Perché è santo
eBook - ePub

Perché è santo

Il vero Giovanni Paolo II raccontato dal postulatore della causa di beatificazione

  1. 192 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Perché è santo

Il vero Giovanni Paolo II raccontato dal postulatore della causa di beatificazione

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Nel 2005, immediatamente dopo la sua scomparsa, Benedetto XVI aprì il processo di canonizzazione di Giovanni Paolo II, giunto ora alla prima importante tappa: la beatificazione. Il ruolo di postulatore fu affidato a monsignor S?awomir Oder, che ha trovato documenti e testimonianze in grado di fare nuova luce su aspetti prima ignorati della vita di Wojty?a. Questo libro raccoglie gli esiti eccezionali del suo lavoro, e presenta elementi capaci di completare il ritratto del grande papa. Un percorso affascinante attraverso la storia di un uomo straordinario; un racconto ricco, punteggiato di episodi che - come in un mosaico - compongono il volto in parte inedito del pontefice polacco: uomo, papa, mistico dei nostri tempi che ha percorso sino in fondo il cammino della santità.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Perché è santo di Saverio Gaeta, Slawomir Oder in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Teología y religión e Religión. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
BUR
Anno
2011
ISBN
9788858618035
Capitolo primo
L’UOMO
Una fede di carne e di ossa
Osservando la distesa di striscioni bianchi inneggianti «Santo subito», durante i funerali di Papa Giovanni Paolo II in quel luminoso venerdì 8 aprile 2005, il suo antico compagno universitario (e poi cardinale) Andrzej Maria Deskur ebbe un improvviso flashback. Con gli occhi della memoria tornò a un’altra fulgida giornata primaverile di sessant’anni prima, quando l’amico era noto semplicemente come Karol Wojtyła e soltanto da poche settimane, il 18 gennaio 1945, Cracovia era stata liberata dall’occupazione nazista.
Con la riapertura dell’Università Jagellonica, uno dei primi segni della ritrovata libertà, molti studenti erano rientrati nei collegi che erano stati costretti ad abbandonare qualche anno prima. Wojtyła era a quell’epoca il vicepresidente di «Bratnia pomoc» (Aiuto fraterno), l’associazione che riuniva gli universitari cattolici e gestiva diverse case per studenti. Un giorno Deskur, che dell’associazione era il segretario, salì da lui e sulla porta della stanza in cui Wojtyła stava studiando vide che gli amici avevano attaccato un foglietto vergato a mano: «Futuro santo».
L’intera esistenza di Karol Wojtyła può essere letta alla luce di questa preveggente iscrizione. Dal processo di beatificazione emerge infatti nitida la trasparenza di ogni suo gesto, come uomo e come sacerdote. L’opinione che il mondo aveva maturato nei suoi riguardi, conoscendone sempre meglio la figura durante gli oltre ventisei anni di pontificato, si è dimostrata fondata. La sua simpatia, il fervore della preghiera, la spontaneità del raccontarsi, la capacità di intessere rapporti non erano semplici attributi di un’immagine mediatica, ma tratti autentici della sua persona.
Il cristianesimo, che spesso tendiamo a disincarnare, come se la vita di fede fosse qualcosa di etereo e di privato, era per lui un’esperienza concreta, di carne e di ossa, la carne e le ossa di Gesù Cristo fattosi uomo per sperimentare le gioie e le sofferenze dell’umanità. È per questo che la testimonianza religiosa di Karol Wojtyła si è rivelata straordinariamente feconda, come documentano le lettere inviate alla Postulazione – dopo la sua morte – da quanti hanno tratto ispirazione da lui per comprendere quale fosse la propria autentica vocazione.
Non è un caso che Giovanni Paolo II abbia avuto innumerevoli amicizie. Con gli amici – anche nel tempo del pontificato – si incontrava a pranzo, faceva gite, andava a sciare, organizzava cori e rimpatriate durante le tradizionali festività polacche. Agli amici scriveva spesso, anche da Papa, e mai si limitava a fredde e formali parole di circostanza. La sua è stata una vera e profonda umanità vissuta con gioia, entusiasmo, generosità, e sempre immersa, al contempo, in un’atmosfera di intensa spiritualità.
Come un albero – una quercia possente e maestosa o forse quel tiglio da lui descritto nella poesia giovanile Il Magnificat, dal cui tronco fu intagliata la robusta statua di un santo – Giovanni Paolo II era profondamente radicato nella terra che lo aveva visto nascere. La sua patria gli restò sempre nel cuore, anche quando, da Papa, il suo apostolato abbracciava ormai il mondo intero.
Era fiero di essere nato nel 1920, l’anno del «miracolo sulla Vistola», come venne chiamata la battaglia del 15 agosto che diede alla Polonia, da poco tornata indipendente, la vittoria sulle truppe bolsceviche. Suo padre, sottufficiale dell’esercito austroungarico ai tempi della prima guerra mondiale, aveva preso parte a quel combattimento contro l’Armata Rossa come tenente dell’esercito polacco, guidato dal maresciallo Pilsudski. In seguito narrò più volte con orgoglio al figlio Karol che l’esito positivo dello scontro – ottenuto, secondo la tradizione, anche grazie all’intervento della Madonna – aveva impedito alle truppe di Lenin e di Trotzkij di invadere la Polonia e, da lì, tutta l’Europa, come prevedevano i piani dei rivoluzionari sovietici.
La figura paterna, sostanziata dalla serietà e dal senso di responsabilità tipiche di un militare della vecchia guardia, fu essenziale per il piccolo Karol, soprattutto dopo la prematura morte della madre Emilia, nel 1929, e del fratello maggiore Edmund, nel 1932. Spesso raccontava agli amici come gli si fosse impressa profondamente nell’animo l’immagine del padre che, in piedi accanto alla bara di Edmund (morto per curare un’epidemia di scarlattina), ripeteva le parole: «Sia fatta la tua volontà!». Era stato con il fratello che Karol aveva scoperto, all’età di undici anni, quello che sarebbe diventato in seguito uno dei pochissimi svaghi: arrampicarsi sui monti Tatra. Dopo la morte di Edmund, fu il padre, nei momenti liberi, a condurlo sulle montagne per compiere lunghe passeggiate.
La sua famiglia era profondamente legata alla tradizione polacca e radicata nella fede cattolica. L’impronta più forte nella sua formazione spirituale gli venne indubbiamente dal padre, ma anche mamma Emilia incise sulla sua maturazione umana, lasciandogli nell’animo una sensibilità che trovò poi compimento nella dimensione mariana del suo misticismo. Un percorso, quello dell’amore nei riguardi della Madonna, successivamente caratterizzato dalla straordinaria personalità del sarto Jan Tyranowski, che lo introdusse gradualmente in una profonda atmosfera di preghiera e devozione.
In un certo senso, la camera da letto di Giovanni Paolo II – sia in Vaticano, sia a Castel Gandolfo – era il sacrario delle memorie giovanili. Insieme con le immagini dei genitori e del fratello, su un tavolino erano esposte la fotografia di Tyranowski e quella del cappellano di Wadowice don Kazimierz Figlewicz, che era stato il suo catechista e confessore negli anni dell’infanzia.
Rimasto privo degli affetti familiari dopo la morte del padre nel 1941, Karol sperimentò come un allargamento del cuore: la sua nuova famiglia divennero gli amici di gioventù e poi, via via, i compagni di Seminario, i parrocchiani, gli altri sacerdoti, i suoi collaboratori nell’episcopato, i fedeli della diocesi di Cracovia e del mondo intero. In ogni luogo nel quale sentiva di essere stato inviato dal Signore in missione trovò un rimpiazzo della sua famiglia d’origine, riuscendo a instaurare un intimo rapporto con chiunque.
Lo «zio» Karol
L’umanità di Wojtyła includeva le tradizioni, i sentimenti, i ricordi, perfino i sapori della sua terra polacca. Il Pontefice aveva, per esempio, una predilezione speciale per i pasticcini di Wadowice, i kremówki, ma anche quelli di Toruń, i katarzynki, gli piacevano molto e così, ogni volta che qualcuno si recava in Vaticano dalla Polonia, gli portava un pacchetto con dolci appena sfornati. Poi magari non li mangiava, spesso in spirito di penitenza, ma era comunque contento di poterli offrire a quanti andavano da lui in udienza.
Erano molte le occasioni in cui un evento, un incontro, una particolare circostanza lo riportavano indietro nel tempo facendo riemergere, dalla sua prodigiosa memoria, ricordi nitidi e intatti. L’affetto nutrito per amici e compagni di gioventù rimaneva vivo in lui nonostante il passare degli anni e più di una volta lo indusse, da Papa, a riallacciare rapporti con persone da tempo perdute di vista.
Così è accaduto con l’ingegnere ebreo Jerzy Kluger, amico d’infanzia ai tempi di Wadowice, con cui Wojtyła aveva drammaticamente perso i contatti durante i tragici eventi della seconda guerra mondiale e della deportazione nazista nei campi di concentramento. Dopo l’elezione al pontificato, i due amici si ritrovarono, frequentandosi assiduamente in Vaticano e a Castel Gandolfo fino alla morte di Giovanni Paolo II.
Fra loro amavano ricordare soprattutto un episodio, risalente agli ultimi giorni del ciclo elementare. Jerzy abitava nei pressi della scuola e, di prima mattina, si era recato a vedere i risultati dell’esame di ammissione al ginnasio, positivi sia per lui che per Karol. Si era quindi precipitato a casa dell’amico per dargli la bella notizia, ma gli era stato detto che stava servendo la Messa nella parrocchia di Nostra Signora. Sebbene non fosse mai entrato in una chiesa cattolica, quella volta decise di farlo, sistemandosi sul fondo in attesa che la funzione si concludesse. Dall’altare Karol lo scorse, facendogli segno di stare fermo e non parlare. Una donna però lo riconobbe e gli chiese con durezza come si fosse permesso di profanare la chiesa, lui che era un ebreo. Finita la Messa, Karol raggiunse Jerzy e non prestò la minima attenzione alla notizia che aveva superato l’esame. Quel che gli premeva sapere era invece cosa avesse detto la donna al suo amico. Quando ne fu informato, commentò addolorato: «Ma non sa che siamo tutti figli dello stesso Dio?».
Wojtyła aveva allora soltanto dieci anni, ma già guardava con straordinaria maturità all’odio razziale che serpeggiava nell’intimo di alcuni suoi concittadini. Di quell’odio si sarebbe alimentata la più immane tragedia del Novecento, che Wojtyła rievocherà poi con emozione: «Io stesso ho ricordi personali di tutto ciò che avvenne quando i nazisti occuparono la Polonia durante la guerra. Ricordo i miei amici e vicini ebrei, alcuni dei quali sono morti, mentre altri sono sopravvissuti». Fu in quell’epoca che si consolidò in lui quel rispetto per gli ebrei che lo porterà a definirli, in occasione della visita del 1986 alla Sinagoga di Roma, «fratelli maggiori». Un rispetto che verrà emblematicamente suggellato dalla affettuosa citazione del rabbino romano Elio Toaff nel proprio testamento (unico nome a essere ricordato, oltre a quello del fedele segretario, monsignor Stanisław Dziwisz).
Con i compagni di liceo riuscì a mantenere rapporti costanti. La tradizione di organizzare incontri periodici, cominciata negli anni di Cracovia, non si interruppe con la sua elezione a Papa, e in più occasioni li volle a Castel Gandolfo. Quando poi, durante il suo ultimo viaggio in Polonia, nell’agosto 2002, scoprì che l’arcivescovo di Cracovia, il cardinale Franciszek Macharski, aveva invitato a cena i suoi compagni dell’ultimo anno, lo ringraziò commosso. E più tardi commentò: «Eravamo quaranta, siamo rimasti in otto, e non tutti sono potuti venire».
I compagni hanno ricordato Karol Wojtyła come un ragazzo dotato di talenti straordinari, molto amichevole e che si distingueva per il suo alto livello morale. A scuola, per esempio, non permetteva a nessuno di copiare da lui, poiché lo considerava un comportamento disonesto. Si rendeva però sempre disponibile ad aiutare chi ne avesse bisogno, rispiegando cose non capite o facendo insieme i compiti al pomeriggio. Una volta in Seminario, il suo atteggiamento non mutò. Quando un compagno gli si avvicinò chiedendogli se lo avrebbe aiutato durante la verifica che dovevano affrontare quel giorno, Wojtyła gli rispose: «Carissimo, affidati a Dio e prova da solo».
Anche con le ragazze il suo comportamento fu sempre limpido e privo di ombre, come dimostra questo episodio. Nel 1952, don Karol aveva organizzato insieme a due ragazzi e tre ragazze una passeggiata sui monti Tatra, per vedere la fioritura dei crocus. La notte del 20 aprile il gruppetto avrebbe dovuto raggiungere in treno Zakopane e da lì partire per l’escursione. Lui e le ragazze erano già a bordo del vagone quando i ragazzi li raggiunsero affannati per informarli che era stata anticipata la data di un esame e che quindi dovevano rimanere a Cracovia. Per le ragazze, però, era impossibile a quell’ora rientrare nel collegio delle suore Nazaretane, dove alloggiavano, perché la porta veniva chiusa alle dieci di sera e riaperta alle sei del mattino.
Nell’arco di pochi minuti Wojtyła dovette decidere il da farsi. La prudenza gli consigliava di soprassedere – era impensabile che un sacerdote viaggiasse da solo con tre ragazze – ma la trasparenza assoluta del suo rapporto d’amicizia con le compagne d’avventura gli consentì di dir loro: «Andiamo lo stesso». Il treno era pieno, c’era soltanto un posto libero a sedere. Secondo l’aneddotica, quando le ragazze gli chiesero come avrebbero dovuto rivolgerglisi in pubblico, visto che chiamarlo «don» sarebbe stato sconveniente, Wojtyła, che indossava abiti da turista, rispose prontamente citando una famosa frase dello scrittore Henryk Sienkiewicz: «Chiamatemi wujek», zio. Questo appellativo sarebbe rimasto, per tanti giovani amici, il suo soprannome anche da Papa.
Del resto, è proprio così che Wojtyła firmava le lettere, vergate su carta intestata con lo stemma pontificio, indirizzate ad alcuni membri del ramo materno della sua famiglia residenti a Toruń, verso i quali conservava gratitudine per l’aiuto che gli avevano offerto durante la seconda guerra mondiale.
In quelle missive dimostrava affettuosa attenzione per la vita quotidiana dei destinatari: chiedeva notizie di persone conosciute, si informava della salute di qualche ammalato, esprimeva cordoglio per la morte di un congiunto, e così via. Continuò sempre a seguirli, compatibilmente con le crescenti responsabilità pastorali. Da cardinale, andò a celebrare alcuni battesimi e il matrimonio di una pronipote, del quale ci sono rimaste le fotografie che lo ritraggono sorridente durante il pranzo nuziale. Da Papa, li invitò a Castel Gandolfo per un periodo di vacanza.
Tutte le volte in cui, da vescovo o da cardinale, era di passaggio a Roma, i sacerdoti polacchi impegnati in Vaticano avevano l’abitudine di invitarlo per festeggiare onomastici o compleanni. Se non aveva impegni inderogabili, Wojtyła accettava volentieri. Quando divenne Papa, uno dei suoi vecchi amici non aveva il coraggio di invitarlo per la ricorrenza dell’onomastico. Una sera fu ospite a cena nel Palazzo apostolico e Giovanni Paolo II lo rimproverò con fare scherzoso: «Quando ero cardinale mi invitavi, adesso da Papa non mi inviti. Che io venga o non venga è un conto, ma l’invito dovrebbe esserci sempre!».
Sono stati davvero molti i collaboratori della Curia romana che durante il suo pontificato hanno ricevuto segni di riconoscenza in occasione dell’onomastico, oppure dell’anniversario d’ordinazione sacerdotale o episcopale. E questo atteggiamento premuroso non trascurava certo i laici. Dopo l’elezione, per esempio, telefonò a Cracovia e chiese di inserire gratuitamente nel gruppo che si sarebbe recato a Roma per l’inaugurazione del pontificato la signora Maria, che faceva le pulizie nel palazzo arcivescovile di Cracovia. E nell’ultimo giorno di vita volle dare un saluto ai più alti esponenti del Vaticano, ma anche a Franco, che si occupava dell’appartamento pontificio, e ad Arturo, il fotografo che gli era accanto da anni.
Il sacerdote nato dalle ceneri dell’attore
Il ricordo più antico dell’infanzia di Karol è stato tramandato dalla sua maestra d’asilo, suor Filotea: il piccolo aveva soltanto quattro anni e frequentava la scuola materna delle Nazaretane di Wadowice, in via Lwowska. Era un bambino allegro e vivace e le religiose lo chiamavano con il familiare diminutivo «Lolek». Una volta si era arrampicato su un alberello, ma un cane si era avvicinato e aveva cominciato ad abbaiare. Le suore ebbero paura che potesse morderlo e così accorsero trafelate in suo aiuto. Il piccino, però, non appariva affatto spaventato.
Al primo anno di ginnasio, quando Karol aveva undici anni, risale invece un episodio che mostra la sua precoce sensibilità religiosa. Nella scuola c’era un bidello che era un forte bevitore di vodka. Un giorno, mentre si trovava sulla strada di fronte all’edificio, per l’ubriachezza non si accorse che stava sopraggiungendo una macchina: fu investito e cadde a terra gravemente ferito. Gli studenti si assieparono intorno all’uomo esitanti sul da farsi, finché, qualche minuto dopo, giunse il sacerdote della vicina parrocchia in compagnia di Karol, che era andato a chiamarlo per offrire assistenza spirituale al bidello.
I successivi anni del liceo furono quelli della scoperta del teatro, che per Wojtyła rappresentò la prima autentica passione. Già ai tempi di Wadowice aveva mostrato la propria capacità interpretativa recitando il Prometidion di Cyprian Kamil Norwid, in un concorso nel quale aveva vinto il secondo premio. Aveva diciott’anni quando, il 15 ottobre 1938, organizzò una serata di poesia insieme agli amici con i quali studiava filologia polacca all’Università Jagellonica. Dopo aver declamato alcuni versi propri, rivelò pubblicamente che desiderava diventare attore.
Dopo qualche mese iniziò a frequentare il Teatro della parola viva, guidato da Mieczysław Kotlarczyk, che gli affinò la dizione, precisò il ritmo della sua tempistica, ne migliorò il senso del rapporto con il pubblico. Nel giugno 1939 sostenne il ruolo del Toro, uno dei segni dello Zodiaco, nello spettacolo Il cavaliere della luna, allestito nel cortile del collegio Nowodworski. In seguito recitò nel ruolo di Gucio nei Voti delle fanciulle. L’eccezionale memoria, che supportava il suo spiccato talento, gli consentì, in occasione della messa in scena di Balladyna, di ricoprire oltre al proprio anche il ruolo di un compagno ammalato.
Durante l’occupazione nazista le rappresentazioni proseguirono clandestinamente e un giorno, con uno straordinario sangue freddo, Wojtyła continuò a recitare nel Pan Tadeusz mentre in strada era in corso un rastrellamento delle SS.
Tanto amore per le scene conviveva in Karol con un’intensa ricerca spirituale: due strade impegnative che però, prima o poi, lo avrebbero posto di fronte a una scelta difficile. Quella scelta, probabilmente, maturò proprio in coincidenza di uno spettacolo, nel quale Karol declamava un monologo del re Bolesław l’Ardito in cui si rievocava la resurrezione di Piotrowin a opera di san Stanisław, e alcuni frammenti del Re Spirito di Juliusz Słowacki. Come ha raccontato una testimone oculare, in occasione della prima rappresentazione Karol recitò con voce forte e convinta, mentre nella replica, quindici giorni più tardi, a malapena sussurrava le parole. Gli fu chiesto il motivo di questa inaspettata svolta interpretativa e lui rispose che aveva riflettuto ed era giunto alla conclusione che quel monologo fosse una confessione.
Gli amici si fecero l’idea che in quelle settimane dalle ceneri dell’attore fosse nato il sacerdote. Uno di loro, quando Wojtyła era già Papa, glielo scrisse in una lettera, alla quale aveva allegato la registrazione di quella recita. Ed ebbe come risposta: «Hai scritto bene. È accaduto proprio questo. Accetto di tutto cuore». La sua ultima apparizione sulle scene avvenne nel marzo 1943, come protagonista del Samuel Zborowski di Słowacki.
La forte spiritualità che animava quel giovane studente appassionato di teatro non passava certo inosservata ai suoi compagni di università. Uno di quelli che poi gli divenne amico ha testimoniato che la sua discrezione era tale che per molto tempo non avevano saputo nemmeno quale fosse il suo cognome. E così gli avevano dato il soprannome di «Sadok», dato che in quegli anni erano molto popolari i libri di Władysław Grabski intitolati All’ombra della collegiata e Il confessionale, il cui protagonista era un certo padre Sadok.
In quei mesi Wojtyła compì un gesto che avrebbe potuto costargli caro. Dal 1936 c’era la tradizione di un grande pellegrinaggio annuale della gioventù universitaria al santuario della Madonna Nera di Jasna Góra. Durante l’occupazione nazista l’iniziativa era stata proibita ma, per mantenere ininterrotta la tradizione, Karol riuscì a giungere clandestinamente nel santuario con altri due delegati, nonostante Częstochowa fosse circondata dalle truppe di Hitler.
Un clandestino in Seminario
Giovanni Paolo II amava ripetere che il suo primo Seminario lo aveva frequentato a casa, con il padre. A illuminarlo sul profondo significato della preghiera e ad accrescere in lui il senso di devozione al divino era stato in seguito il sarto Jan Tyranowski, animatore, fra l’altro, del gruppo del «Rosario vivente», composto da quindici giovani a ciascuno dei quali era affidata la recita quotidiana di un Mistero. Anche Karol entrò a ...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. BUR
  3. Frontespizio
  4. Citazione
  5. Premessa
  6. Capitolo primo: L'uomo
  7. Capitolo secondo: Il Papa
  8. Capitolo terzo: Il Mistico
  9. Apparati