché quella di mare rischia di corrodere e indebolire la struttura. Quindi o si desalinizza l’acqua (come si propone per Montalto di Castro) con un ulteriore aumento dei costi, o si sfruttano i fiumi. Che però in estate vanno costantemente in emergenza idrica: da anni ormai anche il Po ha una portata insufficiente a garantire l’irrigazione e il fabbisogno privato. Cosa succederebbe se si aggiungessero i consumi ingenti di una centrale?
Nella lista delle località «idonee» – a livello di spazi e di conformazione geologica – sparse in ventidue province su tutto il territorio nazionale, rimangono pochissime aree: la provincia di Vercelli, quella di Pavia, l’isola toscana di Pianosa, e le province sarde dell’Ogliastra, di Nuoro e di Cagliari. Ma la questione della Sardegna è spinosa: nel nord dell’isola le spiagge sono inquinate dal petrolio della E.On. Nel sud è prevista una colata di cemento nella meravigliosa costa Verde.
Per non farsi mancare niente, nel futuro dell’isola potrebbe esserci anche il nucleare. Il prossimo 15 maggio il presidente della regione Ugo Cappellacci chiederà ai sardi di rispondere alla domanda: «Sei contrario all’installazione in Sardegna di centrali nucleari e di siti per lo stoccaggio di scorie radioattive da esse residuate o preesistenti?». Il referendum è consultivo. Qualunque sia la risposta, le centrali le potranno fare lo stesso. Cappellacci nel febbraio del 2009 aveva detto: «Da noi nessuna centrale. Dovrebbero passare sul mio corpo prima di fare una cosa simile. Berlusconi manterrà le promesse fatte».
In generale, si prevede una diminuzione della richiesta relativa di nucleare, petrolio e carbone, e un aumento di energia ottenuta da gas e fonti rinnovabili. Secondo il Wwf la quota di energia elettrica prodotta nel mondo col nucleare è il 16 per cento del totale complessivo, ma andrà progressivamente diminuendo all’8 per cento. Si tratta di dati medi, che tengono conto tanto di colossi come gli Stati Uniti (104 centrali operative e una in costruzione) o la Francia (58 centrali in funzione e una in costruzione), quanto di Stati non nuclearizzati come Portogallo e Grecia.
Se questo è il trend a livello mondiale, perché l’Italia vuol tornare all’atomo? Pura propaganda politica? Interessi di qualche gruppo? Ricchi appalti per la lobby del mattone che non sa più dove cementificare?
Un vero appassionato di nucleare è Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni e vecchia conoscenza dei tribunali e degli ambientalisti. Negli anni Novanta, come amministratore delegato della Techint, aveva patteggiato una condanna a due anni e tre mesi per corruzione, per tangenti pagate al fine di ottenere appalti dall’Enel. Proprio dell’Enel diventa amministratore delegato nel 2002, carica che mantiene fino al 2005, per poi passare appunto all’Eni.
Nel 2006 Scaroni viene processato dal tribunale di Adria: come ex amministratore delegato dell’Enel è accusato di aver inquinato il territorio del delta del Po con la centrale di Porto Tolle – coincidenza vuole che l’ex presidente della regione Veneto Giancarlo Galan abbia proposto la conversione a centrale nucleare. Scaroni viene condannato a un anno e quattro mesi di carcere, pena poi convertita in una banale ammenda di 1140 euro.
Il 12 gennaio 2011 la Cassazione conferma la condanna per i vertici della centrale Enel di Porto Tolle, tra cui Scaroni e il suo predecessore Franco Tatò, riformando l’appello. Grazie anche alle consulenze tecniche di esperti come l’ingegner Paolo Rabitti, tra l’altro impegnato a provare altri disastri ambientali nei procedimenti penali di Porto Marghera o dello scandalo rifiuti di Napoli e della Campania.
Nonostante questi precedenti, nel 2005 Scaroni passa all’Eni. Prima di lui c’era Vittorio Mincato, che conosceva l’azienda come pochi altri, ci aveva lavorato per quasi quarant’anni e aveva conseguito nell’ultimo periodo risultati economici eccellenti. Poco prima di essere destituito aveva dichiarato che l’Italia avrebbe dovuto lasciar stare il carbone e puntare sulle centrali a gas naturale (che emettono circa un terzo in meno di CO2) per frenare l’aumento galoppante delle proprie emissioni.
Nel febbraio 2005 infatti l’Enel firma per acquisire il 66 per cento della Slovenské Elektrárne e attraverso essa della centrale di Mochovce, in Slovacchia. I nostri concorrenti erano la Repubblica Ceca e la Russia, che evidentemente sentivano la mancanza della vecchia politica energetica del blocco comunista. Il passaggio viene completato nell’aprile 2006 alla modica cifra di 839 milioni di euro più qualche miliardo da investire negli anni successivi per finanziare la costruzione di due «nuovi» reattori il cui progetto era in stallo da anni per mancanza di fondi.
Gli austriaci si incazzano come bestie. C’è da capirli: la centrale si trova a cinquanta chilometri dal confine. Loro stanno a costruire gli impianti eolici e a impostare una politica tutta verde, noi gli piazziamo una bomba nucleare rappezzata fuori porta. Non un politico italiano che sia andato a discutere della situazione a Vienna.
La centrale di Mochovce risale agli anni Settanta ed è di seconda generazione, come quella che c’era a Chernobyl. Dei quattro reattori presenti, due sono stati completati nel 1983, lo stesso anno in cui è nata la Fiat Uno. Chi se ne comprerebbe una oggi? La costruzione degli altri due reattori è iniziata nel 1987 e poi è stata sospesa nel 1991 perché non c’erano fondi. Ma quelli ce li metteremo noi, più di vent’anni dopo. Spesa prevista: due miliardi di euro, forse di più. Un reattore di ultima generazione costerebbe più o meno lo stesso.
Nel 2008 l’Enel avvia i lavori di completamento, ma lo fa senza aspettare la Valutazione di impatto ambientale (Via) imposta dalla Comunità europea. I Paesi confinanti, che non vedono di buon occhio eventuali incidenti, hanno diritto di partecipare, e tanto austriaci che ungheresi sono sul piede di guerra. L’audizione per la Via viene fissata a Vienna, cosa che non piace all’Enel. Greenpeace ha in seguito reso pubblico un documento secondo cui l’Enel ha fatto pressione sul governo slovacco per sistemare la situazione: c’erano indicazioni su come evitare le manifestazioni di piazza, limitare la partecipazione della gente e attenuare l’interesse dei media. In più l’Enel chiedeva che si tenesse un unico incontro per la Via direttamente a Bratislava. L’audizione alla fine è stata comunque a Vienna, ma il progetto è passato. Sarà perché il ministero dell’Ambiente slovacco ha affidato la valutazione a Decom, una compagnia controllata da Vuje, che aveva già ottenuto appalti per finire i reattori di Mochovce?
È dai tempi dell’acquisizione che Greenpeace protesta contro questa iniziativa. «È inaccettabile che il nostro Paese pratichi il doppio standard, esportando il rischio nucleare che noi italiani non ci siamo voluti giustamente assumere» ha detto Giuseppe Onufrio, il direttore dell’associazione in Italia.
Da notare che con il referendum del 1987, tra i vari quesiti, la popolazione italiana aveva votato sì alla sospensione degli investimenti dell’Enel nella produzione elettronucleare all’estero. Senza dare nell’occhio, il 21 febbraio 2004 entra però in vigore la legge Marzano, dal nome dell’allora ministro delle Attività produttive, che contiene «misure per la ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza», e rimuove la disposizione avviata dal referendum: prevede l’accesso a una procedura di «amministrazione straordinaria» da gestire in 180 giorni, e con una possibile proroga di 90 giorni per un piano di ristrutturazione. I limiti per...