NOTA EDITORIALE
I testi della presente edizione sono stati stabiliti sulla base della documentazione, scritta e audio, conservata nell’Archivio storico di Comunione e Liberazione. È stata mantenuta la forma orale dei dialoghi e delle conversazioni. Gli interlocutori sono introdotti dal termine “intervento”. Tutti gli altri testi sono riferiti all’Autore.
Le note storiche, in corsivo nel testo, sono a cura di Onorato Grassi.
RIDARE IDENTITÀ ALL’UMANO
Nel novembre del 1987 gli italiani, chiamati a pronunciarsi su cinque quesiti referendari, si dichiararono ampiamente d’accordo sull’introduzione della responsabilità civile dei magistrati per colpa grave e contrari all’energia nucleare (con la conseguente abolizione delle norme per la gestione e costruzione di centrali nucleari in Italia). All’avvio dell’attività accademica, gli universitari si trovarono così impegnati in una nuova tornata politica, che li mise nuovamente dinanzi alla questione del Potere, della sua natura e dei meccanismi con cui opera nella società. Le scelte referendarie – destinate a influire sul futuro prossimo e remoto dell’Italia – non erano disgiunte dalle scelte che ogni giorno si prendevano, nella propria condizione e nel proprio ambiente, nei confronti dello studio, dei professori e dei propri compagni. Una proposta, che voleva mantenersi originale, si scontrava così contro nuovi conformismi e nuove mode, simboli del riflusso di quegli anni, e contro quel richiudersi su se stesse delle istituzioni, che sembrava ignorare le esigenze degli studenti (un giornalino universitario di allora, «Malaspada», non a caso aveva rivolto i suoi editoriali alla “Questione della libertà”). In queste circostanze, si avvertiva però una crisi ancora più radicale, che riguardava l’esistenza stessa umana. Chi e che cosa fosse l’uomo erano diventate domande alle quali era sempre più difficile dare una risposta. Ci si trovò a fare i conti con un disagio fino ad allora sconosciuto. Il cammino di personalizzazione, iniziato nelle comunità universitarie, veniva così ad assumere un compito nuovo: «Ridare identità all’umano», come era stato proposto nelle Giornate autunnali d’inizio anno e come venne riproposto, quale tema qualificante, all’Equipe invernale. Don Giussani, avvertendo l’incombenza della questione antropologica che stava investendo la società e la cultura a ogni livello, delineò i termini di una possibile ripresa, per affrontare quella che egli stesso definì «emergenza uomo». Intanto, alla parola «movimento» veniva sempre più riconosciuto il significato originale; non quello di indicare un’organizzazione o un’associazione, ma un’esperienza umana in moto, caratterizzata dalla mobilitazione di coscienze e di opere prodotta da un «incontro».
Assemblea
Giussani: Meditativo, bellissimo, il canto che abbiamo cantato. Ma la meditazione esige che l’uomo sia sveglio. Ora, larghi strati della popolazione qui dentro non sono ancora giunti alla soglia della “sveglia”, perciò occorre un canto un po’ più energico, per esempio Camminerò. Cantiamolo tutti.
Camminerò
Giussani: Che sviluppo quello che ci diremo oggi! Sono fronde, fiori e frutti. Pensate alla cosa com’è nata: come un seme. Ma anche in ognuno di voi è nata come una realtà che per sé, immediatamente, quasi non era del tutto distinguibile da tutto ciò che l’attorniava, come il seme dentro la terra. E dopo, che sviluppo! Ecco, allora cantiamo Il seme – per ricordarci l’inizio, che magari non ricordiamo neanche più –, ma senza gridare. Occorre cantarlo in modo agitato, nervoso, con l’impeto del cuore, ma sottovoce.
Il seme
Giussani: Quando non sapete più cosa pensare, quando vi sentite aridi e niente più vi tocca, dovete rimeditare la liturgia delle ore del lunedì, soprattutto il primo salmo e la preghiera finale delle Lodi. «Cristo, uomo nuovo, salvaci!»: è la sintesi. «Rivelaci il mistero dell’uomo e colma il suo desiderio di liberazione». L’alternativa a una simile domanda è: «Non c’è desiderio di liberazione nell’uomo, sopprimiamo, obliteriamo il desiderio di liberazione nell’uomo, schiacciamo l’uomo», come Voltaire diceva di Cristo: «Schiacciamo l’infame». E poi c’è il resto, soprattutto (dovrebbe essere la descrizione del nostro inceptum, del nostro progetto) l’inno, così bello. «Nel primo chiarore del giorno...»: è l’accendersi della possibilità di un’altra visione delle cose, di un altro sentimento (l’accendersi della possibilità: non è l’esperienza di questa possibilità, ma dell’accendersi della possibilità). «E noi che di notte vegliammo...» Non è una bugia, alle dieci del mattino, dire così. Non lo è per la gran notte che ci circonda, che è nella testa di tutti – di tutti! –, tanto è vero che è anche normalmente nella nostra testa. «E noi che di notte vegliammo»: in questa notte, spuntiamo come stelle, «protesi al ritorno di Cristo», «attenti alla fede del mondo», perché sappiamo che il fondo del cuore di qualsiasi uomo attende qualche cosa che non ha e non può immaginare. «Protesi al ritorno di Cristo»: che Egli sia venuto duemila anni fa, che non sia inutile che Egli sia venuto, vuole dire che deve ritornare adesso. Altrimenti sarebbe inutile. E ritorna attraversando, utilizzando le tue ganasce e i tuoi muscoli, ma soprattutto i tuoi pensieri e il tuo modo di sentire, cioè quella miserabile cosa che si dice «io» (ed è per questo che non è miserabile). «Or verso la luce guardiamo»; in qualsiasi momento della nostra giornata dovremmo potere dire così: «Verso la luce guardiamo». «In Te ci vestiam di speranza»: non esiste altra possibilità di rivestirci di speranza, se non la memoria o la coscienza di Cristo. E questo è il test: se in noi vive la gioia e il desiderio di amare. Rileggerete voi il resto. Comunque, noi siamo definiti, nel senso matematico o metafisico della parola, da questo: «Ecco la generazione che Ti cerca; cerca il Tuo volto, Dio d’Israele». Noi siamo la generazione che ti cerca, che cerca il volto, vale a dire la visibilità, la tangibilità, l’ascoltabilità, l’esperienza del Dio, del divino, che vuole dire l’esperienza del destino. Il ricupero di cui abbiamo parlato nella Giornata d’inizio anno è questo: «Cercare il tuo volto, Dio d’Israele». Noi cerchiamo l’esperienza del divino, del divino che si è già manifestato, che è già entrato nel mondo, Dio d’Israele, che già è riferibile a un dato storico, perciò non navighiamo nella fantasia.
Adesso ti cedo la parola. Avresti dovuto tu cederla a me prima – ma fa niente –, perché il laico qui trionfa! Siamo quanto di più anticlericale esista al mondo. Non vorrete mica dubitarne! Chi dubita, me lo dica dopo, sinceramente.
Intervento: Volevo riassumere in tre punti il contenuto dei contributi...
Giussani: Questo è già un po’ clericale però: «Tre», tre punti!
Intervento: È il minimo. Comunque, volevo riassumere in tre punti il giudizio emerso nei contributi rispetto alla vita delle nostre comunità in questi primi mesi dell’anno. Il primo è il giudizio, il secondo e il terzo punto sono più problematici, per cui potrebbero essere utili per la discussione nell’assemblea.
I banchetti d’inizio anno, le iniziative che le comunità hanno fatto, i gesti di questi primi mesi, insomma, hanno rivelato un fatto significativo: che l’incontro è il punto di origine di quel lavoro per ridare identità all’umano di cui si è parlato nella Giornata d’inizio anno.
Giussani: Io, scusami, non ho capito bene. Tu, in prima fila, hai capito? Eri un po’ distratto, quindi non hai capito; però anche in sé, metafisicamente, la questione potrebbe essere ripresa.
Intervento: Ripeto, allora. L’incontro è stato sperimentato come il punto di origine pe...