La ruota del buio
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La ruota del buio

Serie di Pendergast vol. 8

  1. 435 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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La ruota del buio

Serie di Pendergast vol. 8

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"Uno strepitoso mix di esoterismo e high-tech."
— Entertainment Weekly Nessuno sa quale sia il potere dell'Agozyen, il misterioso manufatto da sempre custodito nel tempio buddista di Gsalrig Chongg, in Tibet. Durante l'annuale cerimonia di apertura della stanza segreta, i monaci scoprono che l'Agozyen è sparito. L'agente speciale dell'FBI Aloysius Pendergast, che sta completando la sua istruzione nella meditazione e nelle arti marziali, accetta di indagare: si mette sulle tracce di uno strano viaggiatore e lo segue da Pechino a Venezia, a Londra, per giungere alla Britannia, la nave da crociera più grande e lussuosa mai costruita. Pendergast e la sua pupilla Constance Greene riescono a salpare all'ultimo momento, ma il viaggio inaugurale del transatlantico si trasformerà ben presto in un vero e proprio incubo.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2011
ISBN
9788858618448
La ruota del buio

Capitolo 1

Nella vastità della Valle di Llölung si muovevano solo due puntini neri. Si spostavano lungo un sentiero, poco più grandi delle pietre spaccate dal gelo che ricoprivano il manto della vallata. Era un luogo desolato, senza alberi, in cui il vento sussurrava fra le rocce e le aquile nere stridevano dall’alto dei dirupi. Le figure, a cavallo, si stavano avvicinando a un’immensa parete verticale di granito che si innalzava per settecento metri e dalla quale colava un sottile flusso d’acqua: la sorgente dello Tsangpo, il fiume sacro.
Il sentiero scompariva in una gola, riappariva più in alto come uno sfregio obliquo nella parete, quindi percorreva un lungo crinale prima di svanire nuovamente tra le crepe e i picchi frastagliati. Sullo sfondo si ergevano stupende, imponenti e maestose tre cime dell’Himalaya: il Dhaulagiri, l’Annapurna e il Manaslu, da cui si levavano folate di neve. Dietro le immense montagne incombeva un mare di nubi color ferro.
Le due sagome cavalcavano incappucciate per proteggersi dal vento gelido. Era l’ultima tappa di un lungo viaggio e, a dispetto della minaccia di tempesta, procedevano lentamente: i cavalli erano esausti. Guadarono due volte un agitato e rumoroso corso d’acqua, poi entrarono nella gola. Continuarono a seguire il sentiero, appena abbozzato, che risaliva il torrente. Nell’ombra, ai piedi della parete di roccia si potevano scorgere nicchie azzurrine di ghiaccio. Le nubi scure attraversavano il cielo sospinte dal vento crescente che mugghiava in cima ai dirupi.
D’un tratto, il sentiero prendeva a inerpicarsi ripido lungo un crepaccio terrificante. Un’antica garitta in rovina si ergeva su una sporgenza: quattro pareti di pietra sbriciolata su cui i merli si erano appollaiati. Ai piedi della crepa si innalzava una grossa pietra manix sulla quale era stata incisa una preghiera tibetana, lucidata dal tocco di migliaia di viaggiatori in cerca di benedizioni prima di avventurarsi verso la cima.
Giunti alla garitta, i due viandanti smontarono da cavallo. Da qui avrebbero dovuto proseguire a piedi, guidando gli animali lungo lo stretto sentiero: gli spuntoni di roccia sopra le loro teste non permettevano di fare altrimenti. Qua e là la parete era franata, trascinando con sé parte del sentiero, ma qualcuno aveva provveduto a rattopparlo con scricchiolanti ponticelli privi di parapetto, fatti di assi di legno grezzo e pali impiantati nella roccia. In certi punti la pendenza era tale da costringere i viandanti e le loro cavalcature a salire gradini intagliati nella pietra, resi irregolari e scivolosi dal passaggio di innumerevoli pellegrini e animali.
Il vento stava cambiando direzione e rimbombava nella gola, trascinando con sé raffiche di neve. Le nubi oscurarono il crepaccio, che si fece nero come la notte. Eppure le due figure continuavano la loro ascesa vertiginosa, lungo le scalinate ricoperte di ghiaccio e il sentiero obliquo. Il rombo della cascata riecheggiava irreale tra le mura di pietra, come voci misteriose che parlavano in lingue sconosciute.
Quando i viandanti misero piede sul crinale, il vento li obbligò a rallentare, staffilando i loro abiti e mordendo la pelle esposta all’aria. I due strattonarono le briglie dei cavalli riluttanti e proseguirono a testa bassa, fino a raggiungere i resti di un villaggio abbandonato. Era un luogo desolato: case abbattute da un antico cataclisma, travi divelte e fracassate, mattoni di fango dissolti nella terra da cui provenivano. Al centro del villaggio sorgeva un cumulo di pietre in cima al quale, da un palo, saettavano innumerevoli e logore bandierine delle preghiere. Al limitare delle case si stendeva un cimitero dimenticato, le cui mura di contenimento erano crollate, lasciando franare ossa e teschi lungo una pietraia. All’arrivo dei due, uno stormo di corvi si levò rumorosamente in volo, gracchiando una protesta al cielo plumbeo.
Uno dei viandanti si fermò davanti al cumulo di pietre e fece cenno all’altro di aspettare. Si chinò a raccogliere un sasso e lo aggiunse al mucchio. Poi si soffermò brevemente a meditare, le vesti scosse dal vento. Infine riprese le redini del suo cavallo e proseguì il cammino.
Oltrepassato il villaggio deserto, il sentiero si restringeva bruscamente, percorrendo un altro sottile crinale. Lottando contro la veemenza del vento, le due figure avanzarono lente, costeggiando la dorsale della montagna, fino a scorgere i merli e i pinnacoli di una vasta fortezza che si stagliava contro il cielo cupo.
Quello era il monastero conosciuto come Gsalrig Chongg, un nome traducibile con «il Gioiello della Coscienza del Vuoto». Man mano che il sentiero proseguiva lungo la fiancata della montagna, l’austero edificio apparve in tutto il suo splendore: mura massicce dipinte di rosso, contrafforti aggrappati allo spoglio granito, fino a un complesso di tetti, pinnacoli e torri che qua e là brillavano di lamine d’oro. Era uno dei pochissimi monasteri scampati al saccheggio che aveva accompagnato l’invasione cinese del Tibet e la cacciata del Dalai Lama. A quel tempo migliaia di monaci erano morti e inestimabile è il numero delle strutture religiose che furono distrutte. Gsalrig Chongg era stato risparmiato, in parte perché inaccessibile, in parte perché prossimo al confine con il Nepal, già di per sé oggetto di dispute. Ma la ragione principale era stata una banale svista burocratica: per qualche motivo l’esistenza del monastero era sfuggita all’attenzione delle autorità cinesi. Persino le più recenti carte ufficiali della cosiddetta Regione Autonoma del Tibet non ne indicavano la posizione. Gli stessi monaci facevano di tutto perché la situazione restasse inalterata.
Il sentiero si inerpicava lungo un ripido pendio, dove gli avvoltoi stavano banchettando su un mucchio di ossa sparpagliate.
«A quanto pare qualcuno è morto di recente» mormorò uno dei viandanti, indicando i grossi uccelli, per nulla intimiditi dal loro passaggio.
«Qualcuno?»
«Quando un monaco muore, il suo corpo viene macellato e dato in pasto agli animali selvatici. È considerato un grande onore che i propri resti servano a nutrire altri esseri viventi.»
«Usanza peculiare.»
«Al contrario. La logica è impeccabile. Sono le nostre usanze a essere peculiari.»
In fondo al sentiero, una porticina si aprì nelle massicce mura di cinta. Un monaco buddista con indosso una veste scarlatta e color zafferano apparve sulla soglia, reggendo una torcia accesa. Sembrava che li stesse aspettando.
Le due figure incappucciate oltrepassarono la porta, seguite dai loro cavalli. Sopraggiunse un altro monaco che, in silenzio, prese le briglie e condusse gli animali alle stalle.
Stava calando l’oscurità. I due viandanti si fermarono davanti al primo monaco, che non disse nulla e rimase in attesa.
Uno dei due nuovi venuti tirò indietro il cappuccio, rivelando il viso lungo e pallido – quasi marmoreo –, i capelli di un biondo chiarissimo e gli occhi argentei di Aloysius Pendergast, agente speciale del Federal Bureau of Investigation.
Il monaco si voltò verso la seconda figura che, esitante, ritrasse a sua volta il cappuccio. Una chioma castana si sciolse al vento, intrappolando i fiocchi di neve che aleggiavano nell’aria. La donna, che teneva il capo lievemente chino, dimostrava una ventina d’anni e aveva un viso delicato, labbra finemente disegnate e zigomi alti: Constance Greene, la pupilla di Pendergast. I suoi penetranti occhi nocciola si guardarono intorno, memorizzando tutto ciò che la circondava in una frazione di secondo, prima di tornare ad abbassarsi.
Il monaco le riservò solo una rapida occhiata. Poi, senza commenti, fece loro cenno di seguirlo lungo il sentiero lastricato che conduceva al complesso principale.
Pendergast e Constance obbedirono, in silenzio. Oltrepassarono un secondo portale, entrando negli oscuri confini del monastero vero e proprio. L’aria odorava di cera e legno di sandalo. Le pesanti porte di ferro si richiusero alle loro spalle con un tonfo assordante. In un attimo il rimbombare del vento si ridusse a un tenue sussurro. Proseguirono lungo un interminabile corridoio, su un lato del quale si allineavano le ruote delle preghiere: cigolanti cilindri di ottone che giravano senza posa, animati da qualche meccanismo nascosto. Il corridoio svoltava, si biforcava, svoltava di nuovo, inoltrandosi nel cuore del monastero. Apparve un altro monaco, con un candelabro di ottone. La luce guizzante delle fiamme rivelò una serie di affreschi su entrambe le pareti.
I meandri del corridoio li guidarono in una vasta camera, una parete della quale era dominata da una statua d’oro di Padmasambhava, il Buddha Tantrico, illuminato dallo sfarfallio di centinaia di candele. A differenza della maggior parte delle rappresentazioni del Buddha, con gli occhi semichiusi in contemplazione, questa li aveva spalancati, attenti e vivaci, a simboleggiare la coscienza superiore raggiunta mediante lo studio delle dottrine segrete dello Dzogchen e di quelle ancora più esoteriche del Chongg Ran. Il monastero era uno dei due soli luoghi al mondo in cui si preservava l’enigmatica disciplina nota – a pochi – come la Temporaneità del Gioiello della Mente.
Pendergast e Constance si soffermarono sulla porta. In fondo al santuario, venti monaci sedevano immobili e silenziosi su gradinate di pietra, come se fossero in attesa di qualcuno. La gradinata superiore era occupata dall’Abate del monastero, un uomo dall’aspetto singolare: il suo viso saggio segnato dalle rughe sembrava perennemente divertito, quasi beffardo. Le vesti gli pendevano dal corpo ossuto come panni stesi ad asciugare. Accanto a lui sedeva un altro monaco che Pendergast conosceva: Tsering, meno anziano dell’Abate, era uno dei pochi a conoscere l’inglese all’interno del monastero. Aveva il ruolo di «direttore» del monastero. Doveva avere all’incirca sessant’anni, portati in modo eccezionale. Sotto di loro vi era una fila di uomini di età assortite, alcuni poco più che adolescenti, altri vecchi e raggrinziti.
Tsering si alzò in piedi e parlò in inglese, con la strana cadenza musicale dei tibetani. «Amico Pendergast, bentornato a monastero di Gsalrig Chongg. Benvenuta anche tua ospite. Prego, sedete a bere tè con noi.» Indicò una panca di pietra con due cuscini ricamati, gli unici in tutta la sala.
I due si accomodarono. Di lì a poco giunsero altri monaci che portarono vassoi d’argento con tazze fumanti di tè al burro e tsampa.
Sorseggiarono in silenzio la bevanda dolce e, solo quando ebbero finito, Tsering riprese la parola. «Che cosa riporta amico Pendergast a Gsalrig Chongg?»
L’interpellato si alzò in piedi. «Grazie per il tuo benvenuto, Tsering» cominciò a bassa voce. «Sono lieto di essere di nuovo qui. Torno da voi per continuare il mio viaggio di meditazione e illuminazione. Permettimi di presentarti la signorina Constance Greene: anche lei ha in animo di studiare.» La prese per mano e lei si alzò a sua volta.
Seguì un silenzio prolungato. Poi, finalmente, anche Tsering si levò in piedi. Si avvicinò a Constance, le si mise davanti e la guardò in viso, calmo. Protese una mano a toccarle i capelli, saggiandoli delicatamente con le dita. Quindi, con pari delicatezza, le toccò i seni, prima uno e poi l’altro. Lei rimase immobile, senza batter ciglio.
«Siete una donna?» domandò il monaco.
«Non sarò certo la prima che vedete» ribatté lei, pungente.
«No. Non vedo una donna da mio arrivo qui… a età di due anni.»
Constance arrossì. «Scusatemi. Sì, sono una donna.»
Tsering si rivolse a Pendergast. «Questa è prima donna che entra a Gsalrig Chongg. Mai accettato donna come studente. Spiacente, ma non è permesso. Specialmente ora, con cerimonie funebri per Venerabile Ralang Rinpoche.»
«Il Rinpoche è morto?» chiese Pendergast.
Tsering chinò il capo.
«La morte del Sommo Lama mi rattrista.»
A quelle parole Tsering sorrise. «Non è perdita. Presto troveremo sua reincarnazione, diciannovesimo Rinpoche. Egli sarà di nuovo tra noi. A mea rattrista non poter accogliere tua richiesta.»
«Le occorre il vostro aiuto. A me occorre il vostro aiuto. Siamo entrambi… stanchi del mondo. Abbiamo fatto molta strada in cerca di pace. Pace e purificazione.»
«So quanto duro vostro viaggio. So quante sono vostre speranze. Ma in quattromila anni di esistenza, a Gsalrig Chongg mai state presenze femminili e questo non può cambiare. Donna deve andare via.»
Vi fu un lungo silenzio, prima che Pendergast alzasse lo sguardo verso la figura immobile sulla gradinata più alta. «È ciò che ha deciso anche l’Abate?»
Gli occhi di tutti si rivolsero a...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. BUR
  3. Frontespizio
  4. La ruota del buio
  5. Ringraziamenti