Berlino 1945
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Berlino 1945

La caduta

  1. 520 pagine
  2. Italian
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Berlino 1945

La caduta

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Prosecuzione ideale di Stalingrado, quest'opera racconta un altro assedio: la battaglia casa per casa con la quale l'Armata Rossa conquistò Berlino nel maggio del 1945, ponendo fine alla guerra in Europa. Il racconto, corredato da un ricco apparato illustrativo e cartografico, non si limita all'epilogo, ma abbraccia per intero gli ultimi mesi del conflitto, decisivi e atroci: l'avanzata sovietica e la resistenza accanita delle forze tedesche; la tragedia dei profughi della Prussia orientale; la vendetta dei sovietici in risposta alle atrocità commesse dai nazisti quando occupavano buona parte della Russia; il delirio di Hitler nel bunker in attesa di un miracolo che rovesciasse all'improvviso le sorti della guerra; la rivalità fra gli Alleati; i suicidi e le fughe misteriose dei gerarchi nazisti. Questa tragica vicenda viene rivista alla luce dei nuovi documenti emersi dagli archivi (soprattutto russi, ma anche tedeschi, americani, inglesi francesi e svedesi) e delle molte interviste con i soldati e i civili di entrambi i fronti. Grazie alle sue straordinarie doti di narratore, Antony Beevor riesce a ricostruire gli atti, i pensieri, le scelte dei capi politici e militari e la vita quotidiana, l'odio e il terrore, gli stupri, la violenza disumana e la follia della guerra.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2011
ISBN
9788858618325
Argomento
History
Categoria
World History

CAPITOLO 1

Capodanno a Berlino
IBERLINESI, DIMAGRITI A CAUSA del razionamento e dello stress, avevano ben poco per festeggiare il Natale del 1944. Gran parte della capitale del Reich era stata ridotta in rovina dalle incursioni aeree. E il tipico umorismo nero dei berlinesi si era trasformato in umorismo da forca. La battuta che circolava in quel periodo ben poco festivo era: «Sii pratico: regala una cassa da morto».
Per la precisione, l’umore era cambiato da circa due anni. Poco prima del Natale del 1942 aveva infatti cominciato a circolare la voce che la 6a armata del generale Paulus era stata accerchiata sul Volga dall’Armata Rossa. Il regime nazista trovò difficile ammettere che l’unità più grossa dell’intera Wehrmacht era condannata all’annientamento fra le macerie di Stalingrado e nella gelida steppa circostante. Per preparare la nazione alle brutte notizie, Joseph Goebbels, Reichsminister per la propaganda e la cultura, aveva annunciato un «Natale tedesco» che, nella terminologia nazionalsocialista, significava austerità e rigore ideologico, al posto delle candele, delle corone di rami di pino e del canto di Heilige Nacht. Nel 1944, poi, il tradizionale pranzo a base di oca arrosto era diventato un lontano ricordo.
Nelle strade, là dove era crollata la facciata di una casa, si potevano ancora vedere quadri appesi alle pareti di quello che era stato un salotto o una camera. L’attrice Hildegard Knef notò un pianoforte rimasto in bilico su quel che rimaneva di un pavimento. Nessuno sarebbe riuscito a raggiungerlo e lei si chiese per quanto tempo ancora sarebbe rimasto lassù, prima di cadere fra le macerie sottostanti. Sui muri anneriti delle case bruciate le famiglie avevano lasciato scritto messaggi per avvertire un figlio tornato in licenza dal fronte che stavano tutti bene e che abitavano da un’altra parte. Manifesti del partito nazista ammonivano: «Gli sciacalli saranno puniti con la morte!».
Le incursioni aeree erano così frequenti, da parte inglese di notte e americana di giorno, che i berlinesi erano convinti di trascorrere più tempo nelle cantine e nei rifugi rispetto ai loro letti. La mancanza di sonno contribuiva a quella strana mistura di isterismo represso e di fatalismo. E la diffusione delle battute faceva pensare che un numero sempre minore di persone sembrava preoccuparsi di una possibile denuncia alla Gestapo per disfattismo. Correva voce che la sigla onnipresente LSR, che indicava un Luftschutzraum, un rifugio antiaereo, volesse dire «Lernt schnell Russisch» impara il russo alla svelta. La maggior parte dei berlinesi aveva abbandonato del tutto il saluto «Heil Hitler!». E quando Lothar Loewe, un ragazzo della Gioventù Hitleriana (Hitlerjugend) che era stato assente per qualche tempo dalla capitale, lo usò entrando in un negozio, tutti si voltarono a fissarlo. E quella fu l’ultima volta che lo pronunciò, quando non era in servizio. Loewe scoprì che la formula di saluto più comune era diventata «Bleib übrig!» resta vivo!1
L’umorismo rifletteva anche le immagini grottesche, a volte surreali, dell’epoca. Il rifugio antiaereo più grande a Berlino era il bunker dello Zoo, una colossale costruzione in cemento armato con batterie antiaeree sul tetto e giganteschi rifugi sotto terra, nei quali si stipavano folle di berlinesi al suono delle sirene d’allarme. Ursula von Kardorff, che teneva un diario, lo definì «lo scenario per la prigione del Fidelio». Nel frattempo, coppie d’innamorati si stringevano sulle scale a chiocciola di cemento come se partecipassero a «un travestimento di un ballo in costume».2
C’era una diffusa atmosfera di crollo imminente sia per quanto riguardava la vita personale sia per l’esistenza della nazione. La gente sperperava con noncuranza il proprio denaro, nella convinzione che molto presto esso non avrebbe avuto più alcun valore. E c’erano voci, per quanto difficili da confermare, di ragazze e giovani donne che si accoppiavano con sconosciuti negli angoli bui nella zona della stazione, dello Zoo e del Tiergarten. Il desiderio di rinunciare all’innocenza sembrò aumentare facendosi disperato, a mano a mano che l’Armata Rossa si avvicinava alla capitale.
Gli stessi rifugi antiaerei, con le loro lampade azzurrate, riuscivano a offrire un preannuncio di un inferno claustrofobico, con tutta quella gente che vi si ammassava imbacuccata negli indumenti più caldi, con sottobraccio scatole di cartone contenenti sandwich e thermos. In teoria, nei rifugi, si provvedeva a tutte le necessità di base. C’era una Sanitätsraum con un’infermiera, un ambulatorio nel quale potevano recarsi le donne colte dalle doglie del parto. Questo sembrava accelerato dalle vibrazioni delle bombe che esplodevano all’esterno e che sembravano provenire dal centro della terra, oltre che dalla superficie; i soffitti erano dipinti con una vernice luminosa, dato che spesso durante le incursioni l’elettricità veniva a mancare, e le lampadine prima cominciavano ad affievolirsi e poi si spegnevano. L’acqua non scorreva più quando le condotte principali venivano spaccate, e i gabinetti diventavano ben presto impresentabili, un vero dramma per una nazione che aveva la mania dell’igiene. Spesso erano le stesse autorità a chiuderli, data la preoccupante diffusione di casi di soggetti depressi che vi si rinchiudevano a chiave per poi uccidersi.
Con una popolazione di almeno 3 milioni di anime, Berlino non aveva rifugi a sufficienza, e di conseguenza l’affollamento era notevole. Nei corridoi principali, nelle sale dotate di sedie e in quelle con le cuccette l’aria era molto viziata per l’eccessivo numero di rifugiati e l’umidità condensata sgocciolava dai soffitti. Il complesso di rifugi sotto la stazione delle Gesundbrunnen della metropolitana era stato progettato per 1.500 persone, ma il più delle volte vi si ammassava un numero tre volte superiore. Per misurare la diminuzione dell’ossigeno, si usavano le candele. Quando si spegneva una candela collocata sul pavimento, i bambini venivano presi in braccio e sostenuti all’altezza delle spalle degli adulti. Quando si spegneva una candela posta su una sedia, cominciava lo sgombero di quel livello. E se cominciava a scoppiettare una terza candela, sistemata all’altezza del mento, l’intero bunker veniva fatto sgomberare, quale che fosse la violenza dell’incursione all’esterno.
I 300.000 lavoratori stranieri della capitale, identificabili da una lettera dipinta sulla schiena a seconda della nazione di provenienza, avevano il divieto assoluto di entrare nei rifugi sotterranei e nelle cantine. Questo rientrava in parte nell’atteggiamento del partito nazista che mirava a impedire una commistione con la razza tedesca, ma la preoccupazione principale delle autorità era quella di salvare vite tedesche. I lavoratori forzati, in particolare gli Ostarbeiter, quelli provenienti dalle nazioni dell’Est, per la maggior parte rastrellati in Ucraina o in Bielorussia, erano considerati sacrificabili. Eppure, molti lavoratori stranieri, arruolati a forza o volontari che fossero, godevano di una libertà molto maggiore degli infelici rinchiusi nei campi. Quelli che lavoravano nelle fabbriche di armamenti attorno alla capitale, per esempio, avevano organizzato rifugi propri e una sottocultura bohémienne con giornaletti e spettacolini nei sotterranei della stazione della Friedrichstrasse. Il loro morale migliorava in modo visibile con l’avvicinarsi dell’Armata Rossa, mentre quello dei loro sfruttatori sprofondava. La maggior parte dei tedeschi osservava trepidante la manodopera straniera. La consideravano una specie di guarnigione «cavallo di Troia» pronta ad attaccare e a vendicarsi non appena le forze nemiche fossero giunte nei pressi della città.
I berlinesi soffrivano di un timore atavico e viscerale degli invasori slavi dall’oriente. Quel timore si trasformò ben presto in odio. A mano a mano che l’Armata Rossa si avvicinava, la propaganda di Goebbels insisteva sempre più sulle atrocità commesse a Nemmersdorf, quando le sue truppe avevano invaso quell’angolo sudorientale della Prussia Orientale, nell’autunno precedente, e avevano violentato e assassinato gli abitanti del villaggio.
Alcune persone avevano motivi personali per rifiutarsi di scendere nei rifugi durante le incursioni. Un uomo sposato che era solito fare visite regolari a una sua amica nel quartiere di Prenzlauerberg non poteva scendere nel rifugio comune perché avrebbe sollevato sospetti. Una sera l’edificio fu centrato da una bomba e lo sfortunato adultero, che era seduto su un sofà, rimase sepolto fino al collo dalle macerie. Dopo l’incursione, un ragazzo, Erich Schmidtke, e un operaio cecoslovacco, la cui presenza illegale nella cantina era stata tollerata, udirono le sue grida di dolore e corsero di sopra. Una volta estratto e trasportato in infermeria l’uomo, il quattordicenne Erich dovette recarsi dalla moglie del malcapitato per avvertirla che il marito era rimasto gravemente ferito nell’appartamento di un’altra donna. La signora si mise a urlare di rabbia. Il fatto che si trovasse con quell’altra la fece agitare più del fatto che fosse ferito. I ragazzi, a quei tempi, dovevano imparare alla svelta come andavano le cose nel mondo degli adulti.3
Il generale Günther Blumentritt, come la maggior parte delle autorità, era convinto che le incursioni sulla Germania avessero fatto nascere una vera Volksgenossenschaft – un vero cameratismo patriottico. Questo forse era avvenuto nel 1942 e nel 1943, ma alla fine del 1944 l’effetto tendeva a una polarizzazione fra le opinioni dei seguaci della linea dura e di quelli che erano stanchi della guerra. Berlino era stata la città con la più alta percentuale di oppositori al regime nazista, come dimostrato dai dati delle elezioni prima del 1933. Ma, tranne una minoranza molto piccola e coraggiosa, l’opposizione al nazismo in genere si limitava alle battute e al mugugno. La maggioranza era rimasta sinceramente inorridita dall’attentato contro Hitler del 20 luglio 1944. E quando i confini del Reich cominciarono ad essere minacciati sia da est sia da ovest, si abbeverò al fiume di bugie di Goebbels sulle «nuove armi miracolose» che il Führer avrebbe scatenato contro i nemici, come se stesse per assumere il ruolo di un Giove furente che scagliava fulmini come simbolo della propria potenza.4
La lettera di una moglie al marito in un campo di prigionia francese rivela l’irreggimentata mentalità e la predisposizione a credere alla propaganda del regime. «Ho una tale fede nel nostro destino», scriveva la signora, «che nulla può scuotere la fiducia che ci viene dalla nostra lunga storia, dal nostro glorioso passato, come dice il dottor Goebbels. È impossibile che le cose si svolgano in modo diverso. Noi possiamo aver toccato in questo momento un punto molto basso, ma abbiamo uomini decisi. L’intera nazione è pronta a marciare, con le armi in pugno. Noi possediamo armi segrete che verranno usate al momento giusto e abbiamo soprattutto un Führer che possiamo seguire a occhi chiusi. Non lasciarti abbattere, non devi farlo.»5
L’offensiva delle Ardenne, sferrata il 16 dicembre 1944, inebriò di un rinnovato slancio i sostenitori di Hitler. La situazione ormai era stata rovesciata. La fiducia nel Führer e nelle Wunderwaffen, le armi miracolose come le V-2, li rendeva ciechi nei confronti di una più vasta realtà. Essi pensavano di poter tenere in scacco il mondo e di vendicarsi di tutte le sofferenze subite dalla Germania. I più esasperati sembra siano stati i sottufficiali anziani. Corsero voci che la 1a armata americana era stata circondata e fatta prigioniera grazie a un gas anestetico. Parigi stava per essere riconquistata, si dicevano a vicenda con feroce allegria. Molti lamentavano il fatto che la capitale francese fosse stata risparmiata, l’anno prima, mentre Berlino finiva in rovina sotto i bombardamenti. Ed ora esultavano all’idea che sarebbe stato possibile correggere la storia.
Il comando supremo dell’esercito non condivideva questo entusiasmo per l’offensiva sul fronte occidentale. Gli ufficiali dello stato maggiore generale temevano che la mossa strategica di Hitler contro gli americani nelle Ardenne avrebbe indebolito il fronte orientale in un momento decisivo. Il piano era, in ogni caso, troppo ambizioso. L’operazione aveva come punta di lancia la 6a armata corazzata delle SS dell’Oberstgruppenführer Sepp Dietrich e la 5a armata corazzata del generale Hasso von Manteuffel. Tuttavia la scarsità di carburante rendeva molto improbabile che raggiungessero il loro obiettivo, Anversa, la principale base di rifornimento degli Alleati occidentali.
Hitler aveva la fissazione di capovolgere in modo drammatico le sorti della guerra e di costringere Roosevelt e Churchill a scendere a patti. Aveva respinto con decisione tutti i suggerimenti di aperture nei confronti dell’Unione Sovietica, in parte per la valida ragione che a Stalin interessava soltanto la distruzione della Germania nazista, ma c’era anche un ostacolo fondamentale. Hitler aveva una profonda vanità personale. Non riusciva a immaginarsi di chiedere la pace mentre la Germania stava perdendo. Una vittoria nelle Ardenne aveva di conseguenza un’importanza vitale sotto ogni punto di vista. Ma la tenacia della difesa americana, soprattutto a Bastogne, e l’impiego massiccio dell’arma aerea alleata una volta tornato il sereno, dopo giorni di nuvole basse e nebbia, spezzarono entro una settimana la spinta dell’attacco.
La vigilia di Natale il generale Heinz Guderian, comandante dell’OKH, il comando supremo tedesco, raggiunse a bordo della sua grossa Mercedes il comando del Führer in occidente. Dopo avere abbandonato il 20 novembre 1944 la Wolfsschanze, la «tana del lupo» in Prussia Orientale, Hitler si era trasferito a Berlino per una piccola operazione alla gola e poi aveva lasciato la capitale la sera del 10 dicembre a bordo del suo treno corazzato personale. La sua destinazione era un altro complesso segreto e mimetizzato nella foresta dello Ziegenberg, a meno di 40 chilometri da Francoforte sul Meno. Soprannominato Adlerhorst, o «nido dell’aquila», era l’ultimo dei suoi comandi campali dotato di un nome convenzionale che sapeva di fantasia puerile.
Guderian, il grande teorico della guerra corazzata, aveva riconosciuto fin dal primo momento i pericoli di un’operazione del genere, ma il suo parere contava ben poco in questo campo. Per quanto l’OKH avesse la responsabilità delle operazioni sul fronte orientale, Guderian non ebbe mai mano libera. L’OKW, il comando supremo della Wehrmacht, e cioè di tutte le forze armate, aveva la responsabilità delle operazioni al di fuori del fronte orientale. Entrambe le organizzazioni erano di base poco a sud di Berlino, nel complesso sotterraneo di Zossen.
Nonostante avesse un temperamento brusco come quello di Hitler, Guderian vedeva le cose in modo del tutto diverso. Aveva ben poco tempo di pensare a una strategia internazionale mentre la Germania era attaccata su entrambi i lati. Si basava invece sul suo istinto di soldato concentrandosi verso il punto di pericolo maggiore. E non c’erano dubbi su quale fosse. La sua borsa personale conteneva l’analisi del servizio informazioni del generale Reinhard Gehlen, il comandante del Fremde Heere Ost, il dipartimento informazioni militari del fronte orientale. Gehlen aveva calcolato che verso il 12 gennaio l’Armata Rossa avrebbe sferrato un attacco massiccio dalla linea sul fiume Vistola. Il suo dipartimento aveva calcolato che il nemico godeva di una superiorità di undici contro uno per quanto riguardava la fanteria, di sette contro uno nei carri armati e di venti contro uno nell’artiglieria e anche nell’aviazione.
Guderian entrò nella sala conferenze all’Adlerhorst e si trovò di fronte Hitler e il suo stato maggiore, e anche Heinrich Himmler, il Reichsführer delle SS, il quale, dopo la congiura di luglio, era stato nominato comandante dell’armata dei complementi e rimpiazzi. Ogni elemento dello stato maggiore di Hitler era stato scelto in base alla sua incrollabile fedeltà. Il feldmaresciallo Keitel, capo di stato maggiore dell’OKW, il comando supremo delle forze armate, era famoso per il suo atteggiamento di pomposo servilismo nei confronti di Hitler. Gli esasperati ufficiali dell’esercito lo definivano «il garzone di garage del Reich» oppure «quel somaro che fa sempre cenno di sì». Il generale d’armata Jodl, dal viso duro e freddo, era di gran lunga più competente di Keitel, eppure nemmeno lui aveva fatto la benché minima opposizione ai disastrosi tentativi del Führer di tenere sotto controllo ogni battaglione. Aveva corso il rischio di essere destituito nell’autunno del 1942 per aver osato contraddire il suo padrone. Il generale Burgdorf, il principale aiutante di Hitler e capo del reparto personale dell’esercito, dal quale dipendevano tutte le nomine, aveva sostituito il fedele generale Schmundt, ferito mortalmente dalla bomba di Stauffenberg alla Wolfsschanze. Burgdorf era l’uomo che aveva consegnato il veleno al feldmaresciallo Rommel, con l’ultimatum di togliersi la vita.
Guderian, basandosi sui dati del dipartimento informazioni di Gehlen, illustrò l’ammassamento dell’Armata Rossa in preparazione di una colossale offensiva sul fronte orientale. Avvertì che l’attacco sarebbe scattato entro tre settimane e chiese, visto che l’offensiva nelle Ardenne si era ormai arenata, di ritirare il maggior numero di divisioni possibile per schierarle sul fronte della Vistola. Hitler lo bloccò, definendo risibili quelle valutazioni delle forze nemiche. Le divisioni fucilieri sovietiche non avevano più di 7.000 uomini l’una. I loro corpi corazzati non avevano in pratica carri armati. «È la più grande falsità dai tempi di Gengis Khan», urlò Hitler, accalorandosi. «Chi è il responsabile della diffusione di tutte queste fandonie?»6
Guderian resistette alla tentazione di rispondere che era stato proprio Hitler a parlare di «armate» tedesche quando esse avevano la consistenza di corpi d’armata e di «divisioni di fanteria» ridotte agli effettivi di un battaglione. Invece, egli difese le cifre di Gehlen. Sentì, inorridito, il generale Jodl sostenere che l’offensiva in occidente doveva proseguire con ulteriori attacchi. Dato che questo era proprio quanto Hitler voleva, Guderian si trovò bloccato. E rappresentò un’ulteriore provocazione per lui dover ascoltare a cena il verdetto di Himmler, che gongolava nel suo nuovo ruolo di capo militare. Era stato nominato da poco comandante del gruppo d’armate dell’Alto Reno, oltre a ricoprire altri incarichi. «Lo sa, mio caro colonnello generale», disse a Guderian, «io non credo affatto che i...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. BUR
  3. Frontespizio
  4. Prefazione
  5. Capitolo 1
  6. Capitolo 2
  7. Capitolo 3
  8. Capitolo 4
  9. Capitolo 5
  10. Capitolo 6
  11. Capitolo 7
  12. Capitolo 8
  13. Capitolo 9
  14. Capitolo 10
  15. Capitolo 11
  16. Capitolo 12
  17. Capitolo 13
  18. Capitolo 14
  19. Capitolo 15
  20. Capitolo 16
  21. Capitolo 17
  22. Capitolo 18
  23. Capitolo 19
  24. Capitolo 20
  25. Capitolo 21
  26. Capitolo 22
  27. Capitolo 23
  28. Capitolo 24
  29. Capitolo 25
  30. Capitolo 26
  31. Capitolo 27
  32. Capitolo 28
  33. Note
  34. Bibliografia