L'Italia della Repubblica - 2 giugno 1946 - 18 aprile 1948
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L'Italia della Repubblica - 2 giugno 1946 - 18 aprile 1948

La storia d'Italia #16

  1. 288 pagine
  2. Italian
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L'Italia della Repubblica - 2 giugno 1946 - 18 aprile 1948

La storia d'Italia #16

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Dopo le esperienze traumatiche della dittatura e della guerra, per l'Italia è giunto il momento di voltare pagina. Bisogna affrontare il processo di pace e impegnarsi nella ricostruzione, ma più di ogni altra cosa alla nazione serve un nuovo ordine politico-istituzionale, che ne definisca anche la posizione sullo scacchiere internazionale. Se gli accordi di Yalta ci hanno affiancato alle democrazie occidentali, la svolta verso il blocco del socialismo reale è ancora possibile, e sono in molti a spingere in quella direzione. Una popolazione divisa si trova così a vivere passaggi fondamentali: il referendum tra Monarchia e Repubblica, i lavori della Costituente, l'approvazione della Carta costituzionale. Fino alle prime elezioni repubblicane, che con un risultato clamoroso e in parte inaspettato consegnano la guida del Paese alla Democrazia cristiana. Sullo sfondo, la firma del trattato di pace a Parigi, gli incentivi del Piano Marshall, il delinearsi della contrapposizione mondiale che prenderà il nome di guerra fredda. Montanelli e Cervi ci chiamano a ripercorrere un momento di forte fermento, animato da personaggi del calibro di De Gasperi, Togliatti, Nenni, Scelba, Pajetta, Umberto II di Savoia. Tra i tentativi di ripresa e tensioni anche violente - come quelle nate dal "caso Troilo" - possiamo rivivere i mesi cruciali, carichi di speranze e timori, che hanno segnato l'immediato dopoguerra e deciso il nostro futuro.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858643020
L’ITALIA DELLA REPUBBLICA
AVVERTENZA
Questo volume, che va dal referendum istituzionale del giugno ’46 alle elezioni del 18 aprile ’48, avremmo anche potuto intitolarlo L’Italia delle scelte perché fu in questo triennio che il nostro Paese fece quelle fondamentali: instaurò la Repubblica al posto della Monarchia, e si schierò nel campo delle Democrazie occidentali.
Si dirà che questa seconda scelta non la facemmo noi; l’avevano già fatta, per noi, gli accordi di Yalta, dove gli Anglo-americani e i Russi si erano spartiti l’Europa, e più ancora l’avevano fatta gli eserciti che la occupavano. Ma questo è vero solo per quanto riguarda i Paesi dell’Est, piantonati dall’Armata Rossa, che non consentì loro di esprimere la propria volontà. L’Italia, come tutte le altre nazioni liberate dagli Anglo-americani, avrebbe potuto decidere il proprio destino contro i loro interessi. Le truppe che ci occupavano non sarebbero mai intervenute per impedircelo: su questo punto i governi di Washington e di Londra furono sempre espliciti: pronti a dare manforte alla nostra democrazia se fosse stata aggredita con mezzi illegali e violenti, ma anche ad abbandonarla alla sua sorte, se con mezzi democratici, cioè con libere elezioni, avesse deciso di seguirne un’altra.
L’ora della verità scoccò il 18 aprile del ’48. Ma a determinare il risultato di quelle elezioni fu proprio il biennio che le precedette, e che costituisce la materia di questo libro. Non sono più molti, temo, gl’Italiani che abbiano un ricordo nitido di quel periodo convulso, fatto insieme di grandi speranze e di grandi paure: l’impeto con cui tutti si gettarono a ricostruire ciò che le bombe avevano distrutto, ma anche il disordine con cui lo fecero, ognuno intento soltanto alle cose proprie e al proprio tornaconto, senza un minimo di programmazione, senza alcun riguardo all’interesse generale; la rapidità e la spregiudicatezza con cui furono aggirati tutti gl’impacci e restrizioni imposte dall’amministrazione militare alleata; il fiorire della borsa nera che creò una categoria di nuovi ricchi dediti ai lussi più sfrenati in un panorama di macerie; l’epopea della bicicletta, unico mezzo di locomozione sicuro e sottratto alle strettoie dei tesseramenti di combustibile; la corsa ai brevetti di partigiano e le smanie dell’«epurazione» nutrite da un’alluvione di lettere anonime di denuncia contro qualche fascista (ognuno aveva il suo, di cui occupare il posto o la casa); le strade rigurgitanti di gente indaffarata a rimettere in piedi i propri affari, studi e negozi; le piazze ingombrate dai capannelli degli agit-prop, quasi tutti comunisti, concionanti sui destini della democrazia; la frenesia dei comizi che provocavano mobilitazioni di masse molto simili alle «oceaniche adunate» del «bieco ventennio», come usualmente lo si chiamava. E una gran voglia di vivere mescolata a un’altrettanto grande ansietà.
Di coloro che avevano votato Repubblica, la stragrande maggioranza lo aveva fatto per punire un Re che aveva accettato il fascismo, subìto la guerra, e poi era fuggito abbandonando il Paese e l’esercito al loro destino. Pochissimi si erano resi conto che, con la Monarchia, l’Italia rinnegava il Risorgimento, unico tradizionale mastice della sua unità. Era un mastice che non aveva mai operato a fondo e che aveva alimentato più una retorica che una coscienza nazionale. Ma, scomparso anche quello, il Paese era in balìa di forze centrifughe che ne facevano temere la decomposizione. Aizzata dai socialcomunisti, la lotta di classe deflagrava con una violenza proporzionale alla repressione cui per vent’anni l’aveva sottoposta il fascismo; mentre il regionalismo, fomentato soprattutto dai democristiani, assumeva, specialmente in Sicilia, gli estremi del separatismo.
Ci fu chi, prevedendo lo sfacelo, cercò scampo nei Paesi che si riaprivano alla nostra emigrazione: America Latina, Canada, Australia. Era un’emigrazione assai diversa da quella col passaporto rosso delle epoche prefasciste, di badilanti e zappaterra. C’era gente in cerca di un clima adatto alla sua intraprendenza, e anche tecnici e dirigenti che, epurati o temendo di esserlo, preferirono mettere altrove a profitto la propria esperienza, e la fecero brillare.
Ma un fenomeno ancora più sconvolgente fu quello dell’emigrazione interna, che subito prese l’aìre dal Sud verso il Nord e assunse dimensioni alluvionali. Le strutture patriarcali del contadiname meridionale non avevano retto al rimescolìo della guerra, al contagio degli eserciti d’occupazione, alle seduzioni della borsa nera e della prostituzione. A trattenere i contadini nelle campagne non valsero le promesse di una riforma agraria che, quando venne, era già in ritardo di alcuni decenni. Essi l’anticiparono con occupazioni arbitrarie di terre, da cui però si accorsero subito che non avrebbero ricavato alcunché. E allora si misero in movimento prima verso le città più vicine, poi verso il Nord, dove li risucchiava il vigoroso decollo industriale. Questo fenomeno doveva farsi ancora più imponente negli anni Cinquanta, ma era già in sviluppo quando ancora, per compiere il tragitto da Napoli o da Bari a Milano, i treni, rigurgitanti di viaggiatori, impiegavano trentasei ore, e non sempre arrivavano a destinazione.
La frenesia di vita che animava l’Italia somigliava a quella che, a quanto si dice, s’impadronì dei passeggeri del Titanic dopo l’urto con l’iceberg. Dovunque e in tutti c’era un senso di provvisorio. Il frenetico attivismo dei comunisti, i loro toni trionfalistici, la pressione a cui tenevano sottoposta la pubblica opinione incalzandola un po’ con le minacce, un po’ con le lusinghe, davano l’impressione ch’essi avessero ormai partita vinta. E in certe regioni infatti l’avevano, come l’Emilia, dove il «triangolo della morte» coi feroci ammazzamenti perpetrati dai comunisti subito dopo la Liberazione, invece di provocare una reazione di rivolta, aveva sortito – e forse continua a sortire – gli effetti dell’intimidazione. Nenni parlava, compiacendosene, di un «vento del Nord», e con ragione, perché tutto il Nord sembrava ormai in balìa dell’ondata rossa.
Ma non il Sud. E fu questa differenza di clima ideologico e passionale, molto più che la difficoltà dei mezzi di comunicazione, e il diverso trattamento amministrativo cui dapprincipio gli Alleati sottoposero i due tronconi della Penisola, ad approfondire il solco fra di essi. Fu proprio in opposizione al vento del Nord che nacque il «qualunquismo», fenomeno essenzialmente meridionale e – in quel momento – salutare, come sedativo di certe frenesie. Ma le frenesie sembravano avere il sopravvento e trascinare il Paese verso avventure, di cui era facile prevedere lo sbocco: Nostradamus nel cui inesauribile magazzino c’è, per chi ci crede, qualcosa da pescare per ogni emergenza, aveva profetato che un giorno i cosacchi avrebbero dissetato i loro cavalli alle fontane di Piazza S. Pietro.
Qualcuno dice che l’Italia non era mai stata grande come in quel momento per lo slancio con cui affrontò la ricostruzione, per la fiducia che mostrò nel proprio destino e per la elasticità con cui si adattò alle nuove esigenze. Qualche altro dice che l’Italia non era mai stata così abietta per la facilità con cui la gente cambiò bandiera, per la disinvoltura con cui ripudiò il proprio passato e per la spensieratezza con cui sacrificò ogni scrupolo di solidarietà e di civismo al proprio interesse personale.
Forse hanno ragione gli uni e gli altri. Ma è certo che l’atavico istinto di conservazione fece presto ad avere la meglio. Più i partiti della sinistra si agitavano, in gara tra loro a chi reclamava le riforme più audaci, più l’Italiano della strada, pur fingendo in piazza di partecipare ai grandi slanci progressisti, si arroccava in casa a difesa dei valori tradizionali e più ancora dei suoi interessi privati.
Gli storici, anche quelli anticomunisti, sono concordi nel dire che Togliatti esercitò un’azione sedativa sulle masse rosse un po’ per scrupolo legalitario e allergia alla violenza, un po’ in ossequio agli ordini di Stalin, che non voleva allarmare gli ex alleati destabilizzando un Paese che, secondo le pattuizioni di Yalta, apparteneva alla loro zona d’influenza, nel momento in cui riduceva a colonie quelli dell’Est.
Può darsi che sia così. Togliatti non era un rivoluzionario. Da vero uomo di «apparato» cresciuto alla scuola sovietica, disprezzava le masse; forse temeva, scatenandole, di restarne prigioniero; e forse ancora di più paventava che l’instaurazione a Roma di un regime comunista facesse di lui uno di quei «proconsoli» che il padrone del Cremlino sottoponeva a regolari «purghe» per sottrarre i loro successori a tentazioni d’indipendenza.
Ma può darsi anche ch’egli allentasse la tensione delle piazze perché queste gli davano la certezza di poter raggiungere il potere senza il bisogno di ricorrere a mezzi illegali. La sicumera con cui, quando fu sbarcato dal governo, andava ripetendo nei comizi di aver ordinato al calzolaio un paio di scarpe chiodate per poter prendere meglio a pedate De Gasperi, era probabilmente sincera. E a rafforzarla c’era forse anche la convinzione che un potere raggiunto per via democratica grazie a un consenso liberamente espresso di popolo gli avrebbe dato maggior forza anche nei confronti di Mosca.
Sono soltanto supposizioni: nessuno ha mai penetrato i veri pensieri e sentimenti di Togliatti. Ma il fatto che gli se ne possano attribuire di questo tenore basta a dimostrare quanto, in questo decisivo triennio, l’Italia apparente fosse talmente diversa da quella reale da trarre in inganno anche un politico perspicace e consumato come Togliatti. Lo slancio di entusiasmo e di fiducia che aveva animato il Paese al momento della Liberazione si stava esaurendo. Solo i militanti socialcomunisti seguitavano ad animare il dibattito ideologico. La grande opinione pubblica già si mostrava stanca dei partiti e non seguiva che straccamente i lavori della Costituente, intenta a confezionare la Magna Charta della democrazia italiana e delle sue libertà. Non riconosceva in essi la propria espressione, e già cominciava a chiedersi se non avesse avuto ragione Mussolini a tenerli in quarantena per vent’anni.
Fu in quest’atmosfera che incubò la disfatta elettorale socialcomunista del ’48, terminale del dopoguerra vero e proprio.
I.M.
CAPITOLO PRIMO
IL RE DI MAGGIO
L’abdicazione di Vittorio Emanuele III (9 maggio 1946) e la sua immediata partenza per l’esilio egiziano furono definiti da Palmiro Togliatti «l’ultima fellonia di una casa regnante di fedifraghi che dimostra ad ogni passo di mancare a quella buona fede costituzionale che è essenziale per chi deve regnare non con una legge assoluta, ma con una costituzione che risponda alla volontà sovrana del popolo».
L’enfasi di questo linguaggio, così poco nello stile della «svolta di Salerno», dimostra che il congedo del vecchio Re, pur atteso e scontato, e la successione al trono di Umberto II sortirono nel mondo politico italiano l’effetto di un elettrochoc. Togliatti («una volta tanto intransigente» annotò Nenni) sostenne che la Monarchia aveva violato la tregua istituzionale, concordata quando era stata creata la Luogotenenza, e che per legittima ritorsione De Gasperi, nella sua qualità di Presidente del Consiglio, avrebbe dovuto assumere le funzioni di Capo provvisorio dello Stato.
Si è discusso parecchio sulle ragioni di quest’atteggiamento del capo comunista: qualcuno – ad esempio il ministro liberale Leone Cattani – l’attribuì a puro calcolo, ossia al suo desiderio di rifarsi, dopo tanti cedimenti, una verginità repubblicana. Altri vide in esso, invece, una reazione emotiva se non proprio uno scatto nervoso per l’improvviso rimescolamento delle carte. Certo è che Togliatti si trovò isolato, e nel Consiglio dei Ministri che si riunì il 10 maggio accettò, sia pure rinnovando le sue accuse alla corona, la tattica minimizzatrice di De Gasperi e, tutto sommato, anche dei socialisti. Fu deciso di considerare l’accaduto «un atto interno di casa Savoia». Uno schema di decreto approvato a tambur battente stabilì che i documenti dello Stato avrebbero avuto d’allora in poi l’intestazione «In nome di Umberto II, Re d’Italia», ma senza la formula tradizionale «per grazia di Dio e volontà della Nazione».
L’Europa del 1946
Ma l’«atto interno» risultò tutt’altro che tale. L’entourage di Umberto (abbiamo in proposito la testimonianza di uno dei suoi aiutanti di campo, l’ammiraglio Franco Garofalo) lo considerava il «qualcosa di nuovo che scuotesse l’opinione pubblica e ridestasse negli Italiani quei princìpi e quelle energie che l’equivoco della Luogotenenza aveva fatto dimenticare e sopire, nella convinzione che la Monarchia già non esistesse più».
All’investitura di Umberto, De Gasperi non intendeva opporsi. Sappiamo che era stato informato in anticipo, anche se a titolo privato, della abdicazione di Vittorio Emanuele. Sappiamo egualmente che, di fronte a questa eventualità, si era consultato con l’ammiraglio Ellery Stone, americano, e capo della Commissione alleata per l’Italia. Stone, in una lettera che De Gasperi aveva già in mano l’8 maggio, precisò che per gli Alleati la novità non aveva rilievo: «I Capi di Stato Maggiore sono del parere che l’abdicazione del Re non comporta nessuna azione o commento da parte della Commissione alleata, in quanto non tocca per nulla i poteri costituzionali del principe Umberto».
Gli Anglo-americani erano risoluti a ostentare, per il dilemma istituzionale, una posizione di rigorosa neutralità. Stone aveva, personalmente, simpatie monarchiche. Ufficiale già anziano della Riserva navale degli Stati Uniti, era stato mandato ad Algeri, quando la Commissione di controllo per l’Italia vi si era insediata, come tecnico delle comunicazioni postali e telegrafiche. L’Artieri riferisce che a procacciargli quell’incarico era stato tra l’altro il fatto di essere stato insignito della Commenda della Corona d’Italia. Per i meccanismi delle promozioni e delle sostituzioni, Stone s’era trovato ad essere il vice dell’inglese Mason MacFarlane, protagonista dei primi contatti tra gli Alleati e il governo di Brindisi. Rimosso MacFarlane, brutto carattere – e ostile ai Savoia, tanto che s’era scontrato in proposito con Churchill – Stone ne aveva preso il posto, sia pure a titolo provvisorio (tra Inglesi e Americani vigeva la regola dell’alternanza, se avessero mandato via anche lui l’incarico sarebbe stato assegnato ad Harold Macmillan, il futuro Primo Ministro conservatore britannico).
A Roma Stone s’era lasciato ammaliare dal bel mondo e dall’aristocrazia (vi trovò perfino moglie) e aveva stretto amicizia con il generale Infante, aiutante di Umberto. Ma nelle capitali alleate l’atmosfera era cambiata: soprattutto a Londra, dove i laburisti, vinte le elezioni, erano andati al governo, e si mostravano molto più freddi di Churchill verso la Monarchia. Inoltre i risultati delle elezioni amministrative di marzo, e la condotta di De Gasperi, rendevano assai meno inquietante, per Londra e per Washington, l’ipotesi di una vittoria della Repubblica. Tuttavia l’indifferenza dei vincitori per l’ascesa al trono di Umberto II fu un elemento rassicurante per i monarchici. Se gli Anglo-americani, supervisori della legalità democratica, non obiettavano, perdevano forza le proteste e le indignazioni dei partiti.
Ciò che alla fine indusse i leader politici – compreso, dopo una pausa di riflessione, l’infuriato Togliatti – alla rassegnazione fu la conferma della data del 2 giugno per il referendum. I monarchici avevano chiesto ripetutamente che la duplice prova – referendum istituzionale ed elezione dell’Assemblea costituente – fosse rinviata a epoca più opportuna. Sottolineavano, non senza fondamento, che avrebbero forzatamente disertato le urne centinaia di migliaia di prigionieri tuttora in attesa del rimpatrio, nonché i cittadini della Venezia Giulia e dell’Alto Adige. Meglio aspettare. Ma la richiesta di rinvio aveva, al di là di queste spiegazioni patriottiche, una molla strumentale. Gli ambienti della Corte sentivano che, via via che si placava il vento del Nord, si sviluppava nel Paese una rimonta monarchica. Ma ventiquattro giorni erano pochi perché Umberto, finalmente Re a tutti gli effetti, liberato dall’ingombrante presenza del padre, riuscisse a ricostruire la sua immagine e a rinnovare quella della Monarchia.
Il suo compito era quasi proibitivo. L’uomo che nei mesi della Luogotenenza s’era distinto per la scrupolosa osservanza degli obblighi costituzionali e per la signorilità sorridente e autorevole del tratto, doveva, come Re, essere al di sopra delle parti, e nello stesso tempo fare propaganda elettorale. Non esisteva un vero partito monarchico, i consiglieri di Umberto avevano scartato questa soluzione. Difficile dire, oggi, se avessero visto giusto.
Era questo che aveva arroventato le proteste contro l’abdicazione di Vittorio Emanuele. Poiché la Corte voleva il rinvio delle elezioni, e i partiti intendevano tener ferma la data del 2 giugno, fu evidente ai leader politici repubblicani che una crisi originata dall’abdicazione poteva diventare proprio il diversivo che Umberto cercava. Dal conflitto tra Re e governo – se al conflitto aperto si fosse giunti – sarebbe derivato un intrico di problemi costituzionali e politici. Umberto aveva la facoltà di licenziare il governo, sia pure soltanto per guadagnare tempo. E in tal caso gli Alleati sarebbero diventati probabilmente arbitri dello scontro. Ma in una atmosfera incandescente di accuse e controaccuse, referendum ed elezioni per la Costituente sarebbero stati irrealizzabili, o comunque viziati. In questa occasione Nenni portò acqua al mulino di De Gasperi, cui premeva di togliersi la spina del referendum, senza troppe ambasce per il suo esito. De Gasperi era consapevole della forza sua e del suo partito, su cui Nenni invece prendeva abbaglio. Il capo socialista annotava il 14 maggio nel suo diario: «Da Verona sono rientrato in aereo (dopo una serie di comizi) con De Gasperi, il quale aveva parlato dopo di me a Verona, nella elegante piazza Dante, davanti a poche centinaia di persone sbandate rapidamente per la pioggia. È impressionato per il successo dei nostri comizi e inquieto circa l’avvenire».
Liberato dall’incubo di un rinvio del referendum, il governo rimase tuttavia con quello dell’ordine pubblico. L’assillo di evitare l’incidente grave, e forse fatale, poneva in sottordine ogni altra considerazione. E questo fece sì che venissero approvate con noncuranza, e con negligenza, misure delle quali il Paese subisce tuttora le conseguenze. Venne ad esempio varato in fretta un progetto – mandato ai Ministri della Consulta siciliana – che concedeva alla Sicilia una autonomia inconcepibilmente ampia, ritagliata sulle esigenze, le ambizioni, gli appetiti di una classe politica locale avida, spensierata e prodiga, non certo sull’interesse del Paese.
L’ordine pubblico, considerato la vera misura della efficienza governativa, era affidato a due uomini, entrambi di sinistra, entrambi repubblicani dichiarati: Togliatti, Ministro di Grazia e Giustizia, e Giuseppe Romita, socialista, Ministro dell’Interno. Togliatti non dimenticava mai l’ideologia, e gli obiettivi politici comunisti. La cautela di cui diede prova, come guardasigilli, era in sintonia con la sua tattica morbida, compromissoria, tesa a una conquista indolore del potere (sia pure, inizialmente, a mezzadria). Ma era anche in sintonia con la sua personale ripugnanza per gli eccessi e per gli sfoghi rivoluzionari incomposti. Professorale, intellettualmente e caratterialmente altero, non aveva certo imparato, nei molti anni di soggiorno moscovita, ad apprezzare le esplosioni e le convulsioni barricadiere. Ai magistrati inviò una circolare in cui rilevava che in molte province si erano verificate «manifestazioni di protesta da parte di disoccupati culminanti in gravissimi episodi di devastazione e di saccheggio a danno di uffici pubblici nonché di violenze contro i funzionari. Pertanto questo Ministero… si rivolge alle Signorie Loro invitandole a voler impartire ai dipendenti uffici le opportune direttive affinché contro le persone denunciate si proceda con la massima sollecitudine e con estremo rigore. Le istruttorie e i relativi giudizi dovranno essere espletati con assoluta urgenza onde assicurare una pronta ed esemplare repressione». Egualmente duro era stato il suo intervento contro Riccardo Lombardi, prefetto politico socialista e resistenziale di Milano, che aveva destituito il direttore del carcere di San Vittore dopo una delle ric...

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  1. L’Italia della Repubblica
  2. Copyright
  3. Premessa
  4. L’Italia della Repubblica
  5. Appendice
  6. Indici
  7. Sommario
  8. Tavole